STORIA VENETA ILLUSTRATA DALLE ORIGINI ALLA FINE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA

 

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ULRICO AVEVA TENTATO DI OCCUPARE GRADO

 

SCONFITTO IL PATRIARCA DI AQUILEIA

 

II Doge Vitale Michieli II è costretto ad accettare la sfida lanciata dal potente patriarca di Aquileia che unitosi ad altri feudatari friulani cerca di togliere Grado a Venezia. Immediata la reazione dei Veneziani che, sconfitto il Patriarca, celebrano il trionfo con una festa che presto diventa tradizione ...

 

 

A seguito della rinuncia al dogato di Domenico Michiel, veniva eletto quale nuovo doge nel 1130 Pietro Polani, genero del suo predecesso­re. In quel medesimo anno e a breve distanza dalla nuova elezione ducale, un’altra elevazione si era realizzata nella lontana Sicilia. Ruggero II d’Altavilla, nipote del Guiscardo, veniva infatti incoronato re del nuovo regno normanno che aveva sostituito la precedente contea.

 

II fatto non mancò di suscitare forti preoccupazio­ni a Venezia che vedeva rafforzarsi ulteriormente la potenza normanna nel mar Mediterraneo. I bazar di Palermo, Catania, Messina e Siracusa diventavano sem­pre più concorrenziali rispetto a Rialto dove, seppur anco­ra impercettibilmente, si stavano facendo sentire le conse­guenze. Le navi veneziane, poi, venivano puntualmente prese di mira dai corsari siciliani tanto che nel 1135 si contavano a Venezia ben 40.000 talenti di perdita.

 

Per il momento, tuttavia, a richiamare l’attenzione del nuovo doge era una questione molto più vicina e carica di signifi­cato. I cittadini di Fano, minacciati dalle vicine Pesaro e Rimini, chiedevano aiuto ai Veneziani che, ben felici, sti­pularono un patto di alleanza con la piccola cittadina, il primo stretto tra Venezia ed un’altra città italiana.

 

Venezia evidentemente, era considerata l’unica vera potenza lungo la costa adriatica alla quale appellarsi in caso di pericolo. La città ne ricavava naturalmente dei vantaggi commerciali ed i Fanesi si impegnavano a paga­re un tributo annuo di mille misure d’olio per l’illumina­zione di S.Marco e di cento per il Palazzo Ducale. La cosa più importante, tuttavia, era che Venezia per la prima volta estendeva la sua influenza al di fuori degli angusti confini lagunari anche su di un suolo italiano.

 

I Fanesi infatti si dichiararono alleati soggetti alla Repubblica. Ma ancor più da vicino il pericolo minacciava Venezia. I Padovani, senza informare il governo veneziano, avevano dato inizio infatti, alla deviazione del fiume Brenta con l’intenzione di abbreviarne il corso fino agli sbocchi nella laguna. Di fronte alla possibilità di ritrovarsi ostruiti i canali per il conseguente accumulo di materiali se la deviazione fosse stata portata a termine, i Veneziani pro­testarono dapprima energicamente per passare infine alle armi contro i Padovani.

 

II conflitto si concluse con la vittoria dei Veneziani e con il pagamento da parte dei Padovani dei danni sino ad allora provocati. Si conclude­va vittoriosamente, così, la prima campagna condotta interamente su terra e forse proprio per questo con l’ausi­lio di truppe mercenarie (Guido Montecchio di Verona guidava infatti la cavalleria contro i Padovani). Era il turno, ora, dei Normanni, ma un crudele destino aveva già deciso per il doge.

 

Nel 1148 questi stava salpando con la sua flotta per unirsi con quella imperiale nella lotta contro re Ruggero di Sicilia quando, non appena oltrepas­sata Caorle, Pietro fu costretto a tornare indietro a causa di una incurabile malattia che da lì a poche settimane lo avrebbe portato alla morte. Il nuovo eletto, Domenico Morosini, proveniva da una ricca famiglia veneziana che già da due secoli si era distinta nella vita economica e commerciale della città. Il dogato del nuovo doge coincise con un periodo eccezionalmente positivo per Venezia.

 

Nel 1149 venne siglata la pace coi Normanni che riconobbero l’influenza di Venezia nell’Adriatico; i rapporti con Bisanzio erano più che ottimi e il nuovo imperatore d’Occidente, Federico, salito al trono nel 1152 aveva già confermato tutti i passati privilegi ai Veneziani. Lo straordinario periodo di pace consenti inoltre, la febbrile ripresa delle attività edilizie in laguna e specialmente a Rialto dove veniva ultimato anche il campanile di S.Marco dopo 250 anni dalla posa della prima pietra.

 

Nel 1156 si concludeva con la morte del doge, un dogato dun­que, estremamente positivo per Venezia il cui orizzonte, tuttavia, come del resto quello dell’intera penisola, andava velocemente oscurandosi. Spetterà al successore Vitale Michiel II, l’arduo compito di destreggiarsi nella mutata scena politica dopo la discesa nella penisola dell’imperato­re Federico I Barbarossa.

 

Inizialmente, tuttavia, il gover­no veneziano risultava impegnato su di un altro fronte molto più vicino e vitale: l’Adriatico. Il re d’Ungheria, infatti, si era nuovamente impossessato di alcune città dalmate mentre più a sud la flotta veneta si scontrava ripetutamente coi pirati anconetani che da tempo osteg­giavano i traffici mercantili delle navi veneziane con il più o meno tacito appoggio dei rivali pisani. Impegnato a sal­vaguardare la supremazia nel mar Adriatico, il doge trovò nel Patriarca di Aquileia Ulrico, un ulteriore moti­vo di preoccupazione.

 

Con l’aiuto dei più potenti feudatari friulani, questi infatti ritentò l’impresa del suo lontano predecessore Peppone, conquistando la città di Grado sede della rivale diocesi e centro spirituale della Venezia lagunare. La risposta del doge non si fece attendere ed in breve tempo riuscì a recuperare la città, catturando lo stesso patriarca ribelle che venne tradotto a Venezia assieme a dodici canonici del suo seguito.

 

Dopo un periodo di prigionia ad Ulrico venne resa la libertà a patto che si impegnasse a pagare ogni anno al governo veneziano un tributo di un toro e di dodici porci. Gli animali dovevano essere spediti a Venezia per il giorno di giovedì Grasso, giorno dell’ ottenuta vittoria. Questa circostanza fu all’ori­gine di una delle feste più singolari di Venezia. Gli anima­li, una volta arrivati in laguna, venivano portati nel gior­no stabilito nella stanza del Piovego a Palazzo Ducale. Qui erano stati in precedenza costruiti dei castelli di legno rappresentanti le fortezze dei feudatari friulani.

 

In questa scenografia veniva pronunciata la sentenza di morte degli animali. Alla categoria dei fabbri, quella che più degli altri si era distinta nella storica circostanza, spettava l’onore di tagliare la testa al toro quando gli animali venivano infine portati, il giovedì grasso, nella piazza maggiore per essere appunto ammazzati alla presenza del doge. Esaurita la mattanza il doge tornava nella sala del Piovego seguito dal popolo e qui abbatteva con una spada tutti i castelli a memoria della raggiunta vittoria, ma anche quale monito futuro per i friulani e per il loro Patriarca.