OCCUPAZIONE TEDESCA E AMMINISTRAZIONE FASCISTA REPUBBLICANA: SCHIO

 

L'occupazione tedesca a Schio 

 

di Luca Valente 

 

Protagonisti. Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Quadrimestrale di ricerca e attualità culturale. N° 75 - aprile 2000

 

 

 

1. Tradizione industriale, classe operaia e fascismo

 

Il periodo storico che va dal settembre 1943 all’aprile 1945 è stato un crescendo di momenti drammatici, significativi della crisi di una nazione intera. I venti mesi di occupazione tedesca non si esplicarono comunque con gli stessi caratteri in ogni luogo d’Italia. A parte il caso particolare delle Zone d’Operazione, l’Alpenvorland e l’Adriatisches Küstenland, in cui predominarono i tentativi di snazionalizzazione, e delle aree immediatamente retrostanti la linea del fronte, le Amministrazioni militari tedesche assunsero atteggiamenti mirati alla "tipologia" di ogni territorio ad esse sottoposto.

 

Le grandi aree industriali dell’Italia settentrionale costituivano senz’altro delle zone d’interesse privilegiato per le autorità d’occupazione, i cui uffici erano spesso in concorrenza tra loro nello sfruttamento delle risorse della penisola. Se a questa caratteristica si trovano poi affiancati altri elementi, come l’immediata vicinanza di un ambiente collinare e montano, habitat della resistenza armata, la presenza di un amministratore fascista moderato, autentico cuscinetto tra popolazione ed occupante, e l’avvicendarsi di una miriade di formazioni militari e di polizia, allora viene chiaramente a delinearsi il caso particolare di Schio, centro urbano dell’Alto Vicentino conteggiante all’epoca circa ventitremila abitanti.

 

Negli anni Quaranta Schio, assieme alla vicina Valdagno, costituiva ancora uno dei più vasti poli industriali italiani, incentrato principalmente sulla produzione tessile e in parte su quella meccanica. La tradizione manifatturiera affondava saldamente le sue radici nei secoli precedenti avendo conosciuto, a partire dal Settecento, uno sviluppo rapido ed imponente, che valse alla città l’appellativo di "Manchester d’Italia". Tale sviluppo raggiunse il suo culmine nella seconda metà del secolo successivo.

 

Fu un fenomeno maestoso, con pochissimi episodi comparabili nel resto del paese, ma fu anche la storia di un uomo, Alessandro Rossi, «imprenditore eccezionale e lungimirante quanto capitalista spregiudicato e ai limiti del cinismo nel creare dal nulla una società operaia e un monumento all’industrializzazione moderna». Il progetto paternalistico e utopistico di Alessandro Rossi non ebbe successo durevole, poiché alle masse operaie non bastarono le opere e istituzioni a loro favore in un contesto salariale che rimaneva miserevole. La sconfitta del grande sciopero di fine Ottocento provocò un esodo di massa e chiuse un’epoca, ma fu anche la palestra in cui si formò la spina dorsale della coscienza di classe operaia a Schio. 

 

Da quel momento, mentre amministrazione civica e grande imprenditoria procedevano a braccetto, il nome di Schio si trovò sempre più spesso correlato ai grandi avvenimenti nazionali. Nella 1ª Guerra Mondiale, con il fronte vicinissimo sul monte Pasubio, ebbe luogo in città un vastissimo sciopero operaio femminile; contemporaneamente un folto gruppo di soldati originari di Schio finiva sotto processo per sovversivismo. Nel biennio rosso non si contarono le occupazioni di fabbriche ad opera degli Arditi Rossi. Dopo il ventidue lo scontro tra apparato repressivo fascista e gruppi comunisti assunse toni aspri, culminando nel cosiddetto "Processone" del 1937 e, in generale, in lunghissime pene detentive, tanto che a Schio la proporzione di condannati è superiore a quella di ogni altra zona d’Italia. 

 

2. L’invasione e le sue conseguenze

 

Lo scoppio del conflitto e la caduta di Mussolini sono eventi vissuti, a Schio, in maniera conforme al resto del paese: l’illusione iniziale di una guerra facile e breve lascia il posto, nei più, allo sconforto e quindi, nell’estate del 1943, alla speranza di una pace finalmente lenitiva dei tanti sacrifici patiti. L’armistizio dell’8 settembre ravviva nuovamente questi sentimenti, ancora una volta destinati a spegnersi rapidamente: appena trentasei ore dopo l’annuncio radiofonico del maresciallo Badoglio i tedeschi fanno il loro ingresso in città, aprendo il lungo calvario dell’occupazione. 

 

L’intero periodo è potenzialmente divisibile in cinque fasi, ognuna caratterizzata da una particolare evoluzione della situazione storica: dopo la fase iniziale dell’invasione e del conseguente assestamento, a partire dal settembre 1943, che dura all’incirca due mesi, vi è quella in cui la Repubblica Sociale cresce, al riparo della protezione tedesca, cercando di debellare la minaccia portata da tutti i propri nemici, interni ed esterni; quindi, a partire dall’aprile del 1944 fino all’autunno, si apre la sanguinosa parentesi dello scontro armato. Il successivo inverno copre il quarto periodo, quello dell’attesa, degli ultimi rastrellamenti, dei bombardamenti da parte alleata; infine in marzo ed aprile del 1945 si registrano la ritirata tedesca e la fine dell’occupazione e del Fascismo. 

 

L’instaurazione del regime d’occupazione avviene con le medesime modalità utilizzate dalla Wehrmacht in tutta Italia. Nella notte tra il 9 e il 10 settembre un reparto di una cinquantina di SS e di fanti assale la Caserma Cella in pieno centro: quattro militari italiani perdono la vita. L’efficienza e la determinazione tedesche sono agevolate dal comportamento del comandante italiano, che ha rifiutato l’aiuto di una cittadinanza battagliera e notoriamente antitedesca e ha fatto disarmare i suoi 1.300 uomini, già di per sé demoralizzati: nel giro di un paio di giorni i militari sono fatti partire per la Germania, con grande commozione popolare e con gli operai, abbandonate le fabbriche, scesi in strada a protestare. 

 

L’amministrazione tedesca s’installa con rapidità: la neocostituita Standortkommandantur (Comando di Presidio) di Schio prende giurisdizione su una quindicina di Comuni. Il comandante di Presidio, capitano delle SS Indenbirken, instaura un concreto regime d’occupazione, che limita fortemente le libertà individuali e impone la consegna di beni che sono costati diversi sacrifici ai cittadini, dalle automobili alle biciclette, dalle radio ai fucili da caccia. Mentre nuovi reparti rinforzano il dispositivo tedesco, tutte le caserme sono saccheggiate dagli occupanti e viene requisita la Casa del Fascio, che diventa sede del Comando, e con essa numerose ville. Con continue requisizioni forzate si esigono lussi, comodità, arredamenti nuovi, banchetti: l’Italia è vista come un tesoro al quale attingere, riparo dalle sofferenze dei vari fronti di guerra. È anche il periodo dei bandi e dei comunicati, dei quali vi è una vera e propria inflazione, e del marco d’occupazione, il cui cambio risulta molto sfavorevole per la popolazione. 

 

Soprattutto, però, sono le risorse industriali a interessare notevolmente l’occupante: già il 18 settembre, dopo l’interessamento del Wirtschaftkommando (Comando economico) n° 3 di Verona, a tutte le industrie è inviato un questionario apposito, da compilare e riconsegnare in tempi brevi: sulla base del "censimento" che se ne ricava, l’occupante decide quali industrie "proteggere".

 

La maggior parte delle fabbriche cittadine viene perciò destinata a produrre per il 3° Reich. In primis, naturalmente, i grandi stabilimenti tessili (Rossi, Cazzola, Conte), dai quali i tedeschi ricavano soprattutto coperte e panni per usi militari, e tutte le numerose industrie collegate al settore, ad esempio la Fabbrica Navette. Le requisizioni riguardano anche cementifici e fornaci (il cemento è insostituibile per la costruzione di opere fortificate), officine (per riparazioni meccaniche) e lo stabilimento dell’ILMA, presso il quale uno stuolo di tecnici della Luftwaffe dirige indispensabili lavori di collaudo e manutenzione di motori aeronautici, nonché di revisione di strumenti ottici della Flak (contraerea). Quanto i tedeschi tengano alla regolarità della produzione è testimoniato dalla miriade di appelli e ordinanze indirizzati a tale proposito alle autorità italiane e alla cittadinanza. 

 

Il rigido controllo tedesco sulla produzione ha anche un impatto sociale. Migliaia di lavoratori scledensi si trovano a produrre per un occupante che fin da subito si dimostra prepotente ed interessato esclusivamente al proprio tornaconto. Ma più ancora sono sentite le conseguenze economiche dell’occupazione, che gravano in massima parte sul Comune, essendo la nuova Prefettura repubblicana incapace di far fronte alla maggior parte delle richieste di rimborso di chi ha subito requisizioni e prelievi arbitrari. Il Podestà Radi, in difficoltà nel sostenere ulteriormente il ruolo di scomodo cuscinetto tra popolazione e occupante, a metà ottobre si dimette: al suo posto viene nominato come Commissario prefettizio Giulio Vescovi, originario della zona, già tenente dei carristi. Il trentaquattrenne ufficiale, pluridecorato in Africa, risulterà una figura chiave di tutto il periodo. 

 

3.1 La Repubblica Sociale all’offensiva

 

A partire dalla fine di novembre si apre il periodo in cui il Fascismo Repubblicano cerca di crearsi una rispettabilità: comincia una vera e propria battaglia, sollecitata dall’alleato-padrone tedesco, contro tutti i nemici e gli oppositori, veri o presunti che siano. Si ricostituisce innanzitutto il Fascio scledense, sotto la guida di Guglielmo Barchiesi: ufficialmente prende vita il 12 dicembre. Nel vaglio delle domande d’iscrizione si dichiara ostilità per i "plutocrati" e gli "arricchiti", e solidarietà per i repubblicani una volta lontani dal Regime per la collaborazione con la Monarchia. Gli iscritti sono però pochi per una città di oltre 23.000 abitanti: appena centosessantotto, segno dello scollamento prodottosi tra popolazione e Fascismo. 

 

Per i fascisti repubblicani il ritrovo della rispettabilità presuppone anche che si torni a combattere, e che ci si doti di un esercito. Il 9 novembre viene pubblicato il primo manifesto di richiamo alla leva, il 20 nasce invece la Guardia Nazionale Repubblicana, l’esercito di Ricci, capo della Milizia. Gli scontri tra quest’ultimo e il maresciallo Graziani, nonché le difficoltà create da Hitler, sono ulteriori tare che pesano su di una situazione difficile, che anche in zona manifesta risvolti comuni al resto del paese: scarsa risposta alle chiamate e cronica mancanza di materiali.

 

La GNR, con il ruolo di polizia interna e militare, a Schio ha comunque un inizio favorevole: la formazione locale è direttamente comandata dal Seniore della Milizia Otello Gaddi, esponente di spicco del Regime e protagonista del processo di Verona contro i membri del Gran Consiglio del Fascismo, in quanto facente parte del Tribunale Speciale. 

 

La presenza tedesca continua intanto a creare disagi alla popolazione: le richieste di indennizzi e risarcimenti per requisizioni e simili cadono nel vuoto o incontrano tempi di esecuzione parziali e lunghissimi. Le scuole hanno dovuto ridurre la loro attività, soprattutto perché molte aule sono state requisite. Per un certo periodo viene considerata l’ipotesi di trasferire a Schio alcune sedi ministeriali della neonata Repubblica Sociale: la cittadinanza manifesta a tale proposito un’immediata e determinante opposizione, per paura dei bombardamenti. Le autorità fasciste locali, da parte loro, appaiono incapaci di porre un freno alle crescenti difficoltà che l’occupazione comporta.

 

Il Commissario prefettizio Vescovi, appena assunto il suo incarico, non dimostra particolari remore nell’assecondare le richieste della Standortkommandantur. Oltretutto il Fascismo è obbligato a pagare alcuni debiti con l’occupante: anche a Schio gli ebrei, che fino all’8 settembre, per quanto messi in difficoltà dalle leggi razziali, erano riusciti a sfuggire a persecuzioni di rilievo, entrano ora nel novero dei nemici dichiarati: sono costretti a nascondersi, ben presto braccati. I loro beni vengono sequestrati. 

 

È la stessa Salò, comunque, con l’inizio del 1944, a intraprendere un’offensiva globale contro tutti gli oppositori, che diventa un chiaro messaggio ed un incitamento a serrare le fila. Il primo ad essere attaccato è il clero, perchè non garantisce sufficiente appoggio al nuovo regime. Dopo diffuse e varie indagini sui sacerdoti locali esplode il caso Tagliaferro. Monsignor Girolamo Tagliaferro, arciprete del Duomo, è all’epoca la figura religiosa più rappresentativa della città. Viene pesantemente attaccato per aver criticato i sacerdoti impegnati con la stampa nazionale, come il noto don Tullio Calcagno. Per ritorsione il bollettino parrocchiale viene sospeso.

 

Anche le locali autorità tedesche seguono con attenzione la vicenda e ne riferiscono in Germania. Parallelamente viene istituito il Tribunale Speciale Provinciale, e ben presto cominciano a essere indagati numerosi cittadini. Le direttive politiche prendono di mira soprattutto i traditori dell’estate precedente, ma ce n’è per tutti: arricchiti grazie a cariche di Partito, per i quali si arriva addirittura a considerare il periodo a partire dal 4 novembre 1918; sfaccendati che non contribuiscono a produrre o operare per la patria; denigratori o critici delle istituzioni; i Carabinieri, mal visti all’interno della GNR perché considerati troppo filo-monarchici e potenzialmente traditori.

 

Più di ogni altro, però, è la media ed alta borghesia cittadina a finire nel mirino, perché considerata sostenitrice del nascente movimento d’opposizione armata. La maggior parte degli indagati riesce ad eclissarsi prima dell’arresto. Parallelamente le autorità italiane s’impegnano nel problema del reclutamento, che a fine gennaio raggiunge il suo limite: circa metà dei richiamati si è presentato.

 

Dopo il 18 febbraio, giorno in cui appare il drastico Bando Graziani, che prevede la pena di morte per i renitenti, aumenta decisamente il numero di coloro che preferiscono rifugiarsi in collina, ingrossando le fila partigiane. 

 

In questi molteplici sforzi riorganizzativi s’inserisce un elemento di successo per il nuovo Fascismo: la ricostituita Opera Nazionale Balilla registra un notevole numero d’iscrizioni, soprattutto a livello femminile, risultato forse dovuto alla tradizione associazionistica diffusa in città fin dall’Ottocento, e, fatto ulteriormente insolito in un periodo in cui tutto è precario, sembra essere un’organizzazione efficiente. Numerose sono le attività messe in opera, da quelle fisiche agli insegnamenti morali e pratici, come i corsi di pronto soccorso. Le giovani costituiscono poi un potenziale serbatoio per il corpo delle ausiliarie. 

 

3.2 Sovversione operaia e piani tedeschi

 

Ai primi di marzo del ’44 l’atmosfera subisce un repentino surriscaldamento a causa degli scioperi di tutte le industrie cittadine, contemporanei ma iniziati un giorno prima rispetto a quelli dell’Alta Italia, segno della vitalità dell’ambiente operaio cittadino.

 

Le autorità d’occupazione sono preoccupatissime, e dopo qualche tentativo minaccioso arrivano a promettere la cessazione di ogni invio di lavoratori in Germania, che localmente ha scatenato l’agitazione, in cambio della ripresa del lavoro. Questo perché gli operai si sono dimostrati compatti e decisi, e il mantenimento della produzione, e dell’ordine, vengono considerati primari. 

 

Si sono scontrate ancora una volta 2 differenti strategie nell’amministrazione tedesca.

 

La 1ª si fonda sul mantenimento della produzione in loco, magari più dispendiosa, ma sicuramente efficiente, perché in città il rifornimento di materie prime e l’erogazione di energia elettrica sembrano essere tutto sommato più regolari che altrove, anche rispetto a zone limitrofe della provincia; questo, probabilmente, è dovuto alla stretta tutela tedesca sulla maggior parte degli stabilimenti, anche perché è forse più facile garantire l’arrivo di lana e affini che ferro o carbone.

 

La 2ª si basa sul trasferimento di manodopera in Germania, con un costo iniziale e con il pericolo di più frequenti bombardamenti, nonché con la possibilità di creare contrasti scomodi con Salò, ma con rese produttive maggiori, data la schiavizzazione del lavoro. Per Schio prevale nettamente la prima concezione, anche perché, secondo il volere di Speer, ministro degli Armamenti del 3° Reich, le fabbriche protette non devono essere toccate: solo in autunno vi saranno invii coatti di scledensi in Germania. Senza considerare che la prospettiva di cattura forzata potrebbe spingere gli operai ad unirsi con i "ribelli" in montagna, danneggiando doppiamene i tedeschi. Molto deludente risulta perciò il reclutamento forzato della manodopera, a Schio come nel resto dell’Italia occupata. 

 

Il clima è ulteriormente appesantito dalle reazioni alle ordinanze dei tedeschi. Questi rifiutano l’accettazione di ogni tipo di costo legato all’occupazione, dai danni causati durante le operazioni militari alle spese per affitti vari, queste ultime regolate minuziosamente da lunghe circolari della Prefettura, ma sempre con l’identico risultato: paga lo Stato italiano, e in diversi casi i singoli Comuni.

 

Il Commissario prefettizio comincia timidamente a sollevare obiezioni, anche perché le disposizioni ministeriali, già di per sé sfavorevoli alle amministrazioni locali, in diversi punti, nella pratica, non vengono seguite. Ad esempio gli ufficiali tedeschi pretendono arredamenti confortevoli o lussuosi e servizi non inclusi nelle disposizioni, oppure usano la corrente elettrica senza la parsimonia richiesta. 

 

Il malessere della popolazione è acuito anche dall’ostilità verso la leva: molti scledensi temono espressamente che le truppe finiscano in Russia. L’avversione alla RSI serpeggia all’interno delle stesse Forze Armate. I Notiziari della Guardia Nazionale Repubblicana, solitamente poco propensi a presentare situazioni abbellite o verità diplomatiche, registrano un episodio dai contenuti drammatici per le autorità: un gruppo di reclute percorre le vie della città cantando Bandiera Rossa, l’inno proletario più odiato dal Fascismo. 

 

L’intera fase, dalla fine del 1943 alla primavera del 1944, ma anche oltre, è infine caratterizzata dall’eterna questione della costruzione dei rifugi antiaerei, richiesti a gran voce dalla popolazione: il Commissario prefettizio tenta ogni cosa per ottenere esplosivi, ferro, cemento, indispensabili per il proseguimento dei lavori, che restano invece bloccati a metà.

 

Non solo hanno poco peso le autorità locali, ma anche quelle provinciali e nazionali: il Gruppo Operativo "Italien" dell’Organizzazione Todt, con sede a Seveso (MI), nega ripetutamente i rifornimenti, e così pure fanno gli uffici competenti di Verona e Vicenza, in un gioco di scarica barile che lascia demoralizzati e impotenti.

 

Lo smacco è particolarmente bruciante per il Comune di Schio, vista e considerata la presenza in città di un efficiente cementificio, che produce giornalmente 2.000 quintali di materiale: giusto la quantità richiesta, per decine di volte, dal Commissario prefettizio. Ma è tutto inutile: i tedeschi si accaparrano l’intera produzione, riservata alla costruzione di fortificazioni.

 

Il Commissario Vescovi tenta anche per vie traverse, rivolgendosi al Lanificio Rossi, il quale, in qualità di industria protetta, riesce ad ottenere discreti quantitativi di cemento. La dirigenza della fabbrica, però, nonostante le promesse di restituzione, si rifiuta di prestarne al Comune la pur minima quantità, sia perché i tedeschi dovrebbero esserne informati, sia perché gli stessi tedeschi potrebbero interrompere bruscamente e fino al termine del conflitto i rifornimenti. In questo modo, pur venendo confermata una generica ma consueta "soggezione" dell’Amministrazione rispetto alla grande industria, risulta però infranta una solida tradizione di paternalismo industriale, diffusa in città fin dai tempi di Alessandro Rossi. Di conseguenza la popolazione civile rimane sacrificata: solamente dopo molti mesi, e in modo del tutto parziale, uno dei due ricoveri antiaerei della città verrà reso agibile. 

 

4.1 Lo scontro armato

 

Da marzo-aprile le formazioni partigiane, che si sono sviluppate su base operaia e agricolo-montana, favorite da un territorio montuoso e collinare circondante da tre lati la città, iniziano una prima seria offensiva. Si verificano aggressioni a fascisti, recupero di materiale aviolanciato, prelievi di generi alimentari. I prelievi indispongono la popolazione, data la già drammatica situazione alimentare, aggravata oltretutto dagli imboscamenti da parte contadina. La GNR è la prima a reagire, talvolta con esiti poco soddisfacenti.

 

Intanto Salò tenta l’ultima carta per gli arruolamenti, il Decreto del 18 aprile, che lascia trenta giorni di tempo per la presentazione dei coscritti e promette il perdono per i renitenti. Per chi non si presenterà il castigo prospettato è tremendo. Per un mese intero la propaganda è martellante. Vengono usati addirittura gli aerei per lanciare volantini sulle colline attorno alla città, ma i risultati sono ancora deludenti.

 

Anche i tedeschi, come era prevedibile, alla fine reagiscono contro le bande: il 30 aprile 1944 scatta il primo serio rastrellamento, nella zona del Tretto. Le prime violenze vanno però attribuite ad italiani in divisa tedesca. Il 18 maggio, giorno dell’Ascensione, è la volta della seconda operazione, con identiche negative conseguenze per la popolazione delle contrade. 

 

Per fronteggiare una minaccia che è molto sentita tutto il dispositivo anti-partigiano viene notevolmente rinforzato, tanto è vero che in città viene inviata una compagnia della GNR del Btg. "Firenze", che si aggiunge alla già esistente 2ª Compagnia ausiliaria, e forti contingenti tedeschi, nonché il "263° Battaglione dell’Est" (poi Russo), formato da europei orientali, soprattutto ucraini, arruolati nella Wehrmacht e specializzati in repressione. Tali truppe, che saranno la punta di diamante di ogni rastrellamento, si dimostrano particolarmente agguerrite e feroci.

 

Il fatto che siano state sottratte ad un’area operativa ad alta densità partigiana, quella piemontese, la dice lunga sulla preoccupazione tedesca per la minaccia portata dalle formazioni locali. Schio risente immediatamente di questi nuovi arrivi, integrati da massicci afflussi di profughi, per un totale di oltre 3.000 forestieri. L’occupante requisisce a tutto spiano, gli ordini sono perentori, Vescovi è continuamente sollecitato a fornire nuovi alloggi e relativa mobilia. Per farlo è costretto ad intimare lo sgombero alle famiglie "prescelte", talvolta concedendo appena poche ore. È da notare che le scelte tedesche sono cadute, per la maggior parte, su abitazioni signorili o comunque di persone benestanti. Ancora una volta l’autorità italiana è decisamente impotente a frenare simili pretese. 

 

In giugno la situazione esplode

 

I partigiani, favoriti dalla bella stagione e galvanizzati dalle notizie che arrivano dai vari fronti, si mobilitano: attaccano caserme della GNR, presidi dell’Organizzazione Todt, automobili in circolazione, case di fascisti, centrali idroelettriche, fabbriche; eseguono quotidiani prelievi e sabotaggi, e per due volte irrompono nell’Ospedale locale, eliminando i ricoverati fascisti feriti in scontri precedenti. Uno degli attacchi alle caserme si conclude in modo tragicomico per i militi della Guardia: i partigiani li mandano a sfilare per la città in mutande, suscitando l’ilarità della gente e la rabbia delle autorità, poco propense a farsi schernire pubblicamente. 

 

I tedeschi, da parte loro, hanno costituito in tutta la provincia un sistema di risposta ad hoc, basato su apposite Alarmeinheiten (Unità d’Allarme) e Jagdkommandos (Commando di Caccia). Schio risulta inserita nel settore di Sicurezza Vicenza-Nord, giurisdizione del capitano Buschmeyer, comandante del Battaglione Russo. Una risposta, perciò, non tarda ad arrivare, con un durissimo rastrellamento, a metà giugno, che interessa la zona di Valli del Pasubio, limitrofa a Schio, e vede i partigiani sconfitti e costretti ad una laboriosa riorganizzazione per ripristinare effettivi, armamenti, basi e appoggio della popolazione, terrorizzata dai tedeschi. Non sono mancati, infatti, episodi di estrema ferocia e di tortura. 

 

Si scopre anche un coraggioso coinvolgimento del clero: suor Luisa Arlotti, direttrice dell’Asilo Rossi, presta aiuto ai feriti partigiani sotto la direzione della Lanerossi. Riesce a cavarsela per il rotto della cuffia, depistando le indagini della polizia fascista e tedesca. Va molto peggio a don Pietro Franchetti, parroco di San Rocco di Tretto, che viene ucciso a pugnalate da due militi della GNR, col tentativo di scaricare la colpa sul movimento partigiano e screditarlo agli occhi della popolazione, molto devota, soprattutto nelle zone collinari circondanti l’abitato. Il tentativo comunque fallisce: i colpevoli sono subito riconosciuti (verranno processati nel dopoguerra), e la stampa deve arrampicarsi sugli specchi per sostenere la montatura. Ancora una volta le autorità d’occupazione, attente a tutto ciò che ha attinenza con il clero, riferiscono in Germania della vicenda. 

 

Il mese successivo le formazioni partigiane riprendono l’offensiva, a carattere più limitato rispetto a giugno. Gli attacchi diretti vengono parzialmente ridotti, si punta maggiormente su operazioni di rifornimento: si segnala, ad esempio, un notevole prelievo di tessuto dagli stabilimenti della Lanerossi del confinante paese di Torrebelvicino. L’occupante va su tutte le furie, non tollerando azioni che incidano sulla resa produttiva della città: fioccano le accuse di tradimento rivolte all’alleato fascista.

 

Nonostante le formazioni resistenziali abbiano ridotto intensità e portata delle loro azioni, la GNR va in crisi: salta la rete dei presidi, il che permette ai partigiani di espandere il loro controllo su ampie porzioni di territorio. Esemplare è il caso dell’attacco alla caserma di Tonezza, presidiata da due compagnie della Guardia, che dopo un attacco partigiano lasciano il posto, favorendo in tal modo la creazione di una sorta di zona libera in Val Posina, a pochi chilometri dalla città. 

 

Il collasso della Guardia ha come conseguenza l’ascesa delle Brigate Nere di Pavolini, l’esercito di Partito da poco formatosi, che molto presto fa parlare di sé. A Schio s’installa un reparto della 22ª Brigata Nera Antonio Faggion, che ha sede principale a Vicenza.

 

Le autorità d’occupazione, da parte loro, emanano una serie di norme, ad uso interno e per la popolazione, allo scopo di riorganizzare la difesa antipartigiana: ammoniscono i soldati ad evitare contatti con la popolazione, predispongono il miglioramento delle opere di difesa, irrigidiscono le misure di sicurezza riguardo alle conversazioni telefoniche, rafforzano il controllo delle sentinelle e delle postazioni, regolano il suono delle campane, per evitare segnalazioni ai ribelli, e lo svolgersi della circolazione in zone ad alta presenza partigiana; impongono infine alla popolazione la sorveglianza di linee elettriche, considerando i cittadini direttamente responsabili in caso di sabotaggio.

 

Le precauzioni non impediscono, alla fine del mese di luglio, che un grosso reparto della Wehrmacht, probabilmente appartenente al Corpo di Sicurezza Trentino, subisca perdite sul monte Pasubio, teatro di sanguinose battaglie nella guerra precedente, ad opera dei partigiani. Il 7 agosto, invece, la Standortkommandantur fa bruciare la frazione di Poleo quale rappresaglia per la sparizione di un soldato russo, e, il 16 successivo, brucia parte dell’abitato di Torrebelvicino per il ferimento di un poliziotto tedesco. 

 

La ripresa dell’attività partigiana, con nuovo epicentro nella zona della Val Posina, minaccia vie di comunicazione fondamentali per la Wehrmacht, vale a dire l’Alta Val Leogra e la Valdastico, inducendo l’occupante a scatenare il massiccio rastrellamento del 12-14 agosto 1944, eseguito con forze preponderanti e sbandando le formazioni partigiane che tentano talvolta estrema resistenza. Per l’Alto Vicentino si apre in questo modo il ciclo dei grandi rastrellamenti, proseguito nel mese successivo con le vaste azioni presso Granezza sull’Altopiano di Asiago (6-8 settembre), nella Val Chiampo-Valle dell’Agno (12-16 settembre) e sul massiccio del Grappa (20-26 settembre).

 

Lo sganciamento partigiano al rastrellamento di Posina, però, permette di limitare le perdite a una trentina di uomini perché affrontato con una tattica adeguata, di "filtrazione" tra le maglie dell’aggressore, al contrario degli altri tre. 

 

Alla fine, comunque, l’occupante raggiunge una posizione di forza non indifferente, tanto che il Comando di Piazza di Vicenza ordina tassativamente alla Standortkommandantur scledense di non accettare alcuna trattativa con i ribelli, ma di continuare nell’offensiva allo scopo di alienare loro ulteriormente l’appoggio della gente, ormai esasperata.

 

Nella situazione creatasi ha buon gioco la Legione d’assalto "Tagliamento" della GNR, stanziatasi in zona, che si rende protagonista di violenze, maltrattamenti e atti vessatori di ogni tipo. La popolazione ne soffre moltissimo, soprattutto quella del paese di San Vito di Leguzzano. 

 

Tutto il secondo periodo estivo è inoltre caratterizzato da un surriscaldamento dell’atmosfera cittadina. Fascisti e tedeschi hanno approntato una lista contenente i nomi di decine di sospetti, soprattutto appartenenti alla classe media, sia dell’alta che della bassa borghesia, accusati di rapporti con i ribelli. Scatta improvvisamente un’ondata di arresti a sfavore dell’intera dirigenza della Lanerossi, ma sono diversi gli industriali coinvolti in rapporti di finanziamento. Infatti la presenza di tante industrie in città significa, per le formazioni resistenziali, la possibilità di attingere ad un bacino contributivo non indifferente. Alcuni industriali, inoltre, concedono occasionalmente i loro stabilimenti come rifugi, depositi di armi e materiali, ricoveri per i feriti. 

 

4.2 Il Commissario prefettizio Giulio Vescovi

 

In città si respira un’aria sempre più pesante: la maggior parte della popolazione è ostile al Regime e al consistente numero di fascisti sfollati con la famiglia dall’Italia centrale. Contemporaneamente aumentano le difficoltà per l’amministrazione fascista: arriva una nuova massiccia ondata di profughi, mentre i tedeschi ordinano continue requisizioni. Si aggrava anche la situazione alimentare: mancano gli automezzi per garantire l’approvvigionamento ai cittadini, e le autorità sono costrette a procedere a numerose precettazione di carrettieri. 

 

Il 17 settembre 1944 il Commissario prefettizio Giulio Vescovi, dopo un anno di attività amministrativa condotta quasi "in punta di piedi", si risolve a convocare, in una riunione pubblica presso un cinema cittadino, tutti gli scledensi più rappresentativi, e si lascia andare ad una filippica senza mezzi termini, successivamente persino trascritta e divulgata, contro la cittadinanza e i suoi mille piccoli o grandi egoismi: nessuno viene risparmiato. È un momento cardine della storia di Schio nel periodo fascista repubblicano: la massima autorità amministrativa cittadina scende direttamente in campo, affrontando anche coraggiosamente la trattazione di temi delicati. 

 

Giulio Vescovi è una persona che fino ad ora è apparsa equilibrata, rispettosa della legalità e onesta; un amministratore di fede fascista, chiaramente, ma anche un uomo che ha a cuore le sorti dei propri concittadini: ha istituito a loro vantaggio la Cooperativa Scledense, uno spaccio interaziendale per gli operai e gli impiegati, famiglie comprese, delle industrie cittadine; si è impegnato, seppur vanamente, per i rifugi dove proteggersi dai bombardamenti, e per sufficienti razioni e legna. Un fascista, ma senza estremismi o fanatismi che sembrano essere sempre più diffusi in una Repubblica Sociale Italiana che sta entrando in agonia. Insomma, Vescovi appartiene alla schiera dei cosiddetti "normalizzatori", poco riconosciuta ma in realtà diffusa in campo repubblicano. Una tendenza che si contrappone ai "puri", agli integralisti di partito nostalgici delle origini e dello squadrismo. 

 

La durissima requisitoria dell’amministratore fascista tocca diversi temi. Si comincia con un’analisi della situazione alimentare, pesantemente critica. Ma per il Commissario prefettizio buona parte di ciò dipende dai cittadini, responsabili della frantumazione della solidarietà sociale: ci sarebbe chi sottrae i prodotti all’ammasso, chi imbosca materiali utili alla produzione di guerra, chi rifiuta ogni pur minimo aiuto ai profughi.

 

Il Commissario prefettizio, da militare qual è, non usa mezzi termini, non è capace e non vuole essere diplomatico nel mettere alla sbarra "l’egoismo" di cui dice imbevuto il tessuto sociale cittadino. Quasi tutti, fascisti compresi, sono da lui chiamati a rendere conto di gretti comportamenti: i contadini, gli affaristi, gli speculatori, gli operai che denunciano imboscamenti quando sono essi stessi colpevoli, la gente che mette in opera tutti i trucchi possibili per evitare lavori alle fortificazioni o sorveglianze alle linee ferroviarie. 

 

Il normalizzatore Giulio Vescovi, accalorato nel descrivere le tare della società che dirige, non capisce ingenuamente che la situazione generale costringe la gente a mettere in pratica dei meccanismi di difesa che non sempre si possono definire egoistici. Chi ha poco, chi ha fame, e magari diversi figli cui dover garantire un’alimentazione sufficiente, talvolta trova salvezza solamente nell’imboscare del cibo, e comunque alimentando un mercato nero endemico, la cui esistenza non può certo essere imputata ai singoli cittadini.

 

Analogo ragionamento si può fare per le requisizioni: è impossibile che la gente non batta ciglio di fronte a prelievi continui, talvolta vere razzie, che è costretta a subire: c’è chi deve cedere abitazioni e mobili, magari alle famiglie dei fascisti provenienti dall’Italia centrale, per i quali emerge un astio sordo ma pesante, non sapendo se riceverà un affitto e se avrà indietro le proprie cose; chi ha consegnato radio e fucili da caccia; chi si vede sottratta la bicicletta, magari unico mezzo di trasporto per andare a lavorare, chi il carretto, forse l’unico mezzo per lavorare.

 

Pure chi possiede un’attività non può accettare di buon grado che le merci, le scorte alimentari o le bestie di sua proprietà da un giorno all’altro gli siano requisite. Peggio ancora quando sono le persone stesse ad essere sequestrate, soprattutto per essere mandate in Germania, a lavorare in condizioni proibitive, o precettate per i lavori di costruzione alla Todt. Per non parlare della guardia coatta a linee elettriche e ferroviarie: non solo la persona deve abbandonare la sua attività, magari l’unico sostentamento per la famiglia, ma rischia di subire pesanti ritorsioni se i partigiani, nonostante il suo servizio, operano danneggiamenti o sabotaggi. 

 

Vescovi fa capire di aver tentato di venire incontro alla cittadinanza, di essersi posto come mediatore. Assicura che in tutte le disposizioni ha eseguito ordini provenienti da Vicenza, e invita gli interessati a controllare, se desiderano; ma forse gli sfugge, o non vuole vedere, che la gente ha bisogno di pace, di lavorare e mangiare, e che l’occupazione tedesca, intrecciata con un’amministrazione fascista succube dei suoi voleri, ha peggiorato enormemente le condizioni di vita.

 

Ovviamente il Commissario prefettizio è anche obbligato a tenere un certo tipo di atteggiamento, dovendo rappresentare lo Stato; ma appunto è uno Stato che dispone solo nominalmente di autorità, essendo le leve del potere totalmente in mano all’occupante. La legalità che Vescovi cerca di difendere si risolve, nella quasi totalità dei casi, nella difesa della legge tedesca, che si compendia nell’assioma "togliere al cittadino per dare all’occupante". 

 

Il Commissario prefettizio introduce anche lo scottante tema della renitenza, delle diserzioni e delle rappresaglie, affermando che in città, fino ad allora, è riuscito a limitarle, ma non pensa di riuscirci ancora. Qui il discorso si addentra in un campo minato: nella sua ottica di normalizzatore vorrebbe mettere tutti d’accordo, vorrebbe che ognuno si comportasse responsabilmente, ma non si rende conto che la collettività è lacerata da conflitti insanabili, che un abisso incolmabile divide le parti, che la violenza è entrata nella quotidianità di troppa gente quale unica mortale "medicina" per estirpare l’avversario. Non vuole o non può farlo, perché pressato da fascisti fanatici e dai tedeschi.

 

Non mancano sue critiche all’omertà dei cittadini; ma il fatto che ognuno preferisca badare ai fatti suoi è del tutto naturale in un contesto come quello dell’occupazione, dove basta una mezza parola per rischiare la vita, dove la paura è il pane quotidiano, dove la gente comune troppe volte si trova semplicemente nel mezzo, presa tra due fuochi. Anche le esortazioni a rientrare nelle case, rivolte a chi non ha nulla da temere, cadono nel vuoto: non basta avere la coscienza a posto per non rischiare la fucilazione, o magari sevizie e botte; talvolta è sufficiente essere sorpresi per strada o al lavoro nei campi da soldati che credono o vogliono vedere un ribelle in ogni uomo che non porti una divisa. 

 

Infine, ancora con un po’ d’ingenuità, Vescovi blandisce la città, e, quasi volendo attenuare il peso della sfuriata precedente, afferma che la gente di Schio è pacifica, onesta e lavoratrice, incapace dell’assassinio politico, delle vendette di sangue, del terrorismo: tutti i feroci episodi verificatisi non possono che essere opera di estranei infiltrati nella comunità. Forse Vescovi può parzialmente pensare che sia davvero così, ma è più probabile che tenti di stimolare quella zona grigia di cittadinanza, gli indecisi, gli indifferenti, o gli amanti del quieto vivere, a fare un passo in più verso le istituzioni, a scrollarsi di dosso l’apatia e la comoda attesa della fine di tutto. 

 

5. Il lungo inverno

 

Dopo la conclusione del ciclo di operazioni estive, per qualche tempo l’attività militare conosce una certa stasi. Tra settembre e ottobre un discreto numero di lavoratori scledensi è precettato per essere inviato al lavoro in Germania. Nulla può in quest’occasione il Commissario prefettizio, ma lo scontro con le autorità tedesche si sposta su un piano parallelo, poiché un numero ancora maggiore di cittadini è richiamato al lavoro per costruire fortificazioni per la Todt in Val Leogra e Val d’Astico. Una delle precettazioni ha carattere globale, venendo inclusi tutti gli uomini dai 14 ai 60 anni.

 

Vescovi, unico fra i Podestà o i Commissari prefettizi della provincia, nonostante venga minacciato con una rivoltella da un ufficiale tedesco, si rifiuta di rendere esecutivo un provvedimento che minerebbe l’ordine sociale e produttivo dell’area cittadina. Le precettazioni coinvolgono in ogni caso un discreto numero di persone, soprattutto giovani: ai tedeschi non sembra vero poterli impiegare al lavoro, anche se sospetti partigiani, sottraendoli così alla guerriglia, e per i giovani stessi la Todt è un rifugio sicuro ed inaspettato con l’avvicinarsi di un inverno rigidissimo, che renderebbe problematico alle formazioni decisamente ingrossatesi sostare in montagna, braccate da un apparato militare sempre più imponente.

 

Non sono infrequenti, addirittura, pesanti contrasti tra l’occupante e certe autorità fasciste, che vorrebbero procedere alla cattura dei molti renitenti confluiti nella Todt. Ma anche i fascisti devono sottostare alle primarie esigenze germaniche. 

 

In città, nel frattempo, giunge la "Wachkompanie Ettore Muti", speciale unità fascista, che si abbandona ad atti vessatori e prepotenti: ne rimane vittima anche il Commissario prefettizio, che sempre più cerca di opporsi a simili comportamenti, rendendosi conto che un ulteriore scollamento tra civili e militari renderebbe la situazione ingovernabile.

 

Il 25 ottobre scoppia uno sciopero improvviso, una reazione alle numerose violenze che diverse giovani scledensi si sono trovate a subire da parte di militi della GNR e delle BN. Quasi tutte le fabbriche cittadine sono coinvolte: i tedeschi, dopo aver fatto la voce minacciosa, anche per l’intervento del Commissario prefettizio arrivano a promettere la fine delle violenze e la punizione dei colpevoli, a patto che il lavoro sia immediatamente ripreso.

 

La situazione, comunque, non migliora: la Legione Tagliamento persevera nelle sue angherie, che coinvolgono il clero e la popolazione di San Vito. In città alcuni soldati, soprattutto russi e militari del "Battaglione Indiano", da poco giunto in città, si abbandonano a furti e saccheggi: ancora una volta Vescovi protesta ufficialmente con la Standortkommandantur.

 

Degna di nota è la presenza delle truppe indiane, prigionieri catturati dai tedeschi in Africa settentrionale e convinti ad accettare l’arruolamento nella Wehrmacht allo scopo di sconfiggere gli inglesi oppressori della propria patria: un chiaro simbolo della mondializzazione del conflitto. A complicare le cose risulta sempre più difficoltosa la gestione degli alloggi. L’abitato è ormai saturo: decine e decine di alberghi, case, ville e fabbricati risultano occupati, le requisizioni di mobilia sono quotidiane, Schio è prossima al collasso.

 

Il Comune appronta delle liste di registrazione, ma solo una parte possono essere pagate; la Prefettura latita, tanto che a cavallo tra il 1944 e il 1945 la situazione diventa insostenibile per le casse comunali. 

 

In novembre riprende l’attività resistenziale, nonostante il Proclama del generale inglese Alexander. I partigiani mettono a segno qualche colpo, tra cui l’eliminazione del capitano Polga della polizia di Vicenza. Il 30 novembre, in una rappresaglia, vengono uccise cinque persone e bruciate le case in contrada Laita; qualche giorno dopo regna il terrore in contrada Chiumenti, mentre contemporaneamente viene effettuato l’ultimo grande rastrellamento, nella zona del monte Piano e di Monte di Malo.

 

Contemporaneamente alla controffensiva sul campo, in città, complice la lista approntata a fine estate dagli organi di polizia fascisti e tedeschi, giungono a conclusione corpose indagini su sostenitori della Resistenza, i cosiddetti "territoriali", appartenenti al Battaglione partigiano "Fratelli Bandiera". Non mancano episodi di tortura, e tredici dei numerosi imprigionati vengono deportati, all’inizio di dicembre, verso Mauthausen.

 

Anche le Brigate Nere, tra le quali si distingue la squadra speciale del vice comandante Ciro Arcori, sono protagoniste di episodi brutali. All’inizio del nuovo anno si registra pure una nuova ondata offensiva contro il clero, durante la quale viene imprigionata suor Arlotti. Quando cominciano a girare voci su violenze commesse da truppe tedesche e russe durante i rastrellamenti, verso febbraio del 1945, le autorità minimizzano, e la possibilità di presentare denuncie efficaci rimane una chimera e presenta molti pericoli. 

 

A partire da gennaio del 1945 gli alleati intensificano improvvisamente l’offensiva aerea. Vi sono i primi mitragliamenti e quindi i bombardamenti. La gente è impaurita, chiede a gran voce il completamento dei rifugi, ma manca l’esplosivo per creare in roccia le cavità. Fino ad allora, sorprendentemente, non sono mai avvenuti bombardamenti aerei su questo centro industriale.

 

Ma il 14 febbraio una pesante incursione sulla Lanerossi provoca undici morti e sessantotto feriti. Scoppiano le polemiche: metà dei dipendenti comunali non si è presentata al proprio posto di lavoro, aggravando la situazione; il Posto di Soccorso n° 4 non ha funzionato a dovere per negligenza dei medici, e in conseguenza di ciò si è alzato il tributo di sangue che la città ha dovuto pagare; i partigiani sono irritati con gli alleati per non aver ordinato un sabotaggio, molto più sicuro per la popolazione.

 

Vescovi tenta di rigiocare qualche carta per i rifugi, ma inutilmente; emana quindi nuove ordinanze, ma si trova alle prese con conflitti interni al Comitato e alla Squadra di protezione antiaerea. I tedeschi, da parte loro, dotano di cannoni e mitragliere lo stabilimento dell’ILMA, quindi dispongono l’approntamento di sistemi di difesa antiaerea sulle principali strade provinciali, nonché di ostacoli anticarro, in previsione di un prossimo arretramento del fronte: la guerra, per loro, sta volgendo decisamente al peggio. 

 

6. La fine

 

Da marzo in avanti cominciano a notarsi le prime crepe nel morale delle truppe tedesche: qualche discorso disfattista, qualche defezione, e in alcuni casi ci va di mezzo anche la popolazione. Rimangono certi fanatici, sia tra i tedeschi che tra i fascisti, convinti di un prodigioso ribaltamento tramite le favoleggiate armi segrete, ma sono ormai una minoranza.

 

La popolazione di Schio è esasperata perché la Standortkommandantur ha deciso di utilizzare le gallerie di uno dei rifugi in costruzione come deposito esplosivi: Vescovi, per quanto si adoperi, nulla può. A loro volta gli operai della Lanerossi sono agitati per dei mancati pagamenti. Pure in questo caso il Commissario prefettizio tenta una mediazione, facendo intervenire la Prefettura.

 

A metà aprile, su insistenza dei consigli aziendali, Vescovi è nominato dal Governo Commissario Straordinario per la Socializzazione presso la stessa Lanerossi: è un riconoscimento direttamente tributatogli dagli operai. Nello stesso periodo, inoltre, un certo numero di ex internati e lavoratori rientra dalla Germania in condizioni pietose. Per loro il Commissario prefettizio ordina l’approntamento di strutture d’accoglienza. Ormai, comunque, si è alla fine. Si registrano gli ultimi pattugliamenti delle forze tedesche e fasciste e le ultime violenze e torture. 

 

Il 9 aprile scatta l’offensiva finale alleata, e anche i partigiani passano all’attacco: nella "notte dei fuochi" vengono distrutti diversi ponti, e uno a uno sono eliminati i presidi collinari della Todt, per bloccare il traffico tedesco e permettere il controllo della fascia pedemontana.

 

Si scontrano strategie inconciliabili: gli alleati hanno ordinato di bloccare le vie di fuga, anche se i partigiani non vorrebbero costringere i tedeschi a sostare nelle loro zone; le truppe in ritirata, invece, hanno un solo desiderio: fuggire il più velocemente possibile verso nord. La ritirata è un qualcosa che colpisce i cittadini, per il caos, il disordine: gli uomini della Wehrmacht sono sconfitti, alcuni hanno paura, altri vogliono procurarsi a tutti i costi un qualunque mezzo di trasporto per scappare. Si moltiplicano perciò i furti. 

 

Il 26 aprile hanno luogo i primi tentativi di trattativa, ma il comandante tedesco rifiuta l’ambasciata dei partigiani portatagli dall’arciprete, monsignor Tagliaferro. Tra tanti reparti in transito si ferma stabilmente la 1ª Divisione Paracadutisti: truppe agguerrite, assai temibili e per nulla abbattute, per quanto ad effettivi ridotti in seguito alle violente battaglie sostenute durante la ritirata dal Po.

 

I fascisti invece latitano, si nascondono o cominciano a fuggire: eccetto il Commissario prefettizio, non entrano mai nei patteggiamenti. Emerge chiaramente come sia impossibile un accordo tra italiani: troppo inconciliabili sono le posizioni tra le due parti. Mentre si sviluppano le prime scaramucce, e gli aerei alleati attaccano le colonne in transito, nelle fila delle formazioni partigiane garibaldine che controllano la zona nasce un aspro conflitto che vede contrapposti il comando della Divisione "Garemi", deciso ad un attacco risolutore, e il comando della Brigata"Martiri della Val Leogra": quest’ultimo, che pure è parte integrante della divisione ed è ad essa sottoposto, assume con determinazione un atteggiamento più prudente.

 

Ancora una volta, come in altre zone d’Italia, si ripropone l’alternativa tra"attivismo" e "attesismo". Alla fine prevale la seconda opzione, così l’attacco è spostato al 29 aprile, in considerazione della preponderanza delle forze tedesche. Ciò consente di evitare una strage e di salvare gli impianti industriali: infatti un reparto tedesco di guastatori era pronto all’opera di distruzione.

 

Conta molto anche l’impegno di Vescovi, che favorisce l’avvio di nuove trattative e la convocazione in Municipio, il 29 aprile, di alcuni membri del CLN. A mezzogiorno, mentre proseguono gli abboccamenti, scatta l’attacco. Gli scontri sono cruenti: alla fine i tedeschi hanno una quindicina di morti e una trentina di feriti intrasportabili, i partigiani una ventina di caduti. A metà pomeriggio due rappresentanti partigiani s’incontrano con i comandanti tedeschi: c’è la volontà di raggiungere un accordo, anche da parte degli ufficiali della 1ª Divisione Paracadutisti, che ormai ha assolto il compito di tenere aperta la strada di Schio. L’accordo viene firmato alle 16,50: i tedeschi, compresi i prigionieri, ottengono libero transito in direzione del Trentino, impegnandosi a non compiere alcun tipo di danneggiamento all’apparato produttivo scledense.

 

Una conclusione analoga a quella che si ha, contemporaneamente, nel Veneziano. Qui, se i fascisti si arrendono al CLN già nella mattinata del 28, i tedeschi, che hanno predisposto un ampio seppur disorganizzato piano di sabotaggio del porto e delle aree industriali, soprattutto Marghera, giungono alla stipulazione di un protocollo che pone condizioni reciproche per un allontanamento dalla città. Lo scambio tra la salvezza delle fabbriche ed il libero allontanamento delle truppe occupanti accomuna dunque i due maggiori poli industriali del Veneto. 

 

Verso sera Schio è definitivamente libera, anche se la situazione permane tesa per l’arrivo del Btg. "Fulmine" della X Mas. I marò, irriducibili, intendono arrendersi solo agli americani. Nell’impulso insurrezionale, incontrollabile, vi sono una dozzina di uccisioni sommarie accertate, che vanno a colpire fascisti non riusciti a fuggire. Altri, compreso il Commissario prefettizio, vengono rinchiusi in carcere; qualcuno anche per motivi futili o per vendette personali. Cinquantaquattro degli oltre ottanta detenuti trovano la morte nella notte del 7 luglio, quando un commando partigiano assalta il carcere: una strage controversa, compiuta per vendetta contro qualche fascista e per violenta rivalsa dalle sofferenze patite in venti mesi durissimi. 

 

7. Il ruolo delle fabbriche

 

Solo con l’eccidio del 7 luglio termina realmente un’epoca difficile per la città e un’esperienza, quella dell’occupazione, che non ha precedenti storici nella provincia di Vicenza. Al di là della globale tragicità degli eventi e di uno scontro armato feroce e senza tregua, alimentato dall’imperversare di reparti militari e di polizia di ogni tipo, a Schio lo svolgersi delle vicende nel periodo dell’occupazione fu decisamente influenzato da una condizione strutturale, cioè il carattere industriale della città. 

 

Numerosi sono gli aspetti della connotazione produttiva di Schio che hanno un rilievo nelle vicende. La prima presa di posizione riguardo all’invasione tedesca vede protagonisti gli operai, che abbandonano le fabbriche e si riversano per le strade, assieme ai cittadini, per cercare di fermare la deportazione dei soldati italiani in Germania: i militari tedeschi sono costretti a sparare in aria per disperdere la folla.

 

L’occupante, da parte sua, punta subito al controllo dell’apparato produttivo: fin dai primi giorni si moltiplicano gli appelli e le minacce per una regolare ripresa del lavoro, e immediatamente prendono il via il censimento e lo sfruttamento industriale. L’ambiente operaio rimane in fermento per tutto il periodo, moltiplicandosi le agitazioni. Spiccano nel corso del 1944 gli scioperi di marzo e quello di ottobre, che evidenziano sia la compattezza delle maestranze sia la priorità tedesca per il mantenimento della produzione e dell’ordine. 

 

Il bacino industriale scledense fornisce inoltre un decisivo contributo alla nascita e alla crescita delle formazioni partigiane: c’è infatti un’origine operaia in gran parte dei quadri della Resistenza e dei fiancheggiatori, compresi gli abitanti delle contrade. Ogni famiglia nella fascia pedemontana, infatti, ha almeno un componente lavoratore nelle fabbriche. Proprio per questo motivo i partigiani prestano molta attenzione all’entità dei danneggiamenti nei sabotaggi, allo scopo di preservare il più possibile gli apparati produttivi per la ricostruzione del dopoguerra. Le stesse dirigenze industriali sono coinvolte in rapporti di finanziamento alla Resistenza.

 

Rapporti in parte spontanei, in parte indotti da considerazioni pragmatiche, nella convinzione che in un prossimo futuro "altri" comanderanno e bisognerà inoltre evitare accuse di collaborazionismo. In parte, infine, determinati da pressioni e minacce più o meno velate da parte partigiana. Sono molti i dirigenti delle fabbriche indagati e perfino arrestati da parte della polizia tedesca e fascista. 

 

L’industria mantiene un ruolo chiave nella vita cittadina. Anche in negativo, nella questione del cemento e dei rifugi antiaerei, essendo decisamente coinvolti il locale cementificio e la Lanerossi. Inoltre le fabbriche costituiscono un allettante bersaglio per i bombardamenti alleati, rendendo la situazione assai pericolosa, soprattutto nei primi mesi del 1945, quando ormai il fronte, in prossimità degli Appennini, è molto vicino. Senza contare la fondamentale valenza dell’apparato produttivo al momento delle battute finali, quando tutti gli eventi gravitano attorno alla salvezza degli impianti industriali, un obiettivo che a Schio univa tutti, dai partigiani ai fiancheggiatori e sostenitori della Resistenza, dalla gente comune alla classe dirigente, in gran parte fascista. È stato calcolato che l’apparato produttivo scledense, all’epoca, valesse la straordinaria cifra di 80 miliardi. Un obiettivo di enorme valore, che viene così scambiato con l’immunità per le truppe tedesche in ritirata. Andamento del tutto simile a quanto avvenuto in contemporanea nel Veneziano. 

 

8. I "normalizzatori" al potere

 

Un secondo elemento, congiunturale, merita di essere segnalato, vale a dire la presenza a Schio di Giulio Vescovi, un amministratore in grado di mantenersi al suo scomodo posto nonostante le estreme difficoltà date dalla situazione e dai categorici ordini tedeschi, rappresentante di uno Stato assente e di un Fascismo sradicato, a cui mancavano anche tradizionali puntelli come la Chiesa e la borghesia, con i quali, infatti, si moltiplicarono gli attriti. 

 

Il contesto di sudditanza in cui dovettero operare le autorità fasciste repubblicane, subordinate in tutto e per tutto all’alleato-padrone, emerge chiaramente da ogni pagina di questa storia. Acquista quindi ulteriore rilievo la figura di un personaggio come Vescovi, un "normalizzatore": tipica categoria di amministratori fascisti tradizionalmente contrapposti ai "puri", i fanatici nostalgici del primo Fascismo.

 

Uomini, quelli come Vescovi, di concezioni moderate, occasionalmente alla ricerca di un dialogo con gli antagonisti. Hanno vissuto quel servizio straordinario allo Stato come un’adesione etica. Scrive Luigi Ganapini: «La Repubblica sociale non è fatta solo di combattenti votati alla morte e alla ricerca del campo dell’onore [ ] Un altro mondo contende loro il proscenio.

 

È la repubblica dei patrioti di buon senso, dei cauti difensori del buon nome italiano, degli apostoli della funzione pacificatrice e nazionale del fascismo, che vivono su un ambiguo confine tra l’adesione convinta e l’accettazione del male minore, quasi potesse esistere una stretta contiguità tra il fanatismo e l’opportunismo. [ ] È un’area sociale e culturale non facilmente definibile, in cui allignano motivazioni contraddittorie; ma questo non significa che sia possibile cogliere in quell’atmosfera incerta qualche segnale tutt’altro che dubbio, identificare presenze qualificanti, sciogliere - sia pur solo in parte - gli interrogativi concernenti la sua collocazione ideale».

 

Giulio Vescovi è di diritto un’esponente qualificante di questo improvvisato ceto politico-amministrativo che cerca di farsi espressione di una "zona grigia". La presenza e l’operato di uomini come lui, nel contesto drammatico di una scelta di campo perdente, sembrerebbe più diffusa di quanto la storiografia, fino ad oggi, ci ha fatto pensare, e meriterebbe perciò un’attenzione marcata e specifica.

 

I fascisti moderati come il Commissario prefettizio scledense si trovarono spesso a tentare di governare delle situazioni nella pratica ingestibili, alle prese con le esigenze e le prepotenze dei tedeschi e con i molteplici bisogni dei civili, da quelli alimentari a quelli riguardanti la sicurezza: significativa, a tal proposito, la vicenda dei rifugi antiaerei mai costruiti.

 

Svolsero quindi il ruolo di cuscinetti tra occupante e popolazione, con il pericolo di non riuscire a soddisfare gli uni gli altri, a cominciare dagli ambienti più fanatici del fascismo repubblicano. Se figure come la sua non sono state forse così rare, senz’altro degno di nota è il fatto che Vescovi restasse in carica per tutto il periodo dell’occupazione, ben diciannove mesi dall’ottobre del 1943 all’aprile del 1945. 

 

Il suo comportamento fu obbligatoriamente oscillatorio. Accanto a prese di posizione, anche nette, verso i tedeschi, spesso Vescovi diede via libera, senza difficoltà, agli appetiti dell’occupante. Allo stesso modo, mentre requisiva per le autorità militari, cercava di venire incontro alle richieste della gente di Schio, attraverso una serie di iniziative che trovano emuli in molti centri urbani dell’Italia settentrionale, Milano compresa. Sono tanti, infatti, gli amministratori che «si fanno promotori di spacci, di provvidenze, di mense comunali che assolvono una funzione essenziale nella miseria del momento».

 

Il discorso del 17 settembre 1944 ebbe un significato basilare nell’esperienza politica del Commissario prefettizio scledense: questo ricercare un dialogo, questo tentativo di cementare una specie di "unione degli onesti" contro i perturbatori della concordia cittadina, invocando i sommi principi del vivere civile e del sentimento d’amor patrio, raggiunge in questo episodio la sua massima espressione, ma non può evitare di caricarsi di scarso realismo. Sono le stesse intenzioni, quasi le stesse parole, usate da Piero Parini, Commissario prefettizio e Capo provincia di Milano, in un discorso radiofonico del 25 gennaio 1944.

 

Parini si rivolgeva ai capi delle aziende industriali e commerciali, agli avvocati, ai medici, agli ingegneri, ai professionisti; Vescovi, che amministrava una città industriale assai più piccola, potè permettersi di invitarli personalmente nella sala di un cinema. Ad entrambe le cittadinanze si chiese di uscire dall’atonia e dall’indifferenza, fisiche e morali, che appesantivano una situazione drammatica. 

 

Non si capisce, in realtà, quanto Giulio Vescovi credesse ancora nel futuro; è difficile, non essendo un fanatico, che nutrisse ancora qualche velleità di vittoria; però non è da escludere che sperasse in un’onorevole sconfitta del Fascismo, magari perniciosa per certi camerati, ma non per quelli come lui, che non avevano mai ucciso nessuno e che tentavano di governare la barca in mezzo ad un mare in tempesta, riuscendo anche, in diversi casi, a salvaguardare la comunità.

 

Ad ogni modo si può dire che la sua lunga requisitoria nel cinema di Schio, pur individuando delle evidenti tare presenti nella società scledense, del tutto simili, comunque, a quelle diffuse in ogni città del Nord-Italia, trascurasse un’analisi più approfondita della loro origine, chiaramente fondata su situazioni contingenti e su un contesto degenerato da tempo, le cui cause, perciò, andavano individuate non in specifiche colpe dei cittadini, tranne qualche caso, ma nei ben più grossi mali provocati dalla guerra, iniziata dal Fascismo, e dalla conseguente occupazione, favorita dalla totale inettitudine dei residui capi, con l’asservimento della Repubblica Sociale ai tedeschi, strada che Salò aveva imboccato, unica praticabile, per poter riemergere come ceto politico e tentare di rilanciare il fascismo italiano nel panorama internazionale.

 

Non è ovviamente pensabile che Vescovi, in parte prigioniero del proprio ruolo e delle proprie scelte, riconoscesse queste cose, altrimenti non si sarebbe compromesso in quel modo, anzi, non sarebbe rimasto per oltre un anno e mezzo Commissario prefettizio, e forse nemmeno un fascista, per quanto moderato. 

 

Rimase radicata fino alla fine, in questi uomini, la convinzione di aver bene operato, l’illusione di poter tranquillamente aspirare a un riconoscimento cavalleresco da parte dell’avversario: come il Commissario prefettizio di Bologna, Mario Agnoli, che si presentò al comunista Dozza per lo scambio di consegne all’indomani dell’insurrezione, Giulio Vescovi, dopo le vicende di fine aprile, ritenne di non dover temere alcuna ritorsione, anche in base a precise garanzie ricevute da membri del CLN. Fu invece arrestato e rimase ferito nelle carceri, la notte dell’eccidio, morendo in circostanze oscure alcuni giorni più tardi.

  

Luca Valente