L'ARTIGLIO SUI BERICI

 

Che tipo di dominazione è stata quella austriaca? Sono veri i giudizi dati all'epoca del Risorgimento nei confronti dell'amministrazione imperiale? In questo affresco sulla natura del regime di occupazione austriaco a Vicenza l'autore si cimenta tra documenti d'archivio con una "verità" complessa.

 

di Andrea Kozlovic

 

 

Vicenza, nel 1404, fu tra le prime città di terraferma ad accettare, addirittura sollecitandolo, il dominio veneziano e da allora la città berica fu, per quasi quattro secoli, fedele suddita della Dominante veneziana. Un lungo dominio, ricco di luci ma anche di molte ombre, che ebbe tuttavia il merito di assicurare alle provincie venete (non dobbiamo dimenticare che il Veneto veneziano arrivava sino all’ Adda e che solamente con Napoleone questa unità venne rotta trasferendo alla Lombardia le due provincie di Brescia e Bergamo) un lungo periodo di pace.

 

A dimostrazione della fedeltà della città e territorio, ancora nel 1797, durante il convulso periodo che precedette il suicidio dello stato veneto, i vicentini oltre a rinnovare il giuramento di fedeltà alla repubblica di San Marco contribuirono alle pressanti necessità finanziarie dello stato con raccolta di denaro: su quasi tre milioni e mezzo di ducati raccolti oltre che in terraferma, in Istria, Dalmazia e Levante, i vicentini diedero a Venezia oltre 125.000 ducati.

 

Ma tutto fu inutile, in quanto, nonostante Venezia disponesse di una flotta militare forte di oltre duecento navi, di un’artiglieria addestrata e potente (nel solo Arsenale di Venezia i francesi si impadronirono di centinaia di cannoni) e di comandanti pronti al combattimento (basta ricordare il comportamento dei comandati dei forti che si opposero con il fuoco all’ingresso in laguna delle navi francesi, affondando il Liberateur d’ltalie), l’oligarchia optò dapprima per la neutralità disarmata, permettendo così a francesi ed austriaci di trasformare la regione in un campo di battaglia, e poi per lo squagliamento generale, un otto settembre ante litteram, proclamando la propria decadenza e consegnando il governo di Venezia, e quindi dello stato, ad una Municipalità filo francese.

 

Il destino di Vicenza veniva segnato nei giorni immediatamente successivi alle Pasque veronesi. Il generale Bonaparte, dopo aver fatto duramente scontare ai cittadini di Verona il tentativo di scrollarsi di dosso un’occupazione che di democratico aveva solo il nome, essendo sempre alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento per l’esercito e di arricchimento per la repubblica transalpina decideva che era ormai giunto il momento di far gustare dapprima ai vicentini, e poi al resto della regione, le delizie dedi principi rivoluzionari.

 

Così il 26 aprile 1797, dal suo quartier generale di Villanova di San Bonifacio, uno degli aiutanti di Napoleone, il generale La Hoz, indirizzava ai vicentini  un proclama vagamente minaccioso con cui invitava, tra l’altro, ad arrestare i rappresentanti del governo veneto presenti in città, cosicché il povero capitano veneto di Vicenza Girolamo Barbaro, per sfuggire alla triste esperienza di conoscere di persona come era la vita nelle galere di Piazza delle Erbe, lasciava la città di nascosto, a piedi, da Porta San Bortolo dove, dopo due miglia, un contadino impietosito gli dava un passaggio sopra un carretto. Il mattino dopo un impettito La Hoz al comando di circa trecento scalcagnati francesi entrava in Vicenza “democratizzandola”.

 

La città ebbe così una Municipalità di 35 membri (il cui compito principale sarà quello, fino al gennaio successivo, di trovare in qualche maniera il denaro e le merci richieste a getto continuo dai francesi), l’albero della libertà, l’abolizione dei lacchè e contemporaneamente il saccheggio del Monte di Pietà, una imposizione immediata di 4.000.000 di lire venete, la requisizione e la fusione di ori ed argenti, cosa che portò alla perdita di capolavori dell’oreficeria, tra cui l’argentea forma urbis voto per la scampata peste del 1578, fusi per ricavarne qualche libbra di metallo. E quello che accadde a Vicenza fu poca cosa rispetto ai saccheggi veneziani: in pochi giorni vennero spediti a Parigi più di cinque quintali di oro ottenuto dalla fusione di oggetti di oreficeria, oltre ad opere d’arte e quant’altro ritenuto necessario alla gloria della repubblica transalpina.

 

La prima occupazione austriaca

 

I francesi rimasero in Vicenza fino al 20 gennaio 1798, quando ad essi subentrarono gli austriaci, accolti dalla maggioranza della popolazione con un respiro di sollievo (l’unica in città che si suicidò fu la marchesa Fiorenza Sale – la famiglia del marito abitava il palazzo oggi sede della Banca d’Italia) – che, anche se ardente rivoluzionaria, si tolse la vita, come una borghesuccia qualsiasi, perché abbandonata dal proprio amante, certo Lassalle, maggiore di cavalleria).

 

Posseggo un documento che è un’agghiacciante testimonianza di quanto costò alla provincia visentin-bassanese la breve occupazione francese: 7.380.869 lire venete in parte spedite alla  vorace “Madre di tutte le rivoluzioni” ed in parte spese a favore della guarnigione francese (85^ e 33^ mezza brigata) che, oltre a rivestirsi completamente e a nutrirsi a spese dei poveri polentoni si bevve anche oltre trecentomila litri di vino prosciugando le cantine di tutta la provincia. Oltre a queste spese di carattere generale vi furono anche quelle imposte a carattere personale, una specie di tangentopoli giacobina. Così il generale francese Belliard, di passaggio per Vicenza si faceva sganciare dai remissivi municipalisti vicentini ben 25.000 lire venete. Forte di tanto precedente, lo Stato Maggiore della 5A divisione provvedeva a sua volta, prima di partire in salutato ospite, a farsi anticipare 30.000 lire, mentre chi non poteva farsi dare direttamente denaro provvedeva in maniera diversa: furono ben 115 i cavalli consegnati ad ufficiali francesi della divisione Joubert, soprattutto nel corso del mese Nevoso anno 6, quando cioè si sapeva che l’armata francese era sul piede di partenza.

 

Gli austriaci che dell’onestà della loro amministrazione ne facevano un vanto, nel 1813, a ricordo del quindicennio franco-napoleonico che al Veneto era costato il dissanguamento, incorniciarono il grande documento (un foglio di circa 80 x 40 cm) e lo appesero nell’atrio dell’I.R.Delegazione Provinciale da dove venne staccato, su ordine dei piemontesi, nel 1866 che in vista delle grandi tassazioni del periodo postunitario forse non volevano essere paragonati ai grandi ladroni francesi. Il documento passò così nelle mani del custode della Delegazione Provinciale e poi, da quelle di un suo discendente, alle mie.

 

E’ da aggiungere che anche altre testimonianze del buon governo austriaco vennero, dopo il 1866, tolte dai luoghi ove erano in bella vista e relegate in luoghi nascosti. Così oggi, nel giardino del teatro olimpico possiamo vedere le iscrizioni commemorative delle opere pubbliche volute da Francesco I e Francesco Ferdinando al tempo della loro visita a Vicenza, rispettivamente il viale che attraversa il Campo Marzo ed il ponte ai piedi della salita di Santa Libera, opere volute e costruite con il denaro che l’Amministrazione Municipale aveva destinato a luminarie ed altri festeggiamenti che i sovrani austriaci “ricusarono affinché non vi fosse sperpero di pubblico denaro”.

 

Gli austriaci rimasero nel Veneto, con alterne vicende, fino al 1805. Si trattò di un’occupazione provvisoria che non lasciò molte tracce. In effetti il governo ed i generali imperiali sapevano che si trattava di un possesso che il confine all’Adige non rendeva di certo difendibile. Gli austriaci quindi si limitarono a ripristinare le vecchie magistrature veneziane che i francesi avevano in parte abolito, a riscuotere un minimo di tasse in misura accettabile da non provocare rivolte popolari, e per questo motivo non venne imposta la leva, ed a mantenere guarnigioni di sicurezza nelle città della regione. Tra gli ufficiali austriaci che in quel periodo transitarono nelle guarnigioni del Veneto vi fu anche un giovane capitano del reggimento Corazzieri nr.2 “Conte Caramelli”, Waclaw (Venceslao) Radetzky che proprio a Vicenza, nel 1798, ottenne il sospirato permesso di matrimonio di seconda classe (cioè senza poter avere con sé la propria moglie) con l’amata contessina Strassoldo.

 

Il periodo napoleonico

 

La seconda battaglia di Caldiero, il 30 ottobre 1805, apriva ai francesi le porte di Vicenza. Una dozzina di cannonate contro la fortezza del Castello (che tra l’altro distruggevano l’antico portone in acero di epoca scaligera), convincevano gli austriaci a togliere il disturbo ed iniziare una veloce ritirata attraverso l’Italia nord-orientale fino in Austria e Boemia, dove ad Austerlitz, il genio di Napoleone vinceva la grande battaglia detta “dei tre imperatori” ed il cui esito avrebbe pesato sull’Europa per almeno un decennio. Infatti, come conseguenza della successiva pace di Presburgo, il Veneto passava definitivamente alla Francia, tramite il satellite regno d’Italia.

 

Di conseguenza tutte le leggi francesi ebbero applicazione anche qui da noi dando il via a quell’ammodernamento delle strutture amministrative base ancor oggi, almeno in linea di massima, della nostra compagine statale. In linea di principio si trattava di istituti moderni, ben congegnati e che davano, cosa importantissima rispetto all’Amministrazione veneziana di dieci anni prima, la certezza del diritto. Ad esempio, in campo amministrativo il Comune venne trasformato, con le leggi del 1802 e 1805, in ente di diritto autonomo cessando di rappresentare la comunità dei cittadini, la comune; in campo territoriale si istituirono in luogo delle antiche Podestarie e Vicariati di epoca veneziana, i Cantoni, i Distretti e le unità provinciali, i Dipartimenti, retti da un prefetto nomina, per inciso, il Dipartimento del Bacchiglione che comprendeva Vicenza, era il più grande di tutto il Veneto.

 

Infatti, nel 1809, perduto il Distretto di Lonigo ceduto a Verona, passavano a Vicenza i Distretti di Bassano e Castelfranco, il Cantone di Quero e quello di Noale cosicché il Dipartimento, con i suoi 327.802 abitanti, oltre ad essere il più popoloso della regione arrivava fin quasi alle porte di Venezia, premio, secondo quanto proclamava il Prefetto barone Magenta, dovuto “al carattere vostro (dei vicentini), alla lealtà con cui avete in ogni tempo trattato i vostri vicini ed alla reputazione che vi siete acquistata coi risultati di una saggia amministrazione”.

 

Nulla sfuggì alla smania innovativa dei francesi. In campo giudiziario si introdussero le nuove strutture delle Giudicature di Pace (in ogni Cantone), Tribunali di Prima Istanza (in ogni Distretto, che nel Dipartimento erano tre: capoluogo, Schio e Bassano) e Provinciali che, oltre a sostituire i banchi di giustizia veneziani dall’incerto diritto (mancava a Venezia un Codice Penale; negli ultimi anni delle repubblica si era posto mano al progetto di stendere un Codice che ricalcasse quello austriaco o quello prussiano, ma gli eventi poi fecero dimenticare il progetto), dava al processo nuove basi con l’abolizione della tortura, la progressività della pena in rapporto al danno, l’importanza delle prove testimoniali.

 

La condizione stessa dei carcerati veniva presa a cuore dalle autorità: da un Avviso del dicembre 1810 vediamo che ai detenuti sani veniva dato un vitto composto da pane, minestra riso o pasta condita con olio o lardo, sale, carne di manzo proveniente dal pubblico macello. Se il detenuto era malato a questa razione si aggiungevano “brodo di manzo, vino buono e vecchio, uovi freschi”.

 

Anche i problemi sociali vennero affrontati, potenziando gli Istituti di beneficenza e creando “case di industria” per meno abbienti. La scuola venne particolarmente curata: in pochi anni in tutto il Veneto vennero aperte centinaia di scuole primarie, istituite a partire dall’anno scolastico 1808-09 e severe disposizioni imponevano alle autorità locali di vigilare affinché venissero regolarmente frequentate nonostante “l’impraticabilità di strade, troppa estensione di circondario, impedimenti di torrenti o altre consimili cause”.

 

In ogni capoluogo venne aperto un liceo statale, mentre alle autorità locali si lasciava mano libera per altre iniziative in campo scolastico. Così a Vicenza, nel 1810, veniva aperta una scuola di disegno per giovani (anche allora il problema della giovanile era molto sentito nelle città), artigiani ed operai. E’ interessante notare che da questo Avviso, che doveva essere letto per tre domeniche consecutive nelle Messe in cui vi era maggior presenza di fedeli, si deduce che l’ora francese (da mezzanotte a mezzanotte ) non era ancora stata introdotta e che era di uso comune quella italiana che calcolava la giornata da tramonto a tramonto.

 

La scuola, infatti iniziava le lezioni “subito dopo la campana delle 23 o degli artesani” che segnava la fine della giornata lavorativa, un’ora prima del tramonto. Anche la tassazione, almeno negli indirizzi di governo, avrebbe dovuto essere equa e, soprattutto, progressiva. Si trattava di enunciazioni di grande effetto ma che avrebbero applicate integralmente solo in uno Stato che, in pace con i vicini, avesse potuto dedicarsi interamente alle riforme interne. Invece il periodo napoleonico fu una continua guerra tra Francia e Coalizioni, con enorme dispendio di risorse ed energie. Di conseguenza le enunciazioni di principio vennero ben presto dimenticate e la tassazione, necessaria a finanziare le guerre, divenne durissima. Basti pensare che secondo il Giornale della Società francese di Statistica, fonte quindi non sospetta, l’occupazione francese nelle Venezie dal 1797 al 1814, causò un danno economico di oltre 172 milioni di franchi d’oro dell’epoca (migliaia di, miliardi al valore attuale). Anche le leggi sulla coscrizione, inizialmente molto liberali, divennero sempre più severe minacciando, di fronte al numero di disertori e renitenti  poco desiderosi di andare a morire chissà dove per la gloria della Francia, multe, pene e ritorsioni nei confronti dei parenti.

 

Il malcontento nei confronti dei francesi esplodeva nel 1809 in concomitanza di un’offensiva austriaca nel Tirolo. Tutto il Veneto si rivoltava ed i primi a pagare il fio del malcontento furono, coloro che la voce pubblica indicava come filofrancesi e gli agenti delle tasse. La rivolta, con incendi di municipi e ricevitorie delle tasse, roghi dei registri finanziari e militari, anche con atti di vero e proprio brigantaggio contro chi si sapeva ricco e che veniva derubato con l’alibi di per amico dei francesi, durò più di un mese e sedata con una severa repressione militare e fucilazioni a tutto spiano in Campo come ricorda nelle sue memorie il conte Arnaldi.

 

La calma dopo la rivolta del 1809 tu in realtà più apparente che reale: lo dimostra la renitenza alla leva sempre più massiccia, specialmente quando le voci davano imminente una nuova campagna (per fare più presto le sentenze contro i renitenti, logicamente tutti latitanti, venivano emesse non singolarmente ma addirittura per gruppi di centinaia, come nel caso discusso nel 1809 contro trecento renitenti e disertori), la criminalità spicciola sempre più diffusa, anche per la grave situazione economica, e combattuta inasprendo fino all’incredibile le pene (cito solo il caso di due poveri cristi di Vicenza, marito e moglie, spinti alla disperazione dalla fame, condannati a cinque anni di lavori forzati previa esposizione berlina, per aver rubato quindici piante di broccolo, una vanga, un badile e quattro pezzi di ferro inferriata), ed i gravi episodi di brigantaggio (ricordo le bande Stella e Terrin, forti di oltre cento componenti, in gran parte ghigliottinati a Padova alla fine del 1812) che travagliarono con sempre maggior frequenza gli ultimi anni del traballante regno d’Italia.

 

Il ritorno degli austriaci

 

Le sconfitte di Napoleone vennero salutate con gioia in tutto il regno. L’interessante diario inedito del cerimoniere vescovile di Vicenza ricorda che la notizia della ritirata da Mosca venne accolta con manifestazioni di giubilo popolare nella prospettiva che un nuovo governo portasse, assieme alla pace, una riduzione della ormai insostenibile pressione fiscale e la risoluzione del problema delle migliaia di renitenti e disertori, che riempivano come ricorda il da Schio in un suo racconto, boschi e montagne, ed il cui ritorno al lavoro dei campi era da ritenersi essenziale per l’economia della regione.

 

Che si trattasse di un problema grave lo si deduce da un Avviso delle autorità austriache della fine del 1815. Per ogni militare italiano e francese consegnato alla gendarmeria per il rimpatrio, si garantiva un premio di sei fiorini, cifra pari al salario di alcuni mesi di un bracciante: in poche settimane il problema venne risolto, grazie anche ad un’amnistia generale che convinceva anche i più ostinati che l’avventura napoleonica si era definitivamente· conclusa e che era giunto il momento di ritornare a casa.

 

Prima conseguenza della pace e del ritorno alla normalità fu che, dopo molte annate drammatiche, legate forse al fatto che non si era data alla terra l’attenzione e la cura dovuta anche per la carenza di braccia e l’eccessiva pressione fiscale, si ebbero dal 181-17 in avanti raccolti abbondanti che portarono ad una generale diminuzione dei prezzi di prima necessità come testimoniato dai Mercuriali del frumento e dagli Avvisi relativi al prezzo dei vari tipi di pane, soprattutto chioppe e bighe. Ai primi di novembre 1813 le avanguardie delle truppe del barone de Hiller, scendendo dal Tirolo italiano, dilagavano in tutta le regione trovando, come abbiamo visto, una situazione semplicemente disastrosa.  A partire dal 1809, infatti, l’imposta sulmacinato, la più odiata delle tasse, in quanto colpiva i meno abbienti nei bisogni più essenziali, l’irrigidimento dei tempo di riscossione, il forte aumento delle imposte agrarie avevano portato alla disperazione i piccoli proprietari delle provincie ex veneziane.

 

Così ad esempio, nel 18012 la prediale sorpassava, nel Veneto, la rendita delle terre costringendo chi non poteva pagare ad abbandonare i fondi per darsi all’accattonaggio, ad atti briganteschi, alla macchia. Questa situazione divenne così generalizzata che presso quasi ogni Comune venne istituito un particolare ufficio, l’Economato dei beni retrodati, per l’amministrazione dei grandi fondi - formati da decine di piccoli poderi abbandonati-passati al demanio municipale.

 

Sempre nel 1812, tanto per dare uniformità ai dati, il bilancio del regno d’Italia raggiungeva i 140 milioni di lire, con un debito pubblico che toccava quasi i 300 milioni di cui 171 iscritti nel gran libro e 125 coperti da rescrizioni sui beni nazionali. Due erano le voci che incidevano sistematicamente nell’impoverimento del paese: il tributo o corresponsione che ogni anno il regno italico pagava all’impero francese per averci fatto conoscere libertà, uguaglianza e fraternità, ed il mantenimento dell’esercito, impegnato in mezza Europa (Spagna, Russia, Germania) a difendere la grandeur francese.

 

Queste spese, un’ottantina di milioni l’anno, provocavano una continua emorragia di moneta sonante pregiata. Quando gli austriaci, tra la fine del 1813 e la primavera del 1814, occuparono il Veneto non vi era quasi più numerario, almeno a quanto riferisce lo storico Augusto Sandonà nel suo studio sul regno lombardo-veneto. Gli austriaci poi, al momento della costituzione del regno, nonostante si fossero dovuti accollare il debito del Monte Napoleone, ridussero lo scutato riuscendo a riportare le due regioni a loro sottoposte alla normalità, anche se rimase sempre un grosso divario economico, e quindi finanziario, tra la Lombardia opulenta, con un’agricoltura fiorente ed un’industria in espansione, ed il Veneto povero ed arretrato tanto che, per fare un esempio chiaramente esplicativo, nell’estate 1848 all’intera provincia di Vicenza venne accollata un’imposta straordinaria di guerra per poco più di un milione di lire austriache mentre a Milano, per lo stesso motivo, i conti Borromeo pagarono da soli quasi due milioni di lire.

 

Il regno lombardo-veneto

 

All’inizio l’occupazione austriaca sembrò essere solamente temporanea – tutti gli uffici e le cariche introdotte dai francesi vennero mantenute – in attesa che il Congresso di Vienna decidesse delle cose europee. I più ottimisti, ed i numerosi libelli ispirati a questa opinione ci fanno comprendere che si trattava di una speranza diffusa, pensavano ad una rinascita sic et sempliciter della repubblica veneta (in fin dei conti il Congresso aveva sancito perfino la ricostituzione del Principato di Monaco annesso da Napoleone alla Francia), dimenticando che il realismo politico, quello che Kissinger chiamerà realpolitik di Metternich, partiva da due concetti molto semplici: primo che la repubblica veneta si era suicidata e che quindi non aveva alcun diritto a risorgere anche perché nessuna nave, nessun soldato veneziano aveva combattuto a fianco dei nemici di Napoleone, che l’Austria aveva sopportato per quasi un ventennio il peso maggiore della guerra contro la Francia.

 

In questa guerra aveva speso somme enormi, aveva visto la capitale occupata dai francesi, la figlia stessa dell’imperatore costretta alle nozze con Napoleone, aveva rischiato la bancarotta. Era logico quindi che, uscita vincitrice dal lungo conflitto, volesse compensi territoriali per non vedere vanificati i sacrifici della guerra. Il Congresso di Vienna, non potendo obiettivamente dare altro, restituì all’Austria la Lombardia e le concesse il Veneto e le vecchie provincie veneziane in Dalmazia (escluse le isole Jonie su cui avevano già messo occhi e mani gli inglesi). Veneto e Lombardia entravano così, come regno autonomo, a fare parte del vasto, ricco e potente impero mitteleuropeo.

 

L’amministrazione

 

Lo schema amministrativo creato da Napoleone aveva dato ottima prova anche se spesso sostenuto dalle baionette e dalla ghigliottina; gli austriaci, molto pragmaticamente secondo il loro costume, mantennero in vita le strutture statali ereditate dal regno d’Italia limitandosi ad adattarle alla più generale situazione dell’impero. Così anche se il Prefetto napoleonico cambiò nome in Imperial Regio Delegato, egli mantenne tutte le caratteristiche ed i poteri del prefetto francese. Così avvenne pure per i Comuni che continuarono ad essere regolati dalle leggi 1802 e 1805.

 

Esempio generale del pragmatismo austriaco fu che le leggi del Regno d’Italia vennero mantenute in toto a meno che non contrastassero con la legislazione teresiana e giuseppina che rimaneva alla base della filosofia istituzionale austriaca. In quest’ambito venne sviluppato al massimo l’ente intermedio del Distretto (il Cantone francese) che divenne la chiave di volta del sistema di governo austriaco in Italia. A capo del Distretto, che comprendeva al massimo poco più di una decina di comune, era un Commissariato che risiedendo sul posto per anni ben conosceva la realtà economica politica e sociale dei comuni sottoposti alla sua giurisdizione, potendo così coordinare, secondo criteri dettati dalla necessità e dall’esperienza, gli interventi nel campo della pubblica istruzione, dei lavori pubblici ecc., potendo anche chiedere l’intervento dell’esercito quando particolari condizioni lo rendevano necessario come, ad esempio, impiego dei militari nella raccolta delle foglie di gelso per i bachi da seta.

 

Tanto per fare un esempio, fu merito del commissario Del Pozzo se i Sette Comuni, dopo l’abolizione della Reggenza ad opera dei francesi, si riunirono a formare un Consorzio per lo sfruttamento del patrimonio agricolo e boschivo dell’Altopiano, consorzio che durò quasi un secolo, fino al 1925. Ugualmente avvenne per la strada del Costo, costruita nel 1854 per  alleviare la grave crisi economica di cui soffriva l’Altopiano da quando le lane inglesi cominciarono ad essere preferite alle locali nei lanifici della zona.

 

La giustizia

 

In funzione del Distretto venne pure modificata la struttura giudiziaria: in luogo del Tribunale di Prima Istanza e delle Giudicature di Pace venne istituita la Pretura con ampi poteri soprattutto nei confronti di quelle che il Codice Penale indicava come Gravi Trasgressioni di Polizia, cosicché pur nell’ambito di una struttura di tipo piramidale, gli uffici di base ebbero a godere di poteri ed autonomie di certo superiori a quelli che il regno d’Italia concederà poi alle sue strutture periferiche, arrivando addirittura all’abolizione dei Distretti e riducendo drasticamente il campo di giurisdizione delle Preture.

 

L’esercito

 

A dimostrazione che ormai gli austriaci erano di casa nel lombardo-veneto, nell’estate 1815 si diede il via alla coscrizione militare. Dapprima vennero arruolati, con i coscritti delle classi 1792-1795 otto battaglioni di fanteria leggera (per un totale di circa diecimila uomini) e ciò soprattutto per non lasciare a mezza· pensione le decine di ufficiali e sottufficiali del disciolto esercito del regno d’Italia che consideravano quelle delle armi un mestiere dove l’ideologia entrava ben poco. I battaglioni di fanteria leggera si trasformarono ben presto in reggimenti regolari, su tre battaglioni: i reggimenti 13, 16,  26, 38 con reclute venete ed i reggimenti 23, 43, 44, 45 arruolati in Lombardia. In Italia non esisteva coscrizione di cavalleria ed anzi la punizione che si dava ai soldati riottosi era di trasferirli in un reggimento di cavalleria di lingua ungherese di guarnigione in Galizia o Bucovina.

 

La leva, regolata da una legge del 1819, si basava sull’estrazione a sorte del numero d’ordine di chiamata (più basso era il numero maggiori le possibilità di partire) e  la durata del servizio militare - cosa che lo rendeva poco invitante - era di otto anni, anche se il lungo servizio veniva a volte mitigato dalla concessione di permessi illimitati e congedi, soprattutto per motivi di economia, dopo due tre anni di servizio. Altro aspetto negativo del servizio militare era che le guarnigioni dei reggimenti italiani erano quasi sempre lontane dalla regione.

 

Ad esempio il reggimento nr. 16 conte Zannini in cui prestavano servizio i soldati vicentini e trevisani fu di sede dapprima a Budapest e poi a Magonza in Germania, il nr. 80 (costituito dopo il 1859 con reclute vicentine) aveva la sua sede a  Vienna, mentre il nr. 38 era in Boemia dove, nel 1866, subì per primo l’urto dell’armata prussiana, a Sadowa, lasciando sul campo decine di caduti. Solo i terzi battaglioni, detti di deposito, prestavano servizio nella regione di reclutamento e quindi l’assegnazione a questi reparti era particolarmente ambita.

 

E’ da aggiungere tuttavia che il servizio, specialmente dopo che ufficiosamente la durata della leva era stata ridotta, venne accettato con gradi di renitenza piuttosto bassi. Per citare dei dati, riporto quelli relativi al 1863-64 quando su un totale di iscritti ai registri che si aggirava sugli ottantamila giovani ed un fabbisogno di settemila soldati, i renitenti furono rispettivamente 17 e 22. In quegli stessi anni il generale Torre segnalava che nelle provincie meridionali di recente aggregazione la renitenza toccava punte del 27% a Napoli e del 21 % a Messina.

 

L’efficienza austriaca

 

Ma quale era la caratteristica comune a tutte le branche periferiche dell’Amministrazione Imperial Regia? La possiamo riassumere in due parole: rapidità ed equità. Lo riconobbe, ancora agli inizi del secolo, in un momento in cui il livore contro l’Austria era pane quotidiano in Italia, un po’ come gridare viva il duce nell’estate 1945, Augusto Sandonà, autore dell’unico, già citato, completo studio sull’amministrazione del regno lombardo veneto. In realtà recentemente si è andati molto più avanti nel giudizio sull’amministrazione austriaca in Italia: nel Convegno di Conegliano del 1979 si è posto il problema di questa amministrazione vista, a differenza di quella veneziana, come difensore delle genti di campagna nei confronti dei ceti ricchi e borghesi della città: nelle controversie tra contadini e padroni la tendenza, nell’ambito della legge, era quella di difendere il più debole.

 

Quindi, rispetto al periodo precedente, gli austriaci portarono innovazione e progresso: un’amministrazione funzionale, rapida e soprattutto onesta ed il cui ricordo, nonostante tutto, rimase vivo tra le genti venete; una leva che, anche se pesante, non fu mai selvaggia come quella degli ultimi anni del regno italico interessando in media un coscritto su dieci ed anche un certo benessere economico grazie alle grandi opere pubbliche intraprese nei primi decenni del regno lombardo veneto: fortificazioni militari, costruzione di linee ferroviarie, strade.

 

I limiti politici

 

In campo politico mancò però ogni apertura e lungimiranza: l’atteggiamento ottuso di Metternich tendeva ad escludere dal governo della cosa pubblica i ceti emergenti al cui considerevole peso economico non corrispondeva uguale peso politico. Tuttavia nel Veneto e qui a Vicenza non vi era forte opposizione: dopo i processi di Crespino nel 1817 ed altri episodi sporadici Carboneria preoccupò di tanto le autorità di polizia che addirittura permisero ai detenuti transito per le fortezze della di venire alloggiati negli alberghi cittadini e e non nel carcere “dei Forti” di piazza Erbe in quanto la loro presenza non aveva suscitato alcuna particolare emozione o curiosità tra la popolazione della città, come ricorda una nota di polizia del 1830.

 

Ugualmente, i moti del 1831 non avevano lasciato alcuna traccia sui muri dei portici di Monte Berico, ed infine nel 1843 la Direzione cittadina di Polizia segnalava in una nota, più sul faceto che sul serio, che l’unico carbonaro di cui si avesse notizia in città era un tale, abitante in contrà delle Fontanelle, che aveva dichiarato alla fidanzata di cui forse era stanco, di far parte di una società segreta che imponeva ai suoi adepti l’obbligo del celibato più assoluto.

 

Alla vigilia del ‘48

 

Quindi fu solamente verso la fine degli anni quaranta che, analogamente a quanto avveniva in tutta Europa e da ultimo anche nella stessa Vienna, presero il via i movimenti rivoluzionari per l’indipendenza locale dapprima, per la causa nazionale poi. E’ da sottolineare che qui da noi alle cause di carattere generale si aggiungeva una difficile situazione economica legata ad alcune annate agrarie particolarmente avverse, tanto che in più occasioni la Congregazione Municipale vicentina, allora retta dal Podestà Gaetano Costantini, aveva dovuto provvedere, con distribuzioni di sorgo a prezzo politico, alle necessità dei cittadini più poveri ed impedire cosi il sorgere di tensioni sociali aggravate dal fatto che la fine dei lavori di costruzione della ferrovia, con il completamento del tratto Venezia-Vicenza inaugurato nel gennaio 1846, aveva provocato un forte aumento del numero dei disoccupati. A livello provinciale quindi carenza di generi alimentari e disoccupazione.

 

A livello centrale, l’impero austriaco, agli inizi del 1848, era turbato, soprattutto in Ungheria e Boemia, da gravi agitazioni che tendevano a modificare lo status che il primo ministro Metternich si ostinava a mantenere in vita. Nel tentativo di arginare il malcontento il debole imperatore Ferdinando si trovava costretto ad imporre via via in quasi tutte le provincie dell’impero la legge che regolava “la procedura abbreviata nei processi per perturbata pubblica tranquillità” e la censura preventiva, leggi che qui nel Veneto portarono diritti in carcere Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, mentre a Vicenza il giudice Cassetti, dell’I.R.Tribunale, interrogò Valentino Pasini e Jacopo Cabianca che avevano avuto occasione di vedere abbastanza spesso i due inquisiti.

 

Nei confronti dei due vicentini non venne preso alcun provvedimento in quanto le loro giustificazioni di aver frequentato i due per motivi legati alla professione vennero accettate dal giudice che di conseguenza archiviava il troncone vicentino dell’inchiesta. Un unico vicentino finiva in carcere in quello scorcio del 1848, lo studente Guglielmo Stefani che a Padova dirigeva un periodico liberale “Il Caffè Pedrocchi”, arresto che gettava nella disperazione il padre del giovane, alto funzionario austriaco, che non sapeva come spiegare ai suoi superiori di essersi allevato una serpe in seno.

 

La primavera del  ‘48

 

Era logico supporre che la rivolta contro la conservazione rappresentata da Metternich Enascesse nelle provincie dell’impero, a Praga, Budapest, Milano; in realtà la rivoluzione iniziava proprio nella capitale, dove sulla scia di quanto avvenuto a Parigi, si ritrovarono in piazza a manifestare sia i moderati, fautori di una monarchia costituzionale che i rivoluzionari più spinti in parte propensi ad instaurare la repubblica ed in parte desiderosi di rivendicazioni sociali.

 

Dopo alcuni giorni di disordini l’imperatore Ferdinando si decideva a sacrificare il vecchio Metternich, ma questo ormai sembrava troppo poco per cui il sovrano si vide costretto ad una serie di concessioni impensabili fino ad allora: riconoscimento del principio di nazionalità e costituzione de1la Guardia Nazionale, libertà di stampa ed abrogazione delle disposizioni sulla censura, inserimento dei rappresentanti dei cittadini nelle Amministrazioni degli Stati Provinciali e Congregazioni Centrali così da allargare la base del suffragio. Nel Veneto le notizie di Vienna si conobbero la sera del 17 marzo.

 

A Venezia si ebbero manifestazioni popolari ed il governatore Pallfy; preso alla sprovvista, sperando di calmare gli animi libero dal carcere Manin e Tommaseo concedendo  anche, il giorno successivo, la costituzione della Guardia Nazionale. Anche a Milano il governatore, l’anglo-austriaco O’Donnel, venne superato dagli avvenimenti. Senza consultarsi con i militari affidava alla Municipalità il mantenimento dell’ordine pubblico compromettendo, secondo Radetzky, il prestigio imperiale che il vecchio maresciallo tentava di imporre con la forza.

 

Dopo cinque giorni di duri combattimenti le truppe austriache erano costrette ad abbandonare la città e tutta la Lombardia per ritirarsi entro le fortezze del Quadrilatero in attesa che la situazione si schiarisse e permettesse di prendere decisioni ben precise. Nel Veneto non si ebbe spargimento di sangue. A Venezia le autorità austriache non vollero nemmeno affrontare le agitazioni popolari anche perché la guarnigione della città, a parte alcuni reparti di lingua tedesca del reggimento Kinski era formata da soldati veneti che, dopo aver gettato a mare le coccarde giallo-nere che ornavano i loro chepì, avevano fatto capire di non essere disposti ad intervenire contro i cittadini. Il giorno 22 marzo il governatore Pallfy si vedeva costretto a cedere i poteri al Municipio, abbandonare Venezia ed, assieme ai soldati e funzionari tedeschi, imbarcarsi per Trieste, mentre in città nasceva un governo provvisorio i cui capi Manin, Tommaseo, Paleocapa si proponevano di far rivivere l’antica repubblica di San Marco.

 

La rivoluzione a Vicenza

 

A Vicenza le prime notizie della rivoluzione di Vienna si ebbero il giorno 17, provocando l’entusiasmo dei cittadini, mentre le autorità municipali, non avendo loro stessi le idee ben chiare su quanto stava avvenendo, sui fini delle manifestazioni di esultanza popolare e sul futuro, si limitarono a pubblicare un prudentissimo Manifesto con cui si  invitava la gente a cessare ogni manifestazione ed assumere un contegno calmo e dignitoso.

 

Nuove manifestazioni si ebbero il mattino successivo all’arrivo del corriere da Milano che portava le prime notizie sulle sparatorie e barricate nella capitale lombarda; solo allora un improvvisato comitato iniziava a discutere, in Municipio, sulla possibilità di costituire anche a Vicenza, sulla base delle risoluzioni imperiali, la Guardia Civica. Tutto però veniva condotto in un clima di estrema prudenza, per non irritare i militari austriaci, in quanto in città aveva sede una guarnigione forte di due battaglioni del reggimento nr.27 Barone Piret, di alcuni squadroni di cavalleria e di una batteria d’artiglieria su sei pezzi. Inoltre i soldati erano tutti di lingua tedesca, da solo pochi mesi in città, e quindi assolutamente impermeabili alle nuove idee.

 

Il clima di Vicenza di quei giorni è ben descritto in una breve memoria di Giacomo Zanellato che fu poi comandante della Guardia Civica fino al 10 giugno 1848: “tutti unanimi parevano impazziti correndo dai mercanti a prendersi i fazzoletti a tre colori e poi pubblicamente spiegarli per strada a guisa di bandiera..... Li 19  detto fu istituita provvisoriamente la Guardia Civica e ancora quella sera cominciò andare in pattuglia, come dicevano, per la pubblica tranquilità e buon ordine. Li 20 detto la Guardia Civica montò il Corpo di Guardia nel Casino del Duomo .... , si fece anche progetto di· prendere il Corpo di Guardia in Piaza, ma non fu eseguito alcun tentativo, il che venne a cognizione dell’ Armata Imperiale che si apparecchiò alla difesa ... “

 

Quindi anche a Vicenza si costituiva, il 19 marzo 1848, la Guardia Civica e se anche Zanellato dà l’impressione che si trattasse di un corpo ben armato ed organizzato, dai documenti sappiamo·che l’armamento era costituito da vecchi archibugi, fucili da caccia e sciabole rugginose prese nei dei corpi di reato del Tribunale. Solo 1’arrivo di un carico d’armi da Venezia, sfuggito all’occhiuta sorveglianza dei militari austriaci, aveva migliorato la situazione. I giorni successivi furono giorni d’attesa. La guarnigione austriaca non dava segno di voler lasciare la città e quindi, a parte le pattuglie della Guardia Civica in giro per la città, tutto continuaava come prima.

 

Anzi a peggiorare la situazione corse la notizia che il maresciallo Costantino d’Aspre, con la numerosa guarnigione padovana, stava ripiegando su Vicenza. Ma in fondo anche questa notizia fu salutata con gioia in quanto a prima vista dettata dal timore di impegnare i soldati austriaci con la Guardia Nazionale e venne pertanto considerata una vittoria del partito rivoluzionario in quanto come a Milano e Venezia il temibile esercito imperial regio preferiva lasciare il campo e ritirarsi entro le fortezze del veronese. In realtà la decisione del maresciallo D’Aspre nasceva da considerazioni che erano espressione della sua professionalità; egli considèrava inutile impegolarsi in combattimenti che non avrebbero portato a nulla. Importante era invece portare in salvo il maggior numero di uomini e di mezzi finanziari in previsione di una guerra lunga e costosa.

 

Ed infatti, appena giunto a Vicenza, egli tentò di alleggerire le casse della Congregazione Municipale ricche di oltre ottantamila fiorini, accontentandosi poi, sulla base di cavilli giuridici oppostigli dai responsabili degli uffici finanziari del Comune, di soli quattordicimila oltre al mantenimento della truppa durante il soggiorno in città. n soggiorno del maresciallo D’Aspre a Vicenza fu molto breve: il 25 marzo a mezzogiorno tutti i soldati austriaci lasciavano la città e fu solo quando si fu ben sicuri che la colonna era ormai lontana che in città prese vita un governo provvisorio presieduto da Gianpaolo Bonollo e Sebastiano Tecchio e di cui facevano parte anche gli abati don Giuseppe Fogazzaro e donGiovanni Rossi, il notaio Verona, il nobile Loschi, il macellaio Tognato.

 

Tra i primi atti di governo, il 27 marzo, la proclamata volontà politica di fusione con Venezia in vista della rinascita della Repubblica; ugualmente si comportarono le altre municipalità del Veneto (esclusa logicamente Verona dove erano affluite tutte le forze austriache in Italia), in quanto la rivoluzione non aveva ancora superato la fase locale a favore di un’ottica nazionale. Fu solo dopo le prime sconfitte, quando si vide che gli austriaci erano tutt’altro che sconfitti ed anzi sul punto di riprendere l’iniziativa sul piano militare, che nelle provincie venete di terraferma prevalsero i fautori del partito filopiemontese nella convinzione che solo con l’aiuto dell’esercito di Carlo Alberto si sarebbe potuta contrastare la strapotenza austriaca.

 

Le decisioni di Radetzky

 

Comunque, alla fine di marzo 1848, nel Veneto si festeggiava la ritrovata libertà ed indipendenza ed anche le riforme e gli sgravi fiscali (prima tra tutte l’abolizione dell’odiata tassa personale, sostitutiva del dazio consumo nei comuni non murati, di tipo capitario e svincolata dal reddito, per cui doveva essere pagata anche da chi, al limite, viveva di elemosine), e quando si parlava di Radetzky lo si dava ormai per spacciato.

 

In effetti Radetzky si trovava in estrema difficoltà, con un esercito in pratica dimezzato, non più di trentamila uomini sui settantamila che formavano normalmente 1’armata d’Italia, le provincie italiane in rivolta, senza rifornimenti e poco denaro in era stato costretto  ad abbandonare a Milano alcuni milioni di lire austriache in oro monetato e barre ed ugualmente a Venezia il governatore Pallfy aveva lasciato al governo provvisorio le casse luogotenenziali per oltre sei milioni di lire austriache, cifra· che permetterà ai veneziani di affrontare senza grosse preoccupazioni, almeno l’inizio,della guerra contro l’Austria.

 

A sollevare il morale del maresciallo e del suo stato maggiore di non contribuivano le notizie provenienti dall’Austria: la capitale dell’impero in rivolta e l’ordine dell’imperatore Ferdinando, su suggerimento del potente consigliere imperiale barone de Bruck, di considerare le provincie italiane ormai perdute e ripiegare con tutte le forze a disposizione sul Tirolo italiano.

 

Ai primi di aprile Radetzky, appoggiato in questo dai fedeli Hess, D’Aspre e Gebrardi, era allora indeciso se eseguire o meno questo ordine. Ma prima di prendere una decisione sul da farsi, in un senso o nell’altro cioè se obbedire o meno all’ordine imperiale, egli volle concedere qualche di riposo ai soldati stremati dai continui  combattimenti e dalla lunga ritirata, avere nuove notizie sulla situazione di corte dove la posizione dell’imperatore Ferdinando, una colomba, si era indebolita a favore dei fautori dei metodi forti (ed infatti a dicembre si avrà l’abdicazione a favore del fratello Francesco Carlo che a sua volta cederà la corona al figlio Francesco Giuseppe) e nel contempo saggiare la pressione nemica ad oriente così da poter valutare i tempi di ritiro dei presidi più periferici. Da quest’ultima decisione la guerra prenderà una svolta imprevista: il modesto fatto d’arme di Sorio determinerà la volontà austriaca di considerare la campagna tutt’altro che perduta.

 

La giornata di Sorio

 

Infatti la colonna comandata dal principe di Liechtenstein (che avendo comandato fino al dicembre precedente la guarnigione vicentina conosceva il terreno come le sue tasche essendo sede delle manovre estive dei soldati ai suoi ordini) uscita da Verona con compiti di esplorazione a largo raggio doveva costituire il termine di paragone della possibilità austriaca di resistenza in Italia anche perché l’aver perduto tra disertori e sbandati circa metà della truppa aveva paradossalmente rinforzato l’esercito a disposizione del maresciallo.

 

Se ne erano andati gli elementi infidi, coloro che sarebbero stati solo di peso (e la dimostrazione è che nemmeno i piemontesi accolsero nelle loro file, a parte eccezioni, i disertori austriaci), era rimasto quello che oggi si chiamerebbe zoccolo duro, il nucleo più fidato, più sicuro dell’Armata d’Italia e su cui Radetzky ed Hess potevano saldamente contare per portare a termine vittoriosamente in meno di cinque mesi una campagna che alla fine di marzo sembrava irrimediabilmente compromessa. Sorio fu il banco di prova della qualità professionale delle truppe austriache da una parte, e delle milizie venete dall’altra.

 

Ma prima di arrivare alla giornata di Sorio e mentre Radetzky si macerava sul da farsi, vediamo cosa stava succedendo nelle città venete di terraferma. Grande euforia e certezza di vittoria erano il pane quotidiano di quei giorni. Ed in questo clima si erano radunati a Vicenza centinaia di volontari, quasi duemila per l’esattezza, molti dei quali studenti, con il compito di proteggere la città da improbabili ritorni offensivi austriaci e soprattutto per essere pronti a piombare su Verona, per liberarla, non appena l’ultimo soldato austriaco avesse abbandonato la città.

 

Questi volontari, detti crociati per la croce che portavano cucita sulla giubba in omaggio a Pio IX ed alle idee neoguelfe di Gioberti (il cui pensiero politico, assieme a quello del repubblicano Mazzini costituiva gran parte della base ideologica dei movimenti antiaustriaci in Italia dopo il tramonto della Carboneria), ai primi di aprile uscivano da Vicenza diretti a Verona nonostante le gravi carenze di armamento e soprattutto di comando, avendo come generale un vecchio rudere che aveva militato sotto la Serenissima e Napoleone, il quasi ottantenne Sanfermo che alle perplessità del Pasini, che avendolo visto e dubitando delle sue capacità di condottiero gli chiedeva come intendeva agire, rispondeva con supponenza di avere un piano e che Radetzky “me lo becolo mi”. Per sua disgrazia, proprio mentre i crociati uscivano verso Verona, i soldati del generale Liechtenstein iniziavano la loro puntata verso il vicentino. Dall’incontro, quasi casuale, e dal successivo scontro - la giornata di Sorio - i crociati e Sanfermo ne usciranno con le ossa rotte, mentre le vicende politiche del Risorgimento veneto si modificheranno radicalmente.

 

Quella giornata nera

 

Vale la pena di perdere un po’ di tempo per descrivere ed analizzare la giornata di Sorio. Già Della Marmora, osservando i crociati prima della partenza si chiedeva come si sarebbero comportati di fronte ad una carica di cavalleria o al fuoco della fanteria di linea. Comunque egli si limitò a scaricarsi la coscienza scrivendo una bella relazione a Venezia e, magari nel suo intimo, pregando che lo stellone d’Italia facesse il resto. Per gli austriaci si trattò di una scaramuccia o poco più. La relazione pubblicata nel 1852 ricorda che “ ... il combattimento fu breve... Liechtenstein diè l’assalto al ponte del Chiampo, prese due cannoni ed entrò d’assalto in Montebello dove fu ricevuto a colpi di moschetto dalle finestre. Perciò quel luogo fu saccheggiato... A Sorio incontrava invece qualche maggior resistenza che però fu facilmente superata dalle truppe e pure qui prese due cannoni e volse il nemico in fuga disordinata verso Vicenza: in questo scontro avemmo due morti e nove feriti. Il nemico lasciò sul terreno da sessanta ad ottanta uomini e Liechtenstein condusse a Verona un buon numero di prigionieri i quali avevano somiglianza più che i soldati di una banda di malfattori... I volontari veneti avevano ricevuto una lezione... “

 

Ed in effetti Sorio portò alla scomparsa dalla storia militare della prima guerra del risorgimento dei corpi volontari il cui posto venne preso dalle preparate milizie pontificie e svizzere, cioè fanteria di linea capace di sostenere e rintuzzare qualsiasi tipo di attacco. Anche lo storico vicentino Vittorio Meneghello, autore di una rievocazione del quarantotto vicentino apparsa in occasione del quarantesimo annniversario del fatto d’arme, a parte il tono patriottardo e messianico da guerra santa (anzi così egli intitola il capitolo che contiene la descrizione della battaglia), è costretto a riconoscere la superiorità manovriera austriaca ed anche il Molon, che fu a Sorio, riconosce che “per gli austriaci non fu difficile prendere i tre cannoni ai soldati volontari affatto novizi al fuoco e poco curanti della disciplina, aggiungendosi la coscienza di essere, in caso di cattura, fucilati, non poteva certo ispirare un coraggioso comportamento ai soldati del battaglione veneto Zannini che avevano pochi giorni innnanzi disertato a Treviso... Il nemico avanzavasi costantemente perché non trovava resistenza che valesse a contrastargli il passo ed obbligò i nostri a ritirarsi a Vicenza”. Anche perché, come ricorda sempre il Molon, l’attacco austriaco fu del tutto imprevisto. Egli infatti, i suoi compagni ed una lieta comitiva di fanciulle vicentine, venute a portare conforto ai guerrieri, stavano gustando “un’eccellente minestra nell’osteria di Torri di Confine quando d’improvviso una cannonata del nemico colpì l’angolo della sala dove si pranzava... Ricorderò sempre il parapiglia, il fuggi fuggi generale e giungemmo sul far della sera a Montebello... ” 

 

Una testimonianza dissacrante 

 

Ma la più interessante e divertente testimonianza della battaglia di Sorio è quella, molto dissacrante, pubblicata nel 1868 su il giornale veneziano “Il Rinnovamento” da un reduce del combattimento. “ ...Un bel mattino, il rimbombo del cannone echeggiando fino a Vicenza, partiamo per vedere che ci fosse di nuovo. Arrivati sul sito il primo che trovo è il Tecchio con il suo magnifico jattagan turco che inanimava l’esercito italiano che s’era appiattito lungo gli argini del ponte della Fracanzana in un fosso sulla cui riva erano stati disposti dei sacchi di sabbia. Mi pare ancora di esser là. Di lì abbasso scoppiava la nostra moschetteria, mentre sul bel mezzo del ponte stava il generalissimo San Fermo vestito in frac e calzoni neri, col cappello all’Emani e con un cannocchiale dalle cui lenti diceva che vedeva il nemico. “Difatti qualcosa di luccicante si vedea ben lontano, ma parea che quel brulicume indistinto non si desse gran fastidio del nostro terribile fuoco. Ai piedi del generale, sul ponte, avevamo un cannone colla polvere un po’ bagnata perché il mattino aveva piovuto. - Tirate adesso un bel colpo! - disse il generale all’artigliere unico del nostro unico cannone. “L’artigliere dà fuoco alla miccia, non si ritira a tempo; il cannone esplodendo rinculla, e una gamba dell’unico artigliere se ne va in pezzi. Vi lascio immaginare la costernazione che si impossessò del campo. La vittoria ce ci sorrida fin d mattino perché nessuno era venuto a molestare i nostri colpi, cominciò a volgerci la faccia, ed ecco come. Il generale Lichtenstein che comandava quel piccolo distaccamento che vedeva o luccicare da lungi, vedere che cosa fosse questo scoppiettio di colpi che s’udivano dalla nostra parte, mandò uno squadrone a fare una corsa verso d noi. Il generale dell’esercito italiano lasciò scappare il grido - chi può si salvi - e per aggiungere alla voce l’esempio, corse giù alla prima osteria di Montebello, e impossessatosi della prima carrozza che trovò, filò ad otto gambe per Vicenza. Tecchio ed io venivamo giù quietamente per la nostra strada, quando vedemmo passarci dinnanzi a carriera aperta il colonnello Gritti sopra un bel caval bianco, gridando che andava a prendere soccorso a Venezia. Dopo di lui, ma correndo più di lui, vedemmo il nostro amico Bellotti che arrivò a Vicenza in tempo di gittarsi entro un vagone e filare ancora la sera per Venezia. E l’uno e l’altro di questi due miei amici ebbero il poco spirito di non volersi sentire dire ch’erano scappati... Quelli che non giunsero in tempo a scappare furono circa 80 volontari padovani che erano stati girati dagli astraici e presi sul sito. Intanto Tecchio ed io eravamo arrivati in paese a Montebello dove doveva esserci la carrozza del comitato – ma il generale se l’era beccata e noi rimanemmo a piedi… Così facemmo il nostro ingresso a Vicenza, messaggeri della ritirata del nostro esercito, di cui non sapevamo ai molti che ci chiedevano ansiose novelle che cosa veramente rispondere, perché non sapevamo proprio spiegarci ancora che cosa avesse prodotto quella baraonda. A tornare su certe fasi della nostra grande rivoluzione non si può mica fare a meno di ridere. La ritirata (un altro direbbe la scappata) del nostro esercito da Montebello e da Sorio fattasi se vogliamo, con poco buon ordine perché il generale se n’era andato in vettura, i colonnelli a cavallo e gli altri a gambe, avea gittato uno sgomento nelle prime ore in città, perché ci apparecchiavamo a vedere gli austriaci tornare a Vicenza”.

 

"Si vede che non era nei loro calcoli questo ritorno, perché se avessero voluto, non avevano proprio a far altro che venire. Intanto però siccome la linea avanzata era sguernita e il nostro esercito non aveva intenzione di ricomporsi per occuparla di nuovo, i più prudenti pensarono di portar al sicuro la propria famiglia a Venezia”.

 

Una sconfitta cui nessuno voleva credere, primo fra tutti il Comitato che pure aveva visto tra i protagonisti, si fa per dire, lo stesso Sebastiano Tecchio. Si decise di mandare una persona fidata, Stefano Dalla Vecchia, ad indagare sul campo di battaglia. Questi “prono ai voleri del Comitato”, al ritorno riferiva della precipitosa fuga dei crociati che avevano abbandonato, sul campo di battaglia, e nei luoghi dove erano stati accampati “centinaia di coperte e stuoie materasso, vestiario e cappotti, pacchi di posate, involti di biancheria, scarpe e stivali assieme a sciabole, pistole e fucili”, consegnando al Comitato i conti di quanto gli austriaci avevano mangiato e bevuto nelle osterie lasciando a Pio IX o a chi per lui l’onere del pagamento. 

 

Si ricorre a Carlo Alberto

 

L’otto aprile dunque gli austriaci uscivano vincitori dal fatto d’arme di Sorio, anche se si trattava di astraici solo per modo di dire, in quanto le 15 smilze compagnie uscite da Verona per scontrarsi con i crociati erano composte da soldati tratti dai reggimenti Geppert nr. 43, arruolato in alta Lombardia tra Como e Varerse ed Haugwitz nr. 38 la cui area di circoscrizione comprendeva le provincie di Brescia, Verona e Vicenza.

 

Sorio in ultima analisi fu una scaramuccia e come tale venne trattata dagli storici militari, quando si ricordarono di parlarne. Maggiori invece le sue conseguenze sul piano politico. Infatti, conosciuto l’esito dello scontro (e fatti liberare i prigionieri catturati a parte uno che era stato così astuto da farsi catturare ancora vestito della divisa austriaca e che per tale motivo venne fucilato), Radetzky comprese che non avrebbe avuto molto da temere dalle truppe volontarie venete che aveva scoperto essere male armate e peggio, anzi per niente, addestrate e ciò rafforzò in lui la volontà di disobbedire all’imperatore, di tenere ad ogni costo il Quadrilatero in attesa che l’esercito piemontese, lontano dalle sue basi, si logorasse perdendo la spinta offensiva iniziale che l’aveva portato in una decina di giorni dal Ticino al Mincio.

 

Da parte veneta la giornata di Sorio mise chiaramente in evidenza i limiti delle possibilità dei veneziani sia in uomini, nel senso di soldati addestrati - tanto che per la difesa della terraferma veneta si fece conto esclusivamente sulle truppe pontificie comandate dal generale Durando cosicché la loro resa a Vicenza, il 10 giugno successivo, porterà in una settimana alla caduta di tutto il Veneto esclusa Venezia che poté continuare a resistere perchè protetta dalle sue lagune - che in mezzi, in quanto, consumate rapidamente le risorse in metallo - prezioso lasciate dal governatore Pallfy si dovette ricorrere alla carta moneta (ne esistevano di due tipi: comunale, garantita dai beni del comune, e patriottica, garantita dai beni delle famiglie abbienti) ma che fuori Venezia, dove si ricorreva per quanto necessario alla difesa della città nessuno voleva.

 

Di questa carta moneta ne venne stampato l’equivalente di una sessantina di milioni che gli austriaci, nel 1849, per non rovinare completamente l’economia della città, cambieranno in parte al 25% del valore reale. Persa la fiducia nei confronti di Venezia (almeno a livello dei più importanti dirigenti politici qui a Vicenza Sebastiano Tecchio che era l’anima del Comitato Dipartimentale) ci si dovette rivolgere come ultima speranza a Carlo Alberto il cui esercito era quasi alle porte di Verona, e per stimolare ulteriormente la sua decisione a continuare la guerra fino alla conclusione vittoriosa, gli si offrì l’esca dell’annessione delle provincie venete di terraferma al regno di Sardegna. In pratica un do ut des : tu fai morire i tuoi soldati per noi e noi, come ricompensa diventiamo tuoi sudditi.

 

Nel Veneto, i vicentini furono i primi a decidere in questo senso: il 13 aprile dopo un lungo viaggio per permettere di aggirare le  linee austriache, una deputazione era al campo di Carlo Alberto per chiedere soccorso e protezione e per esprimere il desiderio che Veneto e Lombardia unissero “in un solo Stato coi nostri fratelli va Voi retti”. Il 13 aprile segna la fine della fase veneziana dell’insurrezione ed il passaggio a quella nazionale; a Sebastiano Tecchio si deve riconoscere il merito di aver compreso appieno i limiti delle idee di Manin e Tommaseo rimasti fermi alla romantica concezione di far rinascere la repubblica di Venezia.

 

Manin e Tommaseo cercarono invano di contrastare la frenetica attività di Tecchio che si era affrettato ad indire una “sottoscrizione”, in pratica un referendum, a favore dell’annessione non riconoscendone i risultati (56.328 voti a favore), anche perché interi distretti non avevano votato - Asiago per esempio - rimanendo fedeli alle direttive emanate da Venezia in contrasto con il decreto favorevole all’annessione al regno di Sardegna.

 

Tutti questi contrasti rimasero solamente a livello teorico in quanto i risultati del voto vennero pubblicati il primo giugno quando ormai Radetzky aveva deciso di togliere dal suo fianco la spina Vicenza e stava avvicinandosi a tappe forzate alla città; a sua volta il giornale ufficiale piemontese pubblicava il decreto di annessione il 13 luglio quando ormai gli austriaci da più di un mese avevano rioccupato il Veneto e stavano concentrando le proprie forze in vista della battaglia di Custoza che avrebbe saldato il conto a Carlo Alberto. Motivi politici quindi imponevano l’appoggio di Carlo Alberto, ma anche motivi militari.

 

Lo Stato Maggiore austriaco poteva essere accusato di tutto ma non d’inerzia. Già alla fine di marzo con richiami di riservisti e nuove leve nella fedele Slovenia si era costituita una forte armata di riserva di cui una forte frazione (III Corpo d’Armata secondo la denominazione ufficiale) veniva inviata in Italia in soccorso di Radetzky. Componevano questo corpo sedici battaglioni di fanteria, nove squadroni di cavalleria, una mezza dozzina di batterie d’artiglieria. Per Radetzky un aiuto importante, essenziale per pareggiare o ribaltare i rapporti di forze con i piemontesi. Per questi ultimi, la più elementare strategia avrebbe dovuto portare a considerare la necessità di concludere la campagna prima che Radetzky potesse rafforzarsi e prima che l’entusiasmo che aveva animato i reparti all’inizio della guerra svanisse in conseguenza della lunghezza della campagna, della difficoltà dei rifornimenti e prima che la stagione calda rendesse poco salubre la malarifera zona a sud del Garda. Invece l’italico Amleto ed il suo stato maggiore si persero in azioni di scarsa importanza rispetto ai fini ultimi della guerra quali l’assedio di Peschiera e la puntata di Santa Lucia, mentre il III Corpo, comandato dal generale Thurn, occupata Udine il 23 aprile, traversava tranquillamente il Veneto. 

 

La giornata del 20 maggio 

 

Il 20 maggio le avanguardie di questo Corpo erano davanti alle mura di Vicenza a Santa Lucia. Qui il generale Thurn volle saggiare la volontà di resistenza dei difensori della città, senza impegnarsi a fondo, anche perché gli ordini imponevano di raggiungere Verona con più forze possibili. Fu un breve combattimento: qualche cannonata, una decina di morti da una parte e dall’altra e la decisione austriaca di aggirare da nord la città per riprendere poi, verso Ponte. Alto, la strada per Verona. Però la notizia di questo tentativo austriaco suscitava apprensione a Venezia.

 

Il mattino del giorno successivo, con un treno speciale (primo esempio nella storia delle guerre di uso della ferrovia per il trasporto rapido di truppe), giungevano a Vicenza alcune compagnie al comando del colonnello Giacomo Antonini “ai cui fianchi marciavan Manin e Tommaseo coi loro fucili in spalla e pistole ai fianchi, e tutti e due in occhiali perché corti di vista. Il loro aspetto proprio non era marziale e… forse avrebbero fatto meglio a restare a casa”. Memore dei suoi trascorsi napoleonici Antonimi volle gettarsi contro gli austriaci (mentre Manin e Tommaseo rimanevano prudentemente in città): “Quando gli austriaci vennero avvisati dalla retroguardia che noi andavamo a molestarli  scrive un testimone del fatto -si voltarono subito indietro, ci piantarono in direzione del muso i loro cannoni... e ciò che ci abbiamo guadagnato è stato un braccio portato via al generale Antonini da un colpo di razzo e una vera strage di feriti nella sua prode legione… Dopo di che se ne andarono contenti d’averci avvisati che le imprudenze non si commettono impunemente”. E mentre gli austriaci proseguivano verso Verona, Antonini ed il suo braccio venivano portati a Venezia dove qualche bello spirito propose addirittura che il braccio di Antonini venisse esposto, chiuso nel reliquiario che aveva contenuto il cuore dell’arciduca Federico, alla venerazione nella chiesa di San Biagio.

 

Il secondo attacco

 

Due giorni più tardi, il 23 maggio, nuovo tentativo, ma questa volta più deciso, degli austriaci di occupare Vicenza. Le truppe del generale Thurn, quando erano ormai giunte a Villanova di San Bonifacio e pregustavano il piacere di qualche giorno di riposo a Verona, ricevettero l’ordine di attaccare, dopo una rapida retromarcia, la città berica dalla parte occidentale. Nelle intenzioni doveva trattarsi di un’azione di sorpresa; in realtà il maltempo, gli allagamenti provocati dal taglio degli argini del Retrone e l’interruzione dei ponti rallentarono talmente l’azione da permettere ai difensori della città di non farsi cogliere impreparati.

 

Dopo una notte di combattimenti alla periferia della città all’Osteria alla Loggetta in Borgo san Felice, alla Rocchetta ed in Campo Marzo - le truppe del III Corpo riprendevano, definitivamente questa volta, la marcia alla volta di Verona. In città si ripeterono le manifestazioni di giubilo del 25 marzo; in realtà i combattimenti di iniziativa e che in effetti essi erano padroni di manovrare in tutto il Veneto, trovando solo opposizione statica, al riparo delle città, senza che vi fosse una strategia manovriera capace di opporsi ai loro disegni. Infatti permettere alle truppe di Thurn di raggiungere Verona fu un grosso errore che Durando, Manin, Tommaseo e gli altri soloni al soldo della rivoluzione non compresero minimamente.

 

E’ da considerare infatti che fino alla fine di maggio Radetzky aveva a disposizione per tenere Verona e le altre fortezze del Quadrilatero (Mantova, Legnago e Peschiera, quest’ultima assediata dai piemontesi) non più di trentamila uomini con i quali poteva resistere solo ad eventuali attacchi. Quindi fino all’arrivo in Verona dei rinforzi guidati da Thurn, al maresciallo restava solo solo da sperare nell’inazione dei piemontesi - che presi dall’assedio di Peschiera fecero di tutto per accontentarlo ed in effetti egli nulla fece per stimolarli ad uno scontro in forze limitandosi a far sperimentare loro la tenuta dei suoi reparti come nel caso della già citata battaglia di Santa Lucia dove un battaglione cacciatori (il X per l’esattezza) e poche altre compagnie bloccarono parte dell’armata piemontese. 

 

La nuova strategia di Radetzky

 

Con l’arrivo di Thurn le cose cambiarono radicalmente. Venne costituita una massa di manovra, forte di trentamila uomini, con cui condurre una guerra di movimento tesa a concludere rapidamente ed in modo favorevole la campagna. Se Curtatone e Montanara fecero nuovamente comprendere che e volontari contavano poco o nulla, nonostante la retorica che la stampa piemontese andava ricamando su queste formazioni che sembravano composte tutte solo da fulgidi eroi (anche se l’abate Bresciani, ricordando quel periodo, descrive universitari e crociati in tutt’altra maniera. Al loro passaggio “le città serrano i fondachi e le botteghe come se vi passassero le bande dei Cosacchi e dei Panduri in quanto loro consuetudine era rubacchiare, manomettere,guastare quanto capitava sotto le loro unghie. Cacciare i padroni di casa a dormire sulla paglia, vuotare loro le cantine e i pollai, pulirsi le scarpe con le lenzuola, lordare le mura, scacazzare le camere, rompere i vetri... “era loro consuetudine, un ardore da lanzichenecchi che arrivava a depredare i morti e perfino i feriti litigando poi per il possesso degli oggetti come ricorda Francesco Molon nelle sue memorie), l’incerta giornata di Goito dimostrava l’ancora buona tenuta delle truppe piemontesi.

 

L’impossibilità quindi di colpire duramente e di sorpresa l’esercito sardo costrinse lo Stato Maggiore austriaco ad una nuova strategia: avendo di fronte due avversari (piemontesi e svizzeri e romani), e non potendo batterli contemporaneamente era giocoforza battere per primo il più debole. Di qui una rapida marcia dell’Armata di manovra austriaca verso Legnano e Montagnana, come se la meta definitiva fosse Padova, e poi la conversione su Vicenza. Infatti sia gli stessi soldati austriaci, come pure il Comitato vicentino compresero quale era l’obiettivo di Radetzky solamente a mezzogiorno dell’otto giugno quando si imboccò la strada per Vicenza e quando i sottufficiali d’alloggio si presentavano al Podestà di Barbarano imponendo la consegna di alcune decine di buoi per alimentare le truppe.

 

Anzi è da dire che il Comitato vicentino sottovalutò la presenza austriaca a pochi chilometri dalla città. In un dispaccio della sera dell’otto giugno l’abate Rossi si limitava a segnalare la presenza di queste truppe, valutabili a 4.500 uomini, una forza di certo non in grado di impensierire i difensori della città. La mattina del dieci giugno, quando si scoprirà che i soldati austriaci erano quasi trentamila, sarà ormai troppo tardi per correre ai ripari. 

 

PerchéVicenza? 

 

Perché Radetzky scelse come obiettivo Vicenza? Con questa manovra il maresciallo tendeva a rendere sicure le sue retrovie prossime a Verona e ristabilire sicure comunicazioni, togliendo di mezzo prima Vicenza e poi Treviso, con l’Austria e la Slovenia dove il bano Jellacic stava radunando un esercito che avrebbe avuto grande importanza negli avvenimenti della seconda metà di quell’anno. Inoltre non dobbiamo dimenticare che Venezia aveva perso ogni capacità offensiva, che gli altri principi italiani cominciavano a dare segni di insofferenza nei confronti di una guerra che in ultima analisi avrebbe portato vantaggi solo a Carlo Alberto; sarebbe bastata, agli austriaci, una vittoria di grande risonanza e di non difficile ottenimento per raggiungere lo scopo di eliminare il pericolo di un attacco alle spalle, togliere di mezzo le truppe non piemontesi ed esaltare, con la conquista di una grande e ricca città, il morale dei soldati che ormai da due mesi si vedevano sballottati qua e là per l’Italia settentrionale senza concludere nulla.

 

Si scelse Vicenza perché qui erano concentrati oltre diecimila soldati, in pratica la quasi totalità delle forze italiane regolari e volontarie accorse nel Veneto: la loro resa avrebbe tolto qualsiasi apporto militare a tutte le altre città venete. Ed infatti la caduta di Vicenza porterà automaticamente alla caduta di tutto il Veneto: dapprima Treviso, il 14 giugno, poi Padova e Rovigo che Venezia non poté in alcun modo difendere e sostenere. Inoltre, se attaccata con forze sufficienti e nella giusta maniera, Vicenza non era un grosso problema strategico: occupare il Monte Berico voleva dire avere in mano la città.

 

Ed infatti lo stesso generale Durando, da buon professionista, non era per nulla convinto della possibilità di difendere la città e per evitare di farlo non aveva trovato di meglio, subito dopo il 23 maggio, di obbedire all’ordine del generale Franzini che gli ingiungeva di raggiungere, con il grosso delle sue forze l’ala destra dell’armata sarda ed unirsi alla divisione del Duca di Savoia. Considerazioni varie lo indussero a rimanere, soprattutto la sinistra impressione che, sulla popolazione del Veneto e di Vicenza in particolare, stava dando la voce della prossima partenza delle truppe pontificie e delle possibili vendette degli austriaci al loro ritorno.

 

Presa quindi la decisione di rimanere, era intenzione di Durando di prolungare al massimo l’eventuale battaglia per Vicenza per dare così modo alle truppe di Carlo Alberto di approfittare della congiuntura per attaccare la sguernita Verona mentre il grosso dell’armata austriaca era impegnata ad assediare Vicenza. Venne addirittura inviato un messo al campo di Carlo Alberto ma questi, il dottor Costantino Canella, o non seppe spiegarsi bene o non seppe perorare con il giusto ardore la consegna, fatto sta che al momento di concludere mancò ogni coordinamento tra forze pontificie e piemontesi con gran sollievo di Radetzky che, presa Vicenza, non vedeva l’ora di tornare a Verona dove paventava un attacco piemontese.

 

Come abbiamo visto, i colli erano il settore più pericoloso per la difesa della città: qui Durando provvide a sistemare opere difensive su più linee ed a dislocarvi le valorose e fidate truppe svizzere e parte delle milizie volontarie e cittadine che in due mesi avevano avuto la possibilità di addestrarsi al combattimento e di sfoltirsi di quegli individui che si erano arruolati solo per sbarcare il lunario o per arraffare qualcosa quando se ne fosse presentata l’occasione. 

 

L’attacco a Vicenza

 

La sera dell’otto giugno gli austriaci erano ormai alle porte di Vicenza, accampati nella pianura tra i colli ed il Bacchiglione, mentre nel contempo in gran segretezza un’altra colonna, comandata dal generale Culoz, lasciata Verona stava scalando i colli che da Bruendola portavano verso Castel Rambaldo, l’attuale villa Margherita. Il piano era semplice, nella sua linearità ed efficacia, un vero giochetto per il maresciallo Radetzky che, nel 1813, aveva steso i piani per la battaglia di Lipsia, la prima dove Napoleone veniva sconfitto, e la successiva campagna di Francia che avrebbe portato gli alleati austro-russo-prussiani a Parigi.

 

Il generale Culoz avrebbe attaccato sui colli fino ad occupare il Monte Berico per poi piazzare sul costone che dà sulla città tutti i cannoni e le racchette disponibili minacciando il bombardamento di Vicenza e la sua distruzione se il generale Durando non si fosse arreso; le brigate in pianura avrebbero impegnato al massimo i difensori delle mura per impedire l’invio di rinforzi e munizioni verso i settori più fortemente investiti. Primo atto poi della giornata doveva essere l’occupazione della strada ferrata per impedire che, come venti giorni prima, rinforzi potessero giungere da Venezia.

 

Questa volta però, quando vi era veramente necessità di aiuto, nessuno si mosse in soccorso di Vicenza che venne lasciata alla mercè degli assalitori. Durando disponeva di poco più di diecimila uomini. Egli destinò a presidiare Monte Berico poco meno della metà delle forze disponibili, mentre un migliaio di svizzeri vennero tenuti di riserva. Il resto venne distribuito lungo le mura e nei borghi: duemilacinquecento tra Porta Santa Lucia e quella di Padova, millecinquecento tra Porta San Bortolo e Porta Castello, il comandante Zanellato, con settecento uomini a Porta Monte.

 

E furono proprio i vicentini agli ordini di Zanellato, come vedremo più avanti, a dare scarsa prova non impedendo ad alcune compagnie austriache di infilarsi nel trincerone della ferrovia, occupare la ferrovia ed in pratica separare i difensori del monte dalla città. Il mattino del 10 giugno un colpo di cannone dava il via a quello che Gabriele Fantoni avrebbe chiamato “l’assalto di Vicenza”. Radetzky aveva diviso le sue forze in due corpi d’armata: il I Corpo avanzando in pianura verso la Rotonda avrebbe sottratto forze ai difensori del Monte Berico e permesso poi di attaccare il colle dal rovescio in caso di resistenza ad oltranza degli svizzeri. Il II Corpo, investendo il lato orientale della città avrebbe agito da diversivo sottoponendo Vicenza ad un furioso bombardamento d’artiglieria.

 

L’attacco in pianura

 

Alle otto di mattina, il II Corpo, forte di sedicimila uomini, passato il Bacchiglione a Montegalda, si stendava a formare un largo semicerchio verso Vicenza toccando con la punta avanzata verso nord l’Astichello e riunendosi poi a formare tre colonne che investirono la città lungo le tre strade che da oriente portano verso Vicenza e cioè le strade di Treviso (colonna Taxis), di Bertesina (colonna Liechtenstein) e di Padova (colonna Torok). Anche il I Corpo si era diviso in tre colonne: la prima da Secula, lungo il corso del Bacchiglione aveva il compito di portarsi fino al ponte della ferrovia per mettere in ulteriore difficoltà i difensori della Rotonda e Villa Valmarana attaccati da una colonna comandata dal generale Clam-Gallas che aveva come punta offensiva il reggimento Prohaska nr. 7 cui infatti spetterà il compito di espugnare la Rotonda e forzare le difese di Porta Monte. La terza colonna (colonna Wohlgemuth) aveva il compito di appoggiare le altre, manovrando sulla destra del Bacchiglione. 


Sul Monte Berico 

 

Ma la vera battaglia avvenne sul Monte Berico, dove le truppe del generale Culoz, secondo il piano steso dal maggiore Maroicic, che per questo motivo verrà fatto barone con il predicato von Madonna del Monte, già di primo mattino avevano occupato Castel Rambaldo. L’occupazione di questa posizione aveva grande importanza tattica in quanto permetteva, controllando lo sbocco della strada della Commenda, il travaso di truppe dal settore della pianura a quello del colle, in rapporto alle necessità.

 

Fu così che, di fronte alla più solida linea di difesa data dai colli Bella Guardia ed Ambellicopoli, si poterono inviare dalla pianura quei reparti austriaci che in pratica contribuirono a risolvere la giornata: tra questi il X battaglione cacciatori da campagna che, di tutti i reparti impegnati, ebbe il maggior numero di perdite, oltre duecento tra caduti e dispersi, tra cui lo stesso comandante colonnello Kopal, su una forza di poco superiore a seicento uomini.

 

A metà pomeriggio, un contrattacco alla baionetta, voluto da D’Azeglio, ma condotto in maniera alquanto confusa venne respinto dagli austriaci che, incalzando gli svizzeri, arrivarono fin sotto le difese del colle di Ambellicopoli senza che i difensori potessero fare fuoco con le artiglierie per timore di colpire i propri commilitoni. Occupato il colle rimaneva solo una grande barricata ed il Santuario dopodiché le artiglierie del generale Culoz, trainate a forza di per gli impervi sentieri dei Berici, avrebbero potuto bombardare la città.

 

Ed infatti alle quattro del pomeriggio il chi si può salvare si salvi! E mentre il santuario veniva difeso da pochi disperati che vi si erano rinchiusi, la gran massa dei soldati si ritirava a precipizio verso Porta Lupia inseguiti dalla fucileria austriaca. Sul colle uno spettacolo sconvolgente: “il campo di battaglia era coperto di morti e feriti. Svizzeri, cacciatori e fanti giacevano al suolo confusi tra loro, quasi avessero combattuto per una medesima causa e nelle file medesime. Le artiglierie di campo e di posizione erano sole in piedi; i cavalli n’erano stati uccisi e giacevano distesi accanto ai cannoni”.

 

Perduto Monte Berico, i cannoni del capitano Schneider cominciarono a battere la città ed alle sette di sera lo stesso Durando, in un proclama ai cittadini dovette ammettere che “la capitolazione è diventata inevitabile, l’onore lo permette, la umanità lo domanda”. Non avevano influito molto sull’andamento delle operazioni gli avvenimenti negli altri settori. Infatti le mura ad occidente non erano state nemmeno toccate dall’offensiva austriaca, mentre tra Porta Santa Lucia e Porta Padova difese e barricate avevano impedito alle truppe di Thurn di fare significativi progressi. Solamente a Porta Monte i volontari vicentini agli ordini del colonnello Zanellato vennero travolti dai soldati dell’ambizioso Clam-Gallas, aprendo la via all’occupazione della stazione della strada ferrata. 

 

La resa 

 

Con la conquista di Monte Berico e con il primo cannoneggiamento della città la battaglia si poteva dire conclusa anche perchè i combattimenti si andavano spegnendo sia per la stanchezza dei soldati che avevano combattuto per quasi dodici ore in una giornata particolarmente calda e afosa (a Monte Berico i soldati, entrati in chiesa, bevvero per dissetarsi l’acqua delle acquasantiere) sia perché sarebbe stato da cretini farsi uccidere quando ormai era tutto finito. Ma Radetzky aveva fretta di tornare a Verona e quindi non poteva perdere molto tempo in trattative; decise quindi di continuare il bombardamento della città fino a quando i plenipotenziari del generale Durando non fossero venuti a chiedere la resa.

 

Quindi tutte le artiglierie, gli obici e le racchette dislocati attorno alla città iniziarono un fuoco infernale anche con proiettili incendiari. Il tenente Pimodan, un francese che militava nell’esercito austriaco e che da Monte Berico assisteva allo spettacolo lo definì bello e tremendo, mentre attorno a lui i soldati cantavano, accendendo candele nei boschetti, ed una banda militare suonava l’inno austriaco “Questa città era nostra e noi potevamo incenerirla”.

 

Fortunatamente il bombardamento non durò a lungo. Mentre gli estremisti volevano la resistenza ad oltranza, nella speranza di un improbabile arrivo di soccorsi da Venezia o da parte dei piemontesi, pressioni vennero fatte sul generale Durando (che per poco non era rimasto ucciso da una granata scoppiata nel cortile di palazzo Nievo mentre passava in rivista le bandiere dei reparti che avevano difesa la città) affinché innalzasse, ben visibile sulla Torre Bissara, bandiera bianca.

 

Può sembrare strano, ma i difensori non avevano idea di dove fosse il comando austriaco, anche se dai vari movimenti delle truppe austriache si era dedotto che un comando (si trattava del comando operativo, mentre il comando scrivente era nei pressi di Longare) dovesse essere sulla strada per Padova. Venne mandato per primo un prigioniero austriaco con un biglietto del generale Durando, poi i plenipotenziari colonnello Alberi, che in qualità di uditore militare era esperto di cose legali e quindi adatto a trattare i complicati aspetti della capitolazione che venivano ad interessare non solamente militari ma anche volontari e civili, ed il principe Ruspoli che godeva di molte relazioni con i comandanti austriaci in quanto imparentato con gran parte delle famiglie principesche dell’impero.

 

Per la resa non vi furono problemi. Problemi vi furono invece quando si dovette trattare della sorte dei soldati che avevano combattuto alla difesa della città. D’Aspre, che conduceva le trattative, si mostrava inflessibile sul fatto che chiunque, soldato civile o volontario, avesse impugnato un’arma doveva essere considerato prigioniero di guerra e come tale internato nelle fortezze della Boemia. Da ultimo si interpellò Radetzky stesso per un parere definitivo.

 

L’anziano maresciallo che aveva altri problemi per la testa e che non vedeva l’ora di tornare a Verona che poteva essere in balia di un attacco piemontese delegò il suo più fidato collaboratore, il barone von Hess, a recarsi a villa Balbi a risolvere la questione. La decisione di Hess fu rapida: i difensori di Vicenza potevano abbandonare senza problemi la città e raggiungere i confini dello stato pontificio a Ferrara; dovevano impegnarsi a non prendere per tre mesi le armi contro l’Austria; tutti i civili compromessi con la rivoluzione erano liberi di andarsene.

 

Alle sei del mattino dell’11 giugno la Convenzione venne firmata, a mezzogiorno la lunga teoria di esuli lasciava la città salutata dallo stesso Radetzky che, all’osteria al Gallo, aveva voluto assistere alla sfilata salutando militarmente gli svizzeri ed i romani. Alle 13 il maresciallo entrava in Piazza dei Signori salutato da cinque bande militari che intonavano l’inno imperiale. Dopo brevi convenevoli, egli stava per ordinare la partenza per Verona quando i comandanti di reparto fecero presente la necessità di una sosta in città almeno fino al mattino successivo. Il linguaggio di certo dovette essere alquanto forbito e ricco di giri di parole, ma il senso era molto semplice: i soldati erano in campagna da lungo tempo e la casa di tolleranza di contrà del Guanto e le altre nelle strade vicine rappresentavano una tentazione troppo forte per i soldati per cui tanto valeva concedere un pomeriggio di libertà a tutti. E così fu. In vista dell’attacco austriaco le case fuori delle mura erano state abbandonate dagli abitanti; qui i soldati avevano sgraffignato quanto era capitato sotto mano, ed in carenza di denaro avevano pagato le prestazioni con gli oggetti rubacchiati. Due o tre giorni più tardi “le ragazze” organizzarono una mostra, visitata da centinaia di cittadini, dove chi voleva poteva riscattare gli oggetti asportati o fare acquisti a buon prezzo. 

 

L’occupazione militare

 

Ma torniamo alle cose serie. Con l’11 giugno iniziava l’occupazione militare austriaca. Il primo periodo fu il più duro, quello in cui ogni potere era in mano ai governatori militari, gli anni tra il 184 e il 1852, quando ancora spettava ai comandanti militari delle varie città confermare o meno le sentenze di morte che i Giudizi Statari emettevano con sempre maggior frequenza. Si trattava quasi sempre di condanne relative a violazioni dei Proclami a firma Radetzky 29 settembre 1848 e 10 marzo 1849. Quest’ultimo è un documento estremamente importante in quanto sconvolgeva profondamente il normale diritto e la procedura giudiziaria prevedendo il passaggio all’autorità militare di numerosi reati. La stessa nebulosità del linguaggio dava adito a numerose controversie di interpretazione, tanto che il Senato del regno che svolgeva per imperatorem la funzione di garante delle leggi dovette intervenire per impedire anomale interpretazioni del Proclama, specie per il titolo 6 “Rapina e furto pericoloso” e per uniformare procedure e condanne.

 

Fu questo Proclama che dette a Radetzky la sinistra fama di cui gode ancor oggi, qui tra noi, il suo nome, in quanto le disposizioni emanate in periodo d’emergenza - la guerra contro il Piemonte e Venezia - non vennero più abrogate,  ma anzi continuamente utilizzate per giustificare condanne più o meno gravi. Inoltre, almeno qui da noi, i comandanti militari presero raramente misure disciplinari nei confronti di militari rei di abusi nei confronti della popolazione. Così quando alcuni ungheresi percossero e spezzarono il violino ad un vecchio suonatore ambulante cieco, il comando di piazza archiviava la pratica accampando la difficoltà ad individuare i colpevoli.

 

Ed ugualmente si agì in un caso più grave, quando il caporale Jakob Wissiak aveva ucciso con una fucilata, in pieno Corso, il giovane Sebastiano Farina: per il generale Kellemes una presunta provocazione bastò a giustificare l’omicidio. Su questo fatto mi permetto un’interpretazione personale: dal cognome, il caporale mi sembra di origine istriana e quindi, bene o male, conoscitore della lingua italiana. Come successo anche in altre città, il giovane avrà pensato di trovarsi di fronte ad un ungherese o ad un tedesco e quindi, convinto che il soldato non comprendesse quanto gli diceva, l’avrà offeso suscitandone la reazione, sproporzionata certo, ma giustificata.

 

Da parte sua il Tribunale civile, pur avendo ai vertici giudici di origine austriaca, si comportava in maniera diametralmente opposta condannando a pene lievissime o assolvendo perché il reato non sussisteva, basandosicioè sulle libertà sancite dal Manifesto imperiale del 15 marzo 1848, i giovani che scrivevano sui muri frasi ostili all’Austria o cantavano canzoni patriottiche. Dopo il 1852 i comandi militari di città vennero sollevati da queste incombenze di carattere legale e la competenza delle corti militari sommarie passò ad un unico ufficio che aveva sede, per il Veneto, ad Este (per la Lombardia a Mantova): 1’I.R. Commissione Militare Inquirente che giudicava i reati comuni, che spesso però mascheravano il disagio politico, previsti dal Proclama Radetzky. In pochi anni le condanne a morte furono 1144, di cui 409 eseguite. 

 

I comandanti militari

 

Nei quattro anni che seguirono il 10 giugno 1848 numerosi furono i comandanti militari che tennero il loro ufficio in palazzo Trissino sul Corso, per l’occasione parzialmente requisito al proprietario, alcuni umani e comprensivi altri rigidamente legati ai regolamenti. Il primo, 1’11 giugno fu il colonnello conte Pergen che accettò di malavoglia il comando, desideroso solo di poter partecipare a qualche altra battaglia prima del pensionamento. Egli si interessò molto discretamente della cosa pubblica lasciando al podestà molta libertà nel riordino della vita e dell’ amministrazione cittadina. Pergen rimase in città fino al 15 luglio, quando il maresciallo We1den nominava governatore militare e civile il colonnello Melczer von Kellemes. Egli, rigido militare, non andò molto per il sottile nel mantenere l’ordine pubblico entrando ben presto in conflitto con la mentalità “civile” e rispettosa della legalità dei preposti alle altre amministrazioni che non vedevano di buon occhio le sempre maggiori intrusioni del Comando militare nelle attività dei singoli uffici.

 

Si potè invece giungere ad un effettivo rapporto di parità tra autorità militare, Congregazione provinciale e gli altri uffici dell’Amministrazione imperiale in Vicenza durante il periodo in cui risiedettero in città i comandanti Mitis e Jellacic von Bunim. Soprattutto fu merito di quest’ultimo se si potè giungere all’archiviazione di casi gravi che in altre mani avrebbero potuto avere esiti alquanto diversi come nel caso della sottrazione di armi a soldati della guarnigione di Bassano che si risolsero felicemente grazie alla comprensione dell’autorità militare.

 

La situazione cambiava nuovamente con l’arrivo a Vicenza del colonnello Mullner. Ufficiale ambizioso e molto rigido, egli non aveva mai fatto parte dell’armata d’Italia e quindi era scevro da quella mentalità che indulgeva ad accomodanti compromessi. Con il suo arrivo, e con gran rammarico delle autorità civili, una ventata di terrore scese su città e provincia. Nel gennaio 1849, il giorno 22, sul Monte Berico (che era stato interdetto ai civili e che verrà riaperto solamente nel 1857) un plotone di dragoni fucilava certo Bortolo Trentin di Vicenza che era stato trovato in possesso di “tre armi da fuoco cariche e molta polvere e munizione”.

 

Durante l’estate le fucilazioni si moltiplicarono. Antonio Simonato da Fara venne passato per le armi il 13 giugno per aver detenuto “quattro pistolle ed uno schioppo carichi”, il 23 Valentino Trecco di Piovene è condannato a morte da un Giudizio Statario riunitosi alle quattro di mattina e, secondo la legge, fucilato due ore più tardi. Lo stesso capita a Giovanni Antonin da Montebello, passato per le armi il 12 luglio del ‘49. Sono sentenze molto dure, pesanti esempi che volevano essere di monito in un momento in cui la resistenza di Venezia sembrava non cedere e la necessità di mantenere sicure le retrovie imponeva pesanti misure di repressione.

 

Particolare da una illustrazione di Aldo Capitanio apparsa sulla versione cartacea della rivista "Storia Vicentina" n.1 aprile-maggio 1994

 

 

Ma anche quando non si fucilò si usò la mano pesante. Ad onta delle disposizioni del ministro Montecuccoli che aveva proibito le punizioni corporali, vergate e bastonate vennero distribuite molto generosamente ai colpevoli di trasgressioni minori. Con la partenza del colonnello Mullner le cose cambiarono di molto. La guerra con Venezia ed il Piemonte era finita, la rivolta in Ungheria domata: il vecchio impero sembrava saldo e stabile come non mai. Con una serie di amnistie si tentò di far tornare le cose come erano prima del marzo 1848 e, se le disposizioni che prevedevano la pena di morte per i reati più gravi non vennero abrogate, esse rimasero come uno spauracchio da agitare davanti agli inquisiti ed ai rei. Si condannava infatti a morte “per diritto”, e la sentenza veniva confermata in appello. Si effettuava allora tutto  il macabro rituale dell’esecuzione per far arrivare all’ultimo momento un messaggero che, sventolando la grazia, mostrava la generosità dell’imperatore, mentre il condannato dopo questo salutare spavento si sarebbe guardato bene dal contravvenire anche alle più innocenti disposizioni di legge.

 

Talvolta accadeva però che il messaggero con la grazia arrivasse, per un motivo o per l’altro, in ritardo ed allora la fucilazione avveniva sul serio. Questo fu il caso di Antonio Turcato fucilato in Campo Marzo in una fredda mattinata di dicembre. Se la cavarono bene invece certi Mantiero padre e figlio di Vicenza che il colonnello Hoyos, nuovo comandante della città, condannò per commutazione della pena di morte a soli due anni di carcere, mentre Luigi Ciscato di Pianezze fu ancora più fortunato cavandosela con soli otto mesi, nonostante lo stato eccezionale fosse ancora in vigore.

 

Se per i colpevoli di contravvenzioni alle disposizioni sulla detenzione di armi, che non bisogna dimenticare erano in genere armi da caccia trattenute illegalmente, si alternarono, a seconda della situazione politica e della sensibilità dei comandanti militari, periodi di tolleranza con altri• in cui prevaleva la linea dura, nei confronti dei militari disertori non vi fu pietà. Così Janos Fekette “ di anni 22 da Theresiopoli in Ungheria”, disertore che aveva vissuto precariamente alla macchia nella zona di Quargnenta, quando venne catturato fu sottoposto ad un rapido processo e fucilato nel novembre 1849. Lo stesso capitò ad un vicentino, certo Giuseppe Mecenero che nel marzo 1848 aveva disertato dal reggimento Zannini Dr. 16, passando a Venezia. Alla fine delle ostilità non se la sentì di riprendere la divisa austriaca e pensando che le disposizioni sui termini delle amnistie fossero solo vuote parole, si diede alla macchia avendo però la sfortuna di venir catturato, processato e condannato a morte. Si sperava nella grazia e questa speranza era rinforzata dal fatto che l’imperatore stava per giungere in città e che in occasioni del genere era consuetudine concedere grazie ed amnistie.

 

Francesco Giuseppe giungeva a Vicenza la sera del l marzo 1852 ma, inesplicabilmente, la sosta fu brevissima ed all’interno della stazione ferroviaria, nonostante la visita fosse stata annunciata da mesi e programmata con luminarie e spettacoli teatrali. Su questa mancata visita non esiste sulla stampa locale, il giornale di allora era La Gazzetta Privilegiata di Venezia, alcuna spiegazione ufficiale, ma la cosa si spiega chiaramente se ammettiamo che con questo comportamento non si sia voluto firmare la grazia al povero Mecenero che, qualche giorno più tardi, saliva sul patibolo qui a Vicenza. In questa storia piuttosto triste si inserì poi un’assurda vicenda burocratica che merita di essere raccontata. Come disertore, Mecenero venne considerato militare e pertanto processato e condannato da un Tribunale Militare. La condanna, però, imponeva l’infamia e per questo motivo egli venne radiato dai ruoli dell’esercito, condannato all’impiccagione e non alla fucilazione e pertanto passato alle competenze delle autorità civili. Ad eseguire la sentenza venne chiamato da Verona il maestro di giustizia Giuseppe Piberger che, per le sue competenze avrebbe dovuto percepire 120,50 lire austriache, mentre altre 54 spettavano al falegname Natale Giovanelli che aveva innalzato il palco necessario.

 

Successe però che la Congregazione non intendeva pagare le spese di un’esecuzione ordinata dall’autorità militare, questa però aveva cancellato dai suoi ruoli Mecenero considerandolo quindi un civile e rifiutando pertanto ogni addebito. Inoltre ci si era dimenticati che in città esisteva già una forca, per cui il lavoro del falegname era stato inutile. La pratica si trascinò, kafkianamente, per più di due anni da un ufficio all’altro venendo poi finalmente chiusa con buona pace di tutti compreso il maestro di giustizia che però nel frattempo non si era annoiato. Era infatti entrato in attività il Tribunale di Este dove le condanne a morte venivano emesse a dozzine tanto che dopo un primo rodaggio il Tribunale, che era itinerante, piuttosto che perdere tempo e denaro per un boia esterno preferì aggiungere al suo organico dei falegnami ed un boia così da poter fare tutto in casa ed accelerare al massimo, con risparmio  per l’erario, quanto di dovere.

 

Militari e civili a confronto

 

Accanto alle autorità militari, l’autorità civile a sua volta perseguiva piani e disegni intesi a riottenere il consenso della popolazione, specialmente di quei ceti che in ultima analisi erano rimasti ai margini dei moti della primavera 1848. Ferdinando, negli ultimi mesi del suo regno, ed il ministro Montecuccoli, suo plenipotenziario in Italia, tentarono ad ogni costo il ritorno alla normalità con ampie riforme, ed amnistie vennero avviate o promesse ed alcune tasse, tra cui quella personale, abolite o ridotte, anche se in questo campo vi furono i soliti scontri con le autorità militari che, per finanziare la guerra, si vedevano costrette ad imporre prestiti coattivi per importi notevoli: uno alla fine di giugno 1848 per oltre un milione di svanziche, un secondo nel gennaio successivo per un importo più che doppio.

 

Anche in campo giudiziario si diede il via ad una revisione del sistema giudiziario che avrebbe portato ad un nuovo Codice Penale, moderno ed efficiente, varato nel 1852. Fu promessa anche una costituzione corrispondente alle nazionalità ed alle necessità dell’impero. Ed infatti, come primo passo verso riforme democratiche, si convocò a Kremsier in Moravia, il 22 novembre 1848, un Dieta per discutere e tentare di risolvere i problemi dell’impero.

 

Ed anche dopo l’abdicazione di Ferdinando I, il nuovo imperatore Francesco Giuseppe, giovane di diciotto anni e quindi non compromesso negli avvenimenti passati, sembrava voler proseguire sulla via delle concessioni liberali affermando di riconoscere “parità di diritti per tutti i popoli dell’impero ed un governo retto col consenso dei rappresentanti del popolo”.

 

Ma se le autorità civili facevano di tutto per ricercare il dialogo con le popolazioni delle provincie ribelli, gli ambienti militari continuavano diritto per la loro strada: la nuova rivoluzione di Vienna - ottobre 1848 - stroncata nel sangue, la repressione della rivolta boema e le operazioni militari del bano Jellacic li rendevano più forti che mai. Vi fu poi il disgraziato tentativo di Carlo Alberto di riprendere la guerra senza aver valutato a fondo situazione e conseguenze; per i generali austriaci “Novara fu la tomba delle aspirazioni nazionali e liberali che la Dieta di Kremsier aveva felicemente costituite con il consenso e tenendo conto di tutte le nazionalità”.

 

Dimostrazione dello strapotere dei militari lo si ebbe anche nelle piccole cose quali il portare determinati tipi di fibbie o particolari fogge di cappelli quali quelli all’Emani, vietatissimi e suscettibili, per l’audace o incauto che lo portava, di deferimento ai tribunali militari. Solamente nel 1857, quando si era ormai alla vigilia della seconda guerra di indipendenza e con l’Austria totalmente isolata politicamente ci si decise alle concessioni. Cogliendo l’occasione di una visita alle provincie italiane di Francesco Giuseppe e di sua moglie, la giovane Sissy, si diede un colpo di spugna al passato chiudendo le commissioni inquirenti di Este e Mantova, concedendo un’amnistia e, per Vicenza, riaprendo alla cittadinanza Monte Berico dove, per quasi nove anni, un paio di batterie avevano tenuto i loro pezzi puntati sulla città. Purtroppo per i governanti austriaci queste misure giungevano troppo tardi quando, per l’abile politica piemontese e per gli errori degli ottusi militari imperiali, la presa di coscienza nazionale aveva reso ineluttabile il processo dell’unità italiana. 

 

Le ragioni dell’Austria 

 

Ma visto in prospettiva, il Lombardo-Veneto valeva davvero tanto per l’Austria da indurla a sopportare il peso di tre guerre per mantenerne il possesso? Non furono tanto i vantaggi economici ad indurre il governo imperiale ad inimicarsi Francia ed Inghilterra e, nel 1866, arrivare addirittura ad una guerra con la potente Prussia, fu piuttosto la logica imperiale del possesso, della conquista territoriale ("qui siamo e da qui nessuno ci caccerà via”). Un po’, se si vuol fare un paragone somigliante, con il comportamento di Hitler alla fine del 1942 quando un accorciamento del fronte meridionale russo lo avrebbe salvato dal disastro di Stalingrado. Ma tant’è. La logica hitleriana imponeva di non 
abbandonare le rive del Volga e la caparbietà del Führer venne ripagata con una sconfitta che fu la svolta decisiva della guerra.

 

Ugualmente avveniva nel Lombardo-Veneto nella metà del secolo scorso: le due regioni rappresentavano un passivo per le finanze imperiali, passivo che si aggravò dopo la perdita della Lombardia, ma la logica imperiale non permetteva quella ritirata che il barone de Bruck, che aveva già compreso tutto con molti anni di anticipo; consigliava nella primavera del 1848 approfittando della difficile situazione del momento. La felix culpa di Radetzky, cioè la disobbedienza agli ordini dell’imperatore, si trasformerà poi in una palla al piede.

 

Valentino Pasini, lasciando da parte per un momento la politica e dando mano all’economia ed alla finanza di cui era esperto, nella primavera 1859 pubblicava a Torino un lungo e dettagliato saggio, che tra l’altro gli valse la censura dei suoi colleghi di esilio che consideravano l’analisi piuttosto benevola nei confronti dell’Austria. Infatti base della propaganda dei comitati veneti e lombardi in esilio a Torino era l’insistere sulla enormità della pressione fiscale austriaca tale da far credere che l’impero d’Austria si arricchisse alle spalle delle provincie italiane. Pasini con il suo studio capovolse le basi della questione dimostrando come, per le finanze imperiali, sarebbe stato meglio abbandonare l’Italia che rappresentava una fonte inesauribile di spese improduttive. 

 

Le spese

 

Abbiamo visto già che l’Austria nel 1815 si era dovuta accollare i debiti del defunto regno d’Italia e se poi, anche a detta del Pasini, per la Lombardia si può parlare di un equilibrio sostanziale tra entrate ed uscite, nel Veneto le spese per l’amministrazione (tanto che nel 1853 il sistema dei distretti venne radicalmente riformato per motivi di economia), ma soprattutto le opere straordinarie - ferrovie, strade, fortificazioni militari - raggiungevano cifre impressionanti.

 

Basti pensare che la costruzione della Ferrovia ferdinandea (la Venezia-Milano, per intenderci) costò allo stato asburgico tra il 1845 ed il 1859, secondo l’economista Homo, ben 560 milioni di franchi che di certo il traffico merci e viaggiatori ripagarono solo in minima parte. Vi era poi la voce esercito. Se non vi fosse stato il Lombardo-Veneto le spese di guerra per l’esercito non avrebbero di certo raggiunto le cifre elevatissime spese negli anni di tensione con l’Italia, somma spesso superiore all’intero gettito annuale delle attività, tanto che nella stessa Austria timide voci si alzarono a favore del “disarmo dell’esercito che assorbe la parte più cospicua delle pubbliche rendite ed è stabile cagione di lucro cessante e di danno emergente per la sottrazione di centinaia di migliaia delle più robuste braccia alla forza produttiva e per l’ingente somma che coteste braccia, dedite al solo esercizio delle armi, costano al pubblico erario”.

 

Una sola voce rimase attiva nel Veneto: i fondi incassati per l’esenzione dal servizio militare. Ogni requisito, cioè estratto per la leva, versava all’erario 1500 fiorini allo scopo di permettere allo stato di pagare un supplente. In tutto l’impero si ricavavano ogni anno venti milioni di fiorini di cui quasi un quarto in Italia a dimostrazione dell’avversione dei rampolli della borghesia verso un servizio che li avrebbe tenuti lontani per anni dalla patria, dalla famiglia, dagli affari.

 

Se in Austria si piangeva, in Piemonte, costretto a vivere con le armi al piede, non si rideva: nel 1865, di fronte ad entrate pari a circa 600 milioni, le uscite erano più del doppio, tanto che in documenti ufficiali “si asserì che ogni giorno si aveva lo scapito di un milione”. Ed infatti quando, completata l’unità, si fecero un po’ di conti ci si accorse che le spese erano state superiori ad ogni previsione, con un deficit pubblico paragonabile a quello che oggi affligge lo stato italiano e che i politici di allora affrontarono vendendo ogni bene possibile, imponendo il corso forzoso della moneta e tassando alla grande tutti i cittadini giustificandosi come spiegava in parole povere il deputato valessi ai braccianti analfabeti: “avete voluto l’unità e l’indipendenza d’Italia, ora dovete pagarla”.

 

L’Austria nel 1862 aveva tentato di uscire dalla crisi economica dandosi una struttura amministrativa moderna nell’impostazione delle leggi finanziarie: il bilancio doveva essere reso pubblico ed approvato dal Parlamento, almeno nelle sue linee essenziali. Dalla pubblicazione di questi prospetti abbiano la possibilità di conoscere quanto veniva speso ed introitato nel Veneto. L’elenco comprende una trentina di voci che vanno dalle spese di giustizia al mantenimento delle truppe estensi di stanza a Cartigliano, alla beneficenza, istituti religiosi, culto cattolico, aiuti all’industria ecc. per un totale di 12 milioni di fiorini. Ma alle voci di carattere generale dovevano aggiungersi le spese per la marina (2 milioni di fiorini) e per l’esercito.

 

Nel Veneto, dopo il 1859, le forze armate imperiali oscillavano tra i 50 ed i 70 mila uomini. Da varie fonti conosciamo esattamente “il fabbisogno mensile per un corpo di truppe di diecimila uomini nel regno Lombardo-Veneto colle competenze di pace, calcolato il mese a giorni 30”: centomila fiorini che dà per un anno, sulla media di sessantamila uomini, quasi otto milioni di fiorini. A queste si dovevano aggiungere le continue spese di manutenzione e miglioramento delle centinaia di fortezze grandi e piccole sparse in tutta la regione, per una cifra superiore al milione di fiorini l’anno. In totale dunque le spese civili e militari superavano, in cifra tonda, i venti milioni di fiorini l’anno. Per quanto riguarda le entrate, Pasini dà per la Lombardia nel 1858 un  totale di 87 milioni di lire con uscite, comprese le spese politiche e camerali, come minimo pari alle entrate. Per il Veneto, secondo gli studi del Pellinini, le entrate non superavano “in prodotto brutto”, cioè lordo, i 30-40 milioni di lire austriache. Al netto delle spese di esazione e di quelle camerali il totale ne risultava fortemente falcidiato con un deficit facilmente calcolabile ed ogni anno in aumento. 

 

Il 1859 

 

Il 1859, nel Veneto, passò come una meteora. Nel breve volgere di qualche mese si videro nascere grandi speranze destinate poi a spegnersi all’atto dell’armistizio di Villafranca. Nel ‘59 avevano ripreso vigore anche i comitati clandestini che fino ad allora avevano potuto svolgere la loro attività con molta difficoltà sia per la sorveglianza della polizia austriaca sia perché, nonostante le promesse che venivano da Torino, non si vedeva via d’uscita al problema del lombardo-veneto. Qui a Vicenza, tra i componenti del comitato ricordiamo l’ex podestà della primavera 1848 Gaetano Costantini che ne fu anche capo ed il tesoriere conte Mocenigo (la sua famiglia era proprietaria del feudo di Campiglia dei Berici ed, in città, del palazzo dove ha sede attualmente la Banca d’Italia in piazza San Lorenzo) che disponendo di mezzi provvedeva di sua tasca, come da documenti del mio archivio, a finanziare le attività del comitato che consistevano soprattutto, oltre alla propaganda, ad aiutare i giovani ad espatriare in Piemonte.

 

Nella primavera del 1859 le cose cambiarono. Se da una parte “i permessanti ed i riservisti” dell’esercito austriaco prendevano la strada che li portava ai loro reggimenti, dall’altra numerosi giovani - nella certezza della prossima liberazione del Veneto - lasciarono la regione nel tentativo di raggiungere il Piemonte per arruolarsi nei reggimenti regolari o di volontari allora in via di costituzione. Purtroppo la perdita degli archivi della I.R. Delegazione ci impedisce di avere, qui a Vicenza, dati precisi sul fenomeno anche se un breve scritto di uno di questi transfughi, certo Marinoni, riportava un elenco abbastanza completo dei vicentini che nell’estate 1859 si arruolarono nel 3 reggimento volontari: si tratta di circa duecento uomini che, tenendo conto del tipo di arruolamento (circoscrizionale, sulla base del dialetto parlato), rappresentano buona parte, se non la totalità dei vicentini emigrati.

 

In effetti, recentemente, l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito ha pubblicato, sulla scorta degli archivi piemontesi, un volume dedicato al volontariato militare nel risorgimento e da una attenta lettura di questo libro ho potuto constatare che, all’incirca, i dati coincidono. Questi vicentini, però, dopo l’armistizio di Villafranca si trovarono di fronte ad un grave dilemma: rimanere in Piemonte per chissà quanti anni lontani dalla famiglia e dagli affari oppure tornare nel Veneto sfidando la comprensibile reazione delle autorità austriache. Molti rimasero in Piemonte, poco più di una trentina passarono con Garibaldi in Sicilia, altri preferirono tornare. A Padova, Andrea Gloria, che aveva avuto tra i transfughi in Piemonte anche il proprio figlio, segnala nel suo diario il ritorno di buona metà degli espatriati ai quali le autorità austriache, in un ennesimo tentativo di riconciliazione, imposero solamente una multa di pochi fiorini. E’ da supporre, in mancanza dell’archivio di polizia, che le cose siano andate nello stesso modo. 

 

Gli ultimi anni della luogotenenza veneta

 

Per gli anni tra il 1859 ed il 1866 non possediamo molte notizie: mancarono a Vicenza cronisti quali a Padova Mono Gloria ed Ernesto Gnad, un boemo professore di greco e tedesco all’Università, che nei loro ricchi diari seppero descrivere con vivacità ed immediatezza anche se, logicamente, da diversi punti di vista, le vicende di quegli anni. Per quanto riguardo Vicenza, possiamo avere un’idea dell’aria che tirava in città dai ricordi di un ufficiale austriaco, il tenente Ernst Wurmbrand, che fu di guarnigione qui da noi tra il 1860 ed il 1866.

 

Comunque gli avvenimenti politici attorno ai quali ruotò la vita politica vicentina negli ultimi anni del dominio austriaco in Italia furono le elezioni del 1861 per eleggere le teme dei rappresentanti alla Dieta dell’impero (nel veneto votò circa la metà dei consigli comunali con percentuali molto elevate in provincia di Udine, Mantova e Verona, nonostante da Torino fosse giunto l’ordine di boicottare le elezioni) e la visita di Francesco Giuseppe nel 1862 a Vicenza. In questa occasione le autorità austriache, con sfilate e manovre vollero mettere in evidenza la potenza e la preparazione dell’esercito e consolidare quel legame personale tra imperatore e soldati, rapporto che rimarrà stretto ed inalterato sino alla fine dell’impero.

 

Di questo legame con l’imperatore si narrano numerosi aneddoti: dopo il 1866 numerosi furono i soldati e funzionari che fedeli al giuramento fatto all’Austria affrontarono le spese di un viaggio fino a Vienna per essere sciolti dal giuramento di fedeltà direttamente dall’imperatore. Ad uno di questi sappiamo che il viaggio venne pagato, con i propri risparmi dal fratello, allora parroco in un piccolo paese del Veneto, don Sarto poi Pio X. Da ultimo, il tentativo di rivolta del 1864, finito nel nulla soprattutto per la vigilanza delle autorità italiane che impedirono ai rivoltosi di ricevere le armi necessarie. Infatti, alla vigilia della firma della Convenzione di settembre che prevedeva il trasferimento della capitale da Torino a Firenze e quindi grossi problemi di ordine pubblico nel Piemonte che si vedeva beffato di quello che credeva essere un diritto ad avere in Torino la capitale del regno, il governo italiano preferì non avere noie con l’Austria e della rivolta, che avrebbe dovuto iniziare con la distruzione dei ponti, della gendarmeria, occupazione dei municipi, non se ne fece nulla tanto che gli austriaci quasi nemmeno s’accorsero di quanto progettato. 

 

Il 1866 

 

Il 1866 giunse quasi inaspettato. Infatti nessuno, dopo la sconfitta di Custoza, pensava ad una rapida liberazione della città. Infatti, come narra un testimone in un volumetto edito nel 1868, se ancora alla fine di giugno decine di persone ogni giorno salivano fino a Monte Berico per scrutare l’orizzonte o si recavano alla galleria della strada per captare gli eventuali echi del rimbombo delle cannonate, pian piano ogni speranza era svanita. Il destino di Vicenza e del Veneto si decideva, il 4 luglio in Boemia, a Sadowa dove i prussiani sconfiggevano l’Armata austriaca del nord aprendosi la strada per Vienna.

 

Gli intendimenti di Bismarck erano essenzialmente politici, estromettere l’Austria dalla federazione germanica, e non territoriali; tuttavia il desiderio e l’orgoglio di non vedere la capitale dell’impero invasa da truppe nemiche, come era avvenuto in età napoleonica, convinsero lo Stato Maggiore a sguarnire il Veneto per richiamare in Austria ogni battaglione disponibile. Quindi a parte il Quadrilatero che serviva come deterrente per l’esercito italiano Venezia dove aveva sede il governo luogotenenziale, in tutto il Veneto a partire dai primi di luglio non vi era più alcun reparto austriaco operativo.

 

Ma fu solo dopo il 10 luglio che i primi reparti esploranti dell’esercito italiano, la Brigata di Cavalleria del generale La Forest, passato il Po a nord di Ferrara, entrarono nel Veneto trovandolo sguarnito. Padova veniva occupata nella giornata del 12 luglio da uno squadrone, il5 per l’esattezza, del reggimento lancieri “Vittorio Emanuele”. Comandava questo reparto avanzato il capitano piemontese Dario Delù, nativo di Casale Monferrato che, ad un coraggio non comune accompagnava una profonda esperienza militare e spirito d’iniziativa.

 

Alla stazione di Padova, tramite un’intercettazione telegrafica, viene a conoscere che un treno militare austriaco era in partenza da Verona per Vicenza per quindi proseguire verso l’Austria. Il nostro capitano non riesce a resistere alla tentazione di catturare il treno e nel contempo “occupare” Vicenza. Fa mettere sotto pressione una locomotiva ed assieme al suo aiutante, sergente furiere Rho ed alcuni lancieri parte alla volta di Vicenza dove “prese possesso della stazione ferroviaria, tenne guardato il personale amministrativo e gli impiegati del telegrafo, quindi con alcuni arditi del popolo stette in agguato aspettando il convoglio di cui certo si sarebbe impadronito se chi congiurava ai danni d’Italia non avesse a tempo informato gli Austriaci”, eufemismo per dire che forse un vicentino di sentimenti filoimperiali era riuscito ad avvertire il nemico.

 

La comparsa a Vicenza di un’esigua avanguardia italiana ottenne di abbandonare la città e, come racconta Ernesto Cremasco nella sua cronaca del ‘66 “la notte coprì il dispetto del nemico”. Mentre Vicenza dormiva, in silenzio, le autorità “abbandonarono la città protetti dall’ombra e da poche baionette croate”. Secondo il Formenton, invece, la partenza delle autorità politiche ed amministrative, tra cui 1’I.R.Delegato Ceschi, avvenne in maniera aperta, molto rumorosa, con salaci scambi di battute tra partenti e cittadini perché “il popolo accortosi seguivali facendo udire dei fischi e grida contro i partenti” che erano scortati da una settantina di gendarmi ed uomini del treno incaricati del trasporto degli archivi militari e di polizia. Per inciso quest’ultimo verrà restituito, come conseguenza della sconfitta dell’Austria, dopo il 1918 in seguito alle clausole del trattato di Versailles costituendo oggi l’unica documentazione sugli ultimi anni del governo austriaco, in quanto l’intero archivio della I.R.Delegazione venne dissennatamente bruciato nel corso della prima guerra mondiale. A leggere il Cremasco si ha la sensazione che la notizia dell’arrivo dell’esercito italiano, nella persona dei quattro gatti che accompagnavano il capitano Delù, non avesse varcato le mura della stazione in quanto egli dice, “la notte passò come se il grande fatto della sua resurrezione fosse ancora lontano”.

 

La liberazione di Vicenza

 

La mattina del 13 luglio, verso le 9, l’infaticabile Delù era nuovamente a Vicenza con il suo sergente e sette lancieri. Questa volta la fortuna non gli è avversa ed alla stazione riesce a catturare un treno della sussistenza che si apprestava a trasportare a Verona parte di quanto vi era nei magazzini militari della città berica. L’arrivo questa volta non passa inosservato anche perchè era stata sparata qualche scarica di fucileria per mettere in fuga una non eroica scorta. Subito “molta gente corse sul Campo Marzio a vedere quel drappello di lancieri. In poco d’ora la città si imbandierò coi tre colori e lo stemma dei Savoja ...

 

Verso le dieci il signor Gaetano Costantini presentatosi alla Loggia della Basilica lesse ad alta voce una carta eccitandosi gli animi alla tranquillità e moderazione”. Vicenza era libera! La carenza di poteri impose, tuttavia, nei primissimi giorni dopo la partenza degli austriaci, di costituire un’amministrazione provvisoria. Il facente funzioni di podestà, Revese, cedette la sua carica a Gaetano Costantini, mentre per il disbrigo degli affari a livello provinciale una Commissione si insediava il giorno 18 luglio.

 

Ed in quei giorni nasceva anche il primo giornale vicentino “Il Progresso” nato perché il giornale regionale si stampava in Venezia ancora austriaca, e mai avrebbe accettato di pubblicare proclami ed editti emessi in nome di Vittorio Emanuele, ma anche perchè finalmente vi era desiderio di libertà dopo la lunga censura austriaca. Se la liberazione della pianura vicentina non creò grossi problemi, maggiori difficoltà si ebbero invece nella liberazione dell’alto vicentino e del canale di Brenta. Qui le retroguardie austriache contesero con vigore il terreno ai lancieri del reggimento Milano ed ai fanti del 61, comandato dal colonnello Negri medaglia d’oro alla battaglia del Garigliano, nel tentativo, in previsione di un armistizio, di far correre il confine il più possibile a sud. Ed infatti Primolano, dove moriva in combattimento il tenente Fava, ultimo caduto per la liberazione del vicentino (22 luglio 1866), rimase confine di stato fino al 1915. 

 

I primi mesi di Vicenza nella nuova Italia 

 

Nel vicentino le truppe italiane rimasero fino ai primi di settembre; poi accampando la scusa di un’epidemia di colera – in realtà per ottemperare alle condizioni dell’armistizio che cedeva il Veneto tramite la Francia – i soldati abbandonarono la regione lasciando al loro posto i Commissari del re (qui a Vicenza Antonio Mordini) con i compiti di preparare il plebiscito che avrebbe dovuto sancire la volontà popolare di voler entrare a far parte del regno d’Italia e controllare politicamente le autorità locali per impedire il nascere e lo svilupparsi di nostalgie separatiste, nel ricordo di quanto era avvenuto nel 1848.

 

Cosa, quest’ultima, alquanto improbabile in quanto i protagonisti dell’avvèntura di diciotto anni prima o erano morti (come nel caso di Gianpaolo Bonollo, capo della fazione filoveneziana nel 1848, morto suicida a Torino nel gennaio 1861 dopo un’indegna campagna di stampa orchestrata nei suoi confronti) o si erano perfettamente integrati nella vita politica nazionale (Sebastiano Tecchio, più volte ministro, e che poi sarà presidente del senato ne è l’esempio più tipico). Per i possibili filoaustriaci e coloro che non erano in sintonia con le idee dei Commissari del re c’erano poi i carabinieri, cosicché quando, alla fine di ottobre, si arrivò al plebiscito i NO furono solo 5 contro 85.869 SI’, anche se in realtà in molti centri l’astensione arrivò fino al 30% come a Valdagno dove molta gente, nonostante la forte propaganda, continuò tranquillamente a pensare ai fatti propri, indifferente all’avvenimento.

 

Nel novembre Vittorio Emanuele II visitava le nuove provincie del regno; il re fu a Vicenza il 17 ed in quell’occasione egli volle premiare, motu proprio, la bandiera del Comune con la medaglia d’oro. Intanto come conseguenza del plebiscito, Vicenza era entrata a pieno titolo a far parte del regno d’Italia. In quello scorcio del 1866 vennero eletti al Parlamento di Firenze i primi deputati della regione e nel gennaio successivo una consultazione chiamava alle urne poche migliaia di elettori -si votava infatti solo sulla base del censo -per eleggere il primo con&iglio provinciale.

 

Primo presidente ne fu Lodovico Pasini, mentre Fedele Lampertico, che poi ne sarà presidente per quasi un trentennio, risultava eletto per il rotto della cuffia con sole 638 preferenze. In marzo una nuova consultazione, per il rinnovo del parlamento nazionale. Due i candidati vicentini, Lampertico, liberale moderato, ed Angelo Piloto, radicale. Per sostenere quest’ultimo lo stesso Garibaldi venne a Vicenza, cogliendo l’occasione di una visita alla vecchia madre di un suo ufficiale, Domenico Cariolato. Migliaia di persone lo ascoltarono religiosamente. Tre giorni più tardi, quando si aprirono le urne Piloto ebbe solo 186 voti contro i 544 di Lampertico, non entrando neppure in ballottaggio. Con queste elezioni si chiudeva definitivamente un capitolo nella storia del Veneto e di Vicenza.

 

Finiva la parte eroica del risorgimento vicentino e si entrava nella normalità della vita del paese con i suoi immensi problemi: primo tra questi il pagamento della massa di debiti lasciati in eredità dalle guerre risorgimentali: circa sette miliardi. Le gravi tasse, tra cui quella del macinato che, come abbiamo visto era stata una delle cause della rivolta del 1809, di nuovo introdotta e duramente applicata, assieme à numerose altre ebbero il risultato di portare i contadini poveri alla disperazione. In circa trent’anni furono più di due milioni i veneti ed i friulani costretti a lasciare la propria terra verso “le Meriche”. Le punte massime si ebbero in provincia di Udine, 910.000 emigranti, Belluno, 360.000, e Vicenza, 173.000 in cifra tonda.

 

Cosa è rimasto, nella memoria collettiva veneta, del periodo austriaco? Non molto, anche perché non dobbiamo dimenticare che nel mezzo secolo successivo all’annessione l’impero d’Austria venne considerato sempre il nemico per eccellenza del regno d’Italia. Poi vi fu la prima guerra mondiale e tutta la conseguente retorica viva, per mano di qualche “storico” fino a qualche anno fa. Da parte austriaca rimase sempre vivo il ricordo delle provincie perdute ed il desiderio di ritornarvi, come nel 1908 quando in occasione del terremoto di Messina vi fu, nello Stato Maggiore Austriaco, chi pensò di approfittare dell’occasione per tornare ad impadronirsi del Veneto e Lombardia, e nel 1916 quando nei programmi del maresciallo Conrad vi era la consegna del bastone di maresciallo all’erede al trono imperiale Carlo a Vicenza nella piazza dei Signori il 10 giugno 1916, sessantottesimo anniversario dei fatti d’arme del 1848. Ma dopo il 1866 ufficiali e soldati austriaci furono a Vicenza una sola volta, nell’ottobre 1911 (l’Italia impegnata nell’occupazione della Libia aveva bisogno di appoggio internazionale, compreso quello dell’Austria), in occasione dell’inaugurazione al Cimitero Militare all’Astichello del monumento al colonnello Kopal che come abbiamo visto era caduto nell’assalto al Monte Berico. Fu l’ultima volta che la bandiera con l’aquila bicipite sventolò ai piedi dei Berici. 

Andrea Kozlovic