Tutto si conforma alla voglia di guerra civile

 

E i fascisti mettono in piedi faticosamente l’esercito della guerra civile, pieno di soldati che non vogliono combattere o di esaltati che ardono dalla voglia di combattere…i partigiani. Il suo ruolo militare è quasi nullo ed i tedeschi non ne vogliono sapere. Lo ostacoleranno fino alla fine. Intanto il Partito vive una nuova primavera, una rivalsa plebea intinta nel terrore...

 

di Giorgio Marenghi

 


“E’ scoccata l’ora delle supreme risoluzioni: l’ora in cui si ridà volto alla Patria o si perde il diritto di averne una”. Sono parole di “pura fede fascista” tratte da un entusiastico appello lanciato il 18 novembre 1943 dal commissario prefettizio per il comune di Vicenza, l’ing. Giulio Dolcetta (morirà di morte naturale dopo pochi giorni).

 

 

Il senso del discorso non si discosta da appelli dello stesso tenore che vengono nel frattempo lanciati come macigni sulle teste dei giovani italiani abitanti nel territorio della “Repubblica”. Le classi 1923, 1924, 1925 sono state infatti richiamate. L’esercito di Salò vuole centinaia di migliaia di uomini da buttare nella mischia per non dover fare la figura del “fantoccio” rispetto ai tedeschi.

 

 

Ma al maresciallo Graziani (Capo dell’esercito) il risultato non piacerà affatto. Nonostante le dichiarazioni di facciata (riprese da tutta la memorialistica fascista del dopoguerra) il gettito dei Distretti è molto basso. E’ vero che si presentano molti giovani, ma è altrettanto vero che molti sono coloro che, dopo due o tre giorni, se la svignano ritornando a casa o rifugiandosi nel “bosco”.

 

 

E a Vicenza succedono le stesse cose che negli altri centri urbani della “Repubblica”. Tanto che un rapporto informativo della Guardia Nazionale Repubblicana del capoluogo deve ammettere che solo “dopo alcune azioni di rastrellamento di giovani e prelevamento dei loro famigliari” si riesce a portare nelle caserme 1.500 reclute (G. Pansa: L'esercito di Salò).

 

 

La massa all’arrivo non trova nè la divisa nè le scarpe. Per non parlare delle munizioni o dei fucili che per il momento sono in mano ai tedeschi che li amministrano con molta parsimonia. A Padova su 400 reclute che sono attese in caserma se ne presentano solo cinque. Va “meglio” a Verona dove su un totale di duemila coscritti se ne “allontanano” ben millecinquecento nel giro di pochi giorni.

 

 

A Vicenza le diserzioni aumentano mano a mano che nei paesi si diffondono le voci e le informazioni sulla destinazione dei futuri soldati di Salò. Quasi nessuno vuole servire sotto il “tedesco invasore”. In provincia molti giovani si danno alla macchia ma in città studenti e giovani borghesi sono costretti dalle circostanze ad “aderire”. Si vendicano poi a modo loro.

 

 

A Schio numerosi genieri del CXIX Battaglione “inveiscono contro la Repubblica” prendendosi la soddisfazione di cantare in faccia a stralunati fascisti del posto “Bandiera rossa”. Lo stesso fanno, passando per Noventa Vicentina, un centinaio di richiamati che viaggiano diretti a Vicenza” (G. Pansa cit.). Intanto il Capo della Provincia Neos Dinale si schiera deciso e proclama: “E’ fatto divieto a tutti i datori di lavoro ed a tutti i capi di amministrazioni sia pubbliche che private di assumere in servizio personale già alle armi o soggetto ad obblighi militari che non sia in possesso dei prescritti documenti (congedo, licenza, ecc.) attestanti la regolarità della sua posizione militare. Il personale eventualmente assunto o riassunto che si trovava precedentemente alle armi o che sia soggetto ad obblighi militari, che non può dimostrare di aver regolarizzata, entro dieci giorni dalla pubblicazione del presente decreto, la propria posizione militare, dovrà essere immediatamente licenziato. Contro i trasgressori verrà proceduto a norma di legge".

 

UN DECRETO BOOMERANG

 

E la legge c’è ed è, con le parole degli stessi fascisti, “eccezionale”. Voluta da Mussolini, sempre più furibondo per le diserzioni, il 18 febbraio 1944 è pronta. Ma Graziani non se la sente di apporre la sua firma e cerca scappatoie, sa che è contro tutti i regolamenti militari della tradizione patria e cerca di appiopparla ad altri. Con scarsa fortuna. Il decreto recita: “Il Duce della Repubblica sociale italiana e capo del governo sentito il Consiglio dei Ministri Decreta:

 

Art:1 - Gli iscritti di leva arruolati ed i militari in congedo che, durante lo stato di guerra e senza giustificato motivo, non si presenteranno alle armi, nei tre giorni successivi a quello prefisso, saranno considerati disertori di fronte al nemico, ai sensi dell'art.144 C.P.M. e puniti con la morte mediante fucilazione al petto)

 

Art. 2 - La stessa pena verrà applicata anche ai militari delle classi 1923-24-25, che non hanno risposto alla recente chiamata o che, dopo aver risposto, si sono allontanati arbitrariamente dal reparto.

 

Art. 3 - I militari di cui all’articolo precedente andranno tuttavia esenti da pena e non saranno sottoposti a procedimento penale se regolarizzeranno la loro posizione presentandosi alle armi entro il termine di quindici giorni decorrente dalla data del presente decreto.

 

Art. 4 - La stessa pena verrà applicata ai militari che essendo in servizio alle armi si allontaneranno senza autorizzazione dal reparto restando assenti per tre giorni, nonché ai militari che essendo in servizio alle armi e trovandosi legittimamente assenti non si presenteranno senza giusto motivo nei cinque giorni successivi a quello prefissato.

 

Art. 5 - La pena di morte inflitta per i reati di cui agli articoli precedenti deve essere eseguita, se possibile, nel luogo stesso di cattura del disertore o nella località della sua abituale dimora.

 

UNA STRANA MADRE 

 

E’ del tutto logico che, di fronte a tanta infamia, vi sia chi, come a Vicenza città, strappa di notte manifesti o li insozzi con scritte “oltraggiose”. E i “mascalzoni” (come li chiama dando ampio risalto alla pratica “Il Popolo Vicentino”) non demordono, grattando i muri e i relativi bandi di chiamata. Provocando così l’indignazione dei fascisti “puri”.

 

Si arriva perfino in un articolo pubblicato il 10-12-1943, alla farsa di una “madre” (che non firma per esteso, il giornale pubblica solo due innocue iniziali C.R.) indignata perchè, i “renitenti” sono molti e non fanno il loro “dovere”.

 

 

“lo ho un figlio della classe 1925 il quale dal giorno 30 novem­bre, u.s. si trova regolarmente in servizio militare. Non capisco dunque nè so capire per quale motivo tanti altri suoi compagni, sani e forti quanto lui e della medesima età, siano tutti a casa, parte a spasso parte nascosti. Lo sapete Voi? Non sono tutti figli di mamma? Il mio non ha fatto come costoro e non ha nemmeno aspettato di essere tra gli ultimi perchè venissero a cercarlo in casa; egli nel suo giorno giusto si è puntualmente presentato. Se questo è un ordine, tale dovrà essere per tutti. Giacchè è certo, e bisogna che le autorità responsabili se ne rendano conto che il mio e tutti gli altri ragazzi già partiti non saranno persuasi ad adempiere ad un sacrosanto dovere bensì di essere stati beffati, se tanti o pochi loro compagni, nelle stesse loro condizioni, sono lasciati tranquilli a fare il loro porco comodo lontani dalle bandiere. L’ordine, ripeto, dev’essere ordine per tutti, senza distinzione. E, quando un congiunto di codesti renitenti è arrestato, bisogna che sia trattenuto in galera almeno fino a quando sia stato sostituito dal renitente stesso. Invece non è così e non manca chi, tornato a casa dopo un breve soggiorno in guardina, se la ride di me e di tutte le madri oneste, dicendo che i nostri figli sono partiti per comodità dei fascisti ma non per dovere, perchè oggi noi siamo senza governo ed il nostro governo è laggiù con gli inglesi e gli americani. Questa massa di canaglie, dunque è tuttora tollerata, tuttora protetta? E pensiamo di poter vincere la guerra con una longanimità cretina? La guerra la vincerà sicuramente il nostro potente alleato, la Germania. Ma che cosa potremo pretendere da lui quando sarà finita e quando al tavolo della pace dovremo riconoscere che la nostra parte di popolo intelligente ma senza carattere è stata solo quella di farci prendere a calci da tutti? Se si vuol essere davvero qualche cosa non contano nè conteranno i sacrifici durati quanto le vittorie effettivamente conseguite. E per conseguire vittorie bisogna, in primo luogo, che tutti facciano il loro dovere e che chi non lo fa venga messo al muro”.

Firmato: una “madre” (anonima).

 

Parole gravi che dimostrano senza equivoci come siano proprio i fascisti repubblicani ad affrettare i tempi e a bruciare le tappe per la “resa dei conti” e per la “guerra civile”

 

SORPRESA: IL PARTITO SI RIPRENDE 

 

Ai primi di gennaio del 1944 il partito fascista repubblicano è ormai in piedi. Costituito in quasi tutti i centri della provincia esso vive però una vita precaria avvilito da definizioni, ripensamenti, atterrito da attentati, seguito dalla occhiuta vigilanza dei tedeschi, alleati avari di benevolenza verso i “collaborazionisti”.

 

 

Il 13 gennaio vengono nominati gli ispettori di partito per le 12 zone in cui è divisa la provincia vicentina. Oltre al capoluogo, che vede saldo in sella il “proletario” e sindacalista Giovanni Caneva nelle vesti di “Federale”, vengono la seconda zona (Camisano) messa in riga da Silvio Toniolo, la terza (Barbarano V.) con Pasquale Salerno, la quarta (Pojana Maggiore) con Ugo Jacopo Basso, la quinta (Lonigo) con Pietro Griffani, la sesta (Arzignano) con Ottorino Caniato, la settima (Valdagno) con Emilio Tomasi, l’ottava (Schio) con Guglielmo Barchiesi, la nona (Thiene) con Valentino Rossi, la decima (Asiago) con Francesco Maini, l’undicesima (Bassano) con Valente Gasperi e la dodicesima (Sandrigo) con Enea Amato.

 

 

Due giorni dopo, il 15 gennaio, viene nominata la commissione federale di disciplina proprio mentre vengono alla luce nefandi atti di violenza perpetrati dalla squadra d’azione federale di Vicenza. Al punto che nel mese di marzo sarà necessario sciogliere la squadra per rimettere ordine nella Federazione del Capoluogo. Presidente della Commissione federale di disciplina viene nominato l’avvocato Giuseppe Filiberto Uderzo, segretario il ragioniere Carlo Carlassare, componenti il prof. Enrico Moneta (“intellettuale” della compagnia) l’operaio Giobatta Lampuzzi e l’impiegato Mario Sgaggio.

 


LA MILITARIZZAZIONE STRISCIANTE 

 

Sul piano tattico il partito comunque non perde tempo. Dopo aver assaporato l’amaro calice delle elezioni dei reggenti dei fasci locali i maggiorenti della Federazione provinciale decidono per la “militarizzazione strisciante”.

 

 

Si istituiscono nei centri più grossi degli uffici di arruolamento che servono a rimpolpare le fila del (già in crisi) nuovo esercito del maresciallo Graziani e, anche e soprattutto, per costituire ex novo dei reparti completamente fascisti (di “pura fede fascista”) atti alle più dure bisogna (rappresaglie), espletate con il naso all’insù dai reparti sempre più demoralizzati della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana).

 

 

Il 14 febbraio vengono tagliati i nastri per i nuovi centri di arruolamento il cui responsabile provinciale è iI prof. Pierangelo Stefani. Non solo, ma per rispondere alla perdita di credibilità causata dallo scioglimento della squadra d’azione federale il 2 aprile si festeggia la neonata “Compagnia della morte” capeggiata per l’occasione(e la cosa è vera, non sembri una barzelletta) dal capitano Tomba!

 

 

La tensione interna alla Federazione dei Fasci repubblicani di Vicenza resta però sempre molto alta. Dopo nemmeno tre mesi di reggenza viene sciolta la gerarchia in carica all’ufficio disciplina del partito, segno che il processo di ristrutturazione delle fila fasciste incontra difficoltà insormontabili e che occorre la mano pesante per rimettere in sesto un esercito sempre più anarcoide e plebeo.

 

 

Così il 15 marzo 1944 conquista l’incarico di Capo Ufficio disciplina della Federazione di Vicenza il capitano (ex Carabiniere Reali) Ercole Labate mentre il Dott. Giulio Vescovi assume l’incarico di capo della segreteria politica, Roberto Roberti l’ufficio sindacale e l’avv. Filiberto Uderzo viene retrocesso a capo dell’ufficio legale dell’Unione dei Lavoratori dell’industria.

 


VIA I TIEPIDI! 

 

La “normalizzazione” del partito non conosce soste. E’ la volta anche dei “tiepidi” (già messi in crisi con l’allontanamento dell’ex Federale Bruno Mazzaggio) a cui si rivolge il diktat del ministro per la cultura popolare Mezzasoma: “I giornali non devono pubblicare appelli per la pacificazione delle menti e la concordia degli spiriti, per la fraternizzazione degli Italiani.

Dopo 45 giorni di avvelenamento della pubblica opinione, di scandali, di predicazione di odio e di caccia all’uomo, certe manifestazioni pietistiche rivelano solo viltà e tiepidezza”.

 

 

 

L’appello è del 15 ottobre 1943 ma alla periferia non avevano subito compreso e i “tiepidi” avevano continuato nei loro concitati discorsi di “concordia nazionale”. Con il nuovo anno niente di tutto questo appare più sulla stampa del regime.

 

 

 

A Vicenza Angelo Berenzi si fa portavoce dell’ala dura. Il neo direttore de “Il Popolo Vicentino” si scaglia contro gli incerti, contro coloro che non sostengono con il giusto spirito lo sforzo bellico. Ai giovani che non si fossero presentati alle armi il Berenzi promette la cattura dei loro congiunti.

 

 

 

Nell’articolo del 19 dicembre 1943 giunge a scrivere: “Agli altri, ai turpi assassini venduti al turpe nemico vada intanto, in attesa del ferro che vendica e risana, il disprezzo di ogni accesto e la maledizione di Dio”. La campagna de “Il Popolo Vicentino" continua con altri articoli infiammati.

 

 

 

Incita alla repressione contro gli operai che tentano di sottrarsi al lavoro obbligatorio imposto dai tedeschi, incita all’arruolamento nelle SS tedesche, commenta l’arresto e la relativa fucilazione degli ammiragli Campioni e Mascherna (rei di aver tenuto fede al giuramento prestato) in questo modo: “non sarà, purtroppo, la fucilazione di codesti manichini che verrà a consolarci della tremenda sanguinante ferita che, col loro aiuto, venne inferta alla nostra Patria”.

 

 

 

Lo stesso giorno dell’elezione della commissione di disciplina il 15 gennaio 1944 vengono fucilati a Marostica, quasi una vendetta postuma per l’uccisione dello zio del Federale Caneva avvenuta nell'autunno del ‘43, quattro giovani “ribelli”: Vaccari Decimo, da Marostica, Provolo Bruno, da Vicenza, Nodari Luigi da Nove di Bassano, Rossi Giovanni da Sasso di Asiago. Tutti e quattro perchè ’’rinvenuti con le armi addosso e dopo una furibonda sparatoria...”.

 

ORMAI E’ GUERRA CIVILE 

 

Naturalmente la rappresaglia non tarda ad arrivare. Il 3 febbraio a Fonzaso viene ucciso uno squadrista, Vittore Perii, il 25 un milite della Guardia Nazionale Repubblicana di Schio resta sul selciato nel tentativo di fermare un “disertore”. Ma, se a Vicenza città la situazione si mantiene sotto il ferreo controllo tedesco e delle varie polizie “repubblicane”, in provincia la nuova struttura dello Stato subisce dei fortissimi contraccolpi. E il nuovo squadrismo non fa che accelerare la corsa verso la totale guerra civile. E, come se non bastasse l’indisciplina degli scherani della Federazione, ci si mette pure di mezzo il Federale vicentino.

 

 

Il 28 aprile 1944, a seguito dell’uccisione del Dott. Mario Dal Zotto, Commissario Prefettizio di Thiene, vengono arrestate le seguenti persone, tratte da un elenco di antifascisti compilato dal locale fascio repubblicano: Corrà Giovanni - Dalla Fontana Bortolo - Pietro Fabris - Antonio Finozzi - Francesco Gamba - Livio Gemmo - Leder Giobatta - Alberto Umanizzi - Onorio Pacini - avv. Cesare Rossi - Antonio Spillare - Riccardo Vecelli - Giovanni Zanchi. E Caneva invece che fare opera di moderazione interviene pesantemente. Alla casa del Fascio si riuniscono d’urgenza i fascisti thienesi, il Dott. Pietro De Toni, il rag. Guglielmo Portelli, il maresciallo della Finanza Nicastro, Ezio Signorini, Ottorino Vecelli, Karanfil Zart, Collarini Oreste, Martini Egidio, Meneghini Matteo, Lain Giuseppe, Fausto Ferruglio e altri. 

 

 

All’ordine del giorno dell’adunata: come rispondere all’uccisione del commissario prefettizio. I convenuti sanno che gli ostaggi sono tutti innocenti, che sono cittadini di Thiene pacifici e non pericolosi per l’ordine pubblico anche se in odore di “antifascismo”. Ma la logica della rappresaglia non concede nulla alla pietà e la decisione di fucilarli alla fine viene presa, nonostante l’opposizione della stessa famiglia dell’ucciso, dai dirigenti del Fascio. Nella sede, a suggellare e convalidare la “sentenza” arriva trafelato da Vicenza lo stesso Giovanni Caneva, seguito dai “pentarchi” Domerillo, Faccin, Sartori, Umanizzi, ecc.

 

 

“Lascio al fascio di Thiene di far tutto ciò che crede” concede il Capo. Così tredici innocenti rischiano di finire sotto il piombo di un plotone d’esecuzione. Ma ci si mette di mezzo la fortuna, che nella fattispecie indossa i panni di un tenente tedesco della FLAK, un certo Knobel che, impressionato dalla gravità della cosa si reca di persona a Vicenza presso la Platzkommandantur per perorare la causa degli ostaggi.

 

 

Succede il finimondo: tra la Federazione e l’Albergo Roma, sede del comando tedesco, avviene un turbolento scambio di telefonate. Alla fine, ovviamente, prevale la prudenza tattica tedesca che, non certo per motivi di umanità, impedisce ai servitori italiani di pigiare troppo l'acceleratore della vendetta. La comunicazione telefonica viene intercettata dalle telefoniste della Federazione che hanno modo di ascoltare il colloquio tra il Comando tedesco e il Federale Caneva.

 

 

Questo il testo (trascritto) del colloquio Platzkommandantur: “bisogna sospendere subito quanto stabilito”; Federale Caneva: “Mi dispiace molto d’aver perduto mezza giornata per niente come rincrescerà indubbiamente a Domerillo e agli altri camerati del Fascio di Thiene che attendevano di dar corso a quanto avevano deliberato”.

 

 

Certo che la Patria ha un significato assai strano per i fascisti republicani. Sembra quasi che, consci di essere in “terra straniera”, il loro comportamento sia di assoluta estraneità a tutti i sentimenti di umanità e di prudente tatticismo propri dei politici più navigati ed esperti. E di “politica” per il fascismo repubblicano vicentino, in questo primo scorcio del 1944, non si può proprio parlare. La gestione dell’economia è per la gran parte sotto il controllo minuzioso del tedesco, l’ordine pubblico è gestito a metà, l’esercito (quel poco che si è riusciti a racimolare) è al fronte, gli altri sono di riserva per rastrellare o oziare nelle caserme. Comunque, nell’insieme, si è di fronte ad un’armata inaffidabile e rosa da gelosie intestine. Del resto il morale è sempre più basso anche se la propaganda cerca di confondere le idee.

 

 


L’ARMATA DI GRAZIANI 

 

 

"Chi di spada ferisce, di spada perisce”. Forse il detto non è mai stato così adatto come nel periodo 1944-45. Difatti al di fuori dell’area del Partito il fascismo repubblicano deve contare su forze militari regolarmente costituite e organizzate, inquadrate secondo i normali dettami degli eserciti nazionali. Nel quadro, già abbondantemente dipinto da numerosi storici, della dissoluzione dell’armata di Graziani, anche Vicenza fa la sua parte.

 

 

In città hanno sede vari comandi, quello Provinciale, il Deposito Misto, il Battaglione Lavoratori, le caserme del 57° Fanteria, il Distretto Militare, per non parlare della Guardia Nazionale Repubblicana con tutti i suoi numerosi uffici e distaccamenti. Inoltre operano in zona gruppi della Decima Mas, dei battaglioni della Divisione “Tagliamento”, reparti di Marina dislocati a Montecchio e nuclei dell’areonautica dislocati al “Dal Molin” a Vicenza.

 

 

Sulla carta migliaia di uomini, nei fatti una congerie di organismi minati nel profondo, strutturalmente deboli, anzi considerati dai tedeschi  un impaccio se non un pericolo.  Munizioni regolarmente contate, divise rozze e senza ricambi (per lunghi periodi), scarpe insufficienti, armi non abbondanti e servizi di collegamento assai inefficaci. Con queste premesse si capisce come a Vicenza l’armata di Graziani abbia collezionato una serie impressionante di brutte figure, poiché i famosi  “servizi di istituto” erano giornalmente espletati da persone che avevano in cuor loro scelto di arrivare vive alla fine della guerra o che, ipotesi ancor più negativa, parteggiavano per la causa partigiana.

 

 

L’INFILTRAZIONE DELLA RESISTENZA 

 

 

E quest’ultima ipotesi trova una conferma impressionante nella documentazione. Si comincia con l’inserimento nella Polizia Ausiliaria di Vicenza di Cesare Antonini, inserimento caldeggiato dal comandante della squadra di partigiani di Sossano. Antonio Trevisan. L’Antonini, da bravo “partigiano in uniforme”, fornisce alla squadra dei suoi amici di Sossano 2 parabellum, 2 mitra, 4 fucili mod. 91 e 2 pistole Beretta. Tutto materiale prelevato dall’armeria della Questura di Vicenza. Ovviamente il tutto confezionato con cura e dotato di numerosi caricatori. Alla faccia di Salò.

 

 

Non solo ma il medesimo è attivo anche nel sottrarre dall'ufficio del capitano Polga (comandante del locale Reparto d Polizia Ausiliaria di Vicenza) documenti e fotografie. La serie continua con iI Dott. Alberto De Marchi che aiuta la “causa della liberazione” presentandosi alle armi nell’esercito di Graziani su consiglio del Comando militare provinciale della Resistenza. Addetto al 26° Comando provinciale (RSI) di Vicenza riesce a fornire notizie di interesse politico e militare.

 

 

Il capitano Giuseppe Restivo dopo l’8 settembre è rifugiato nei pressi di Varese. Già in forza al 57° reggimento di Fanteria di stanza a Vicenza si ripresenta ai primi bandi di chiamata. Gli viene assegnato l’Ufficio Stralcio del reggimento in data 1 novembre 1943. Ma già a quella data il Restivo è in contatto con elementi della resistenza. Il suo contributo diventa via via sempre più importante poiché fornisce addirittura armi e munizioni, documenti, notizie di rastrellamenti, ecc. “Quando si accorgeva che qualche soldato alle sue dipendenze asportava licenze, tesserini ed altro, anziché prendere dei provvedimenti a carico li incoraggiava e lasciava incustoditi timbri dando così a possibilità di autenticare i documenti...” (Arc. di Stato di Vicenza Fondo CLNP B. 9 prot. N. 3301/31).

 

 

Ma non sono solo gli ufficiali di basso grado a fare la fronda a Salò, anche i gradi più elevati mal sopportano il tedesco e il fascismo repubblicano. Lo stesso comandante dell’Ufficio Stralcio del 57° reggimento fanteria, il ten. col. Antonio Milito, superiore diretto del capitano Restivo (che come abbiamo visto è con i partigiani), è considerato “infido” dalla locale Federazione del Fascio. Il 13 marzo 1944 i segugi di Caneva segnalano alla Questura di Vicenza l’ufficiale che viene all’istante esonerato dal servizio. Ma la cosa non finisce lì. Sfollato a Grantortino, il Milito si butta con la resistenza fornendo anch’esso documenti falsi e informazioni.

 

 

E’ ormai una corsa a chi aiuta di più il Fronte di Liberazione. Il comandante del Battaglione del lavoro, il maggiore Leopoldo Zito sin dalla primavera del 1944 aiuta i “ribelli”. Li iscrive con date retroattive negli elenchi dei lavoratori militarizzati in forza all’lspettorato, favorisce lunghi permessi ai partigiani mimetizzati nel battaglione, si fa aiutare dai suoi ufficiali per prendere accordi con i comandi partigiani per eventuali azioni di commando in città. Ma il lavorìo interno finisce stroncato dai servizi di informazione fascisti. E così anche Leopoldo Zito deve lasciare la carica e allontanarsi in fretta per evitare guai più seri.

 

 

Nevio Bottazzi il 13 maggio entra nel reparto di Vicenza della Guardia Nazionale Repubblicana del Lavoro. Ovviamente su proposta del comandante partigiano ragioniere Cesare Eccli allo scopo di sabotare dall’interno l’organizzazione per l’inoltro di lavoratori italiani in Germania. Così ricorda in una sua testimonianza scritta il faticoso e rischiosissimo incarico: “Appena ambientato - come da istruzioni avute - mi diedi da fare per formare una squadra con elementi del reparto stesso. Da parte mia riuscii ad entrare nello stesso ufficio che trattava l’invio dei lavoratori in Germania. Gli elenchi dei lavoratori venivano inviati al reparto dall’ufficio di collocamento tedesco ed italiano in numero rilevante. Dal maggio del 1944 al gennaio del 1945 furono precettati da detti uffici di collocamento ben 13.000 (tredicimila) lavoratori, ma grazie all’attività della squadra e mia (distruggendo elenchi ed avvisando in tempo i ricercati) partirono per la Germania 1.250 (milleduecentocinquanta) lavoratori...”.

 

 

Agostino Corato, che come molti giovani in quel periodo non aveva nessuna voglia di fare la guerra per il fascismo di Salò, risolve il suo problema, consigliandosi sempre con il buon rag. Cesare Eccli, e si arruola nell’Ufficio Sanità della G.N.R.. Il tentativo di Corato riesce appieno. Dopo un po’ egli è al suo posto di lavoro e intralcia fin da subito pratiche e documentazioni. Aiuta i carabinieri che nell’estate del ‘44 hanno grossi problemi (vengono rastrellati e internati in Germania, ma molti riescono a fuggire); fornisce informazioni riservate sulle condizioni di salute dei detenuti politici sia delle carceri di San Biagio che di quelle di San Michele (Caserma della Guardia Nazionale Repubblicana e sede dell’Ufficio Politico Investigativo). Più o meno lo stesso lavoro viene affidato a Francesco Vettore che ha un incarico di impiegato presso la G.N.R. del Lavoro di Vicenza.

 

 

INIZIA IL TERRORE 

 

 

Al “fronte interno” e allo squagliamento della “pura fede fascista” il regime risponde a Vicenza con misure draconiane. Dopo le disavventure della squadra d’azione federale qualcuno si era reso conto che bisognava rendere più presentabile il nuovo squadrismo. Ma i cervelloni di contrà San Marco non pensano di meglio che battezzare (come già accennato poc’anzi) il nuovo organismo armato “Compagnia della morte”.

 

 

La squadra debutta, uccide, imprigiona, e rastrella alla solita maniera. In provincia la “Compagnia della morte” incontra subito i favori dei ras locali che si sentono insicuri e premono perchè renitenti e ribelli vengano “tolti di mezzo”. In questa situazione, accade nell’aprile 1944 un fatto gravissimo che può essere considerato un vero e proprio test per capire le intenzioni dell’ala dura del fascismo di Salò.

 

 

A Grancona, sui monti Berici, gli informatori avevano segnalato movimenti sospetti di prigionieri inglesi e di giovani “ribelli”. In effetti attorno alla figura di un ex sergente dell’esercito (e comandante di distaccamento partigiano), tal Raffaele Bertesina, si era coagulato un gruppetto di renitenti del posto. I fascisti riescono addirittura a contattare il capo del piccolo gruppo e fissano un appuntamento.

 

 

La sera dell’8 giugno 1944 presso la chiesetta di San Antonio il gruppo si incontra con alcuni civili che dicono di essere “partigiani”. La “controbanda” (fascista), un tentativo riuscito di infiltrazione tra i “ribelli”, attende nella notte i giovani. Rapidamente il gruppo viene circondato e la sorte dei renitenti è segnata. Vengono trovati alla mattina del giorno successivo orrendamente straziati, con ferite orribili in tutto il corpo.

 

 

Responsabili dell’eccidio (nel dopoguerra verranno processati per il fatto) i componenti delle squadre d’azione federali (rinate) di Vicenza: Caneva Fausto, Schiesari Adelmo, Girotto Angelo (indicato anche dai camerati come lo “squilibrato” che fece fuoco sui giovani), Boschetti Rodolfo, Paolo Indelicati, Ferdinando Donadello, Antonio Zanin, Bruno Londani, Renato Longoni, Giacinto Caneva, Mario Filippi, Giuseppe Conforto, Corrado Levorato, Walter Rizzato, Mario Chemello, Vittorio Carlotto, Guido Bisognin, Ferruccio Spoladore, Bellizzi Francesco, Caneva Duilio, Giovanni Brogliato, Aldo Alias.

 

 

UN COMMISSARIO PREFETTIZIO MOLTO PARTICOLARE 

 

 

Gastone Zaccheria, proveniente da Arezzo, commissario prefettizio di Brendola, nella primavera del 1944 è al suo posto con incarichi un pò speciali.  Difatti si occupa di lavoro di ufficio ma va anche in giro per il comune in cerca di renitenti, sbandati e “ribelli”. In una parola fa la spia. Diventa così il tramite della “Compagnia della morte”.

 

 

Come si evince dalla documentazione inerente alla sentenza del tribunale di Vicenza del 25 luglio 1946 egli si impegna a fondo in quest’opera “meritoria”. Ferma per la strada i giovani che non conosce, impone l’esibizione dei documenti. Agli atti del tribunale e dell’Archivio di Stato di Vicenza (B.15. fasc.18, fondo CLNP) vi sono documenti scritti di suo pugno, fra i quali una sua missiva “riservata”, la n.25 del 21 aprile 1944 con la quale informa le autorità vicentine delle sue prodezze:

 

 

“Adempio il dovere di informarvi che avuto sentore di un gruppo di ribelli che si aggirava nel territorio di questo comune ne informavo subito il locale comando germanico per l’azione repressiva. Il 12 corrente alle ore 22,30 circa riuscivo a sorprendere insieme ai soldati germanici i ribelli stessi mentre erano di passaggio sulla strada di contrà Colombara. Ne seguiva uno scontro durante il quale rimanevano uccisi tre ribelli..”.

 

 

Ma questi sporadici successi attorno a Vicenza non bastano per quietare gli animi dei fascisti della Federazione del PFR, sempre in grande subbuglio. E  difatti, l’era di Giovanni Caneva si sta ormai esaurendo. I conti fra le fazioni del fascismo repubblicano vicentino sono stati definiti. Caneva, uomo dalla personalità complessa, capitato al comando in un’epoca di barbari schieramenti, deve  cedere le redini al capo bassanese Innocenzo Passuello.

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