LA GUERRA DEL 1372-1373 TRA VENEZIA E PADOVA
di Paolo Sambin
(Pubblichiamo questo ampio e bellissimo saggio sulla guerra tra Venezia e l’alleanza ungaro-padovana tratto da “Archivio Veneto” e opera dello storico Paolo Sambin)
1.Introduzione; 2. Villanova e il contrasto fino alla chiusura delle palate (24 febbraio 1372); 3. Missioni diplomatiche e tregua (24 aprile 1372); 4. Compromesso arbitrale (24 aprile – 24 giugno 1372); 5. Il centro dell’attività diplomatica da Venezia a Visigrado; 6. Incertezza di Verona; 7. Venezia e l’Ungheria; 8. Sospensioni del re Ludovico d’Ungheria: insistenze di Francesco da Carrara; 9. Preparativi militari; 10. Lo scoppio delle ostilità; assalto a Valstagna (3 ottobre 1372); 11. L’avvolgimento di Padova dalla “montagna”; 12. Arrivo degli Ungheresi e battaglia del Piave (9 dicembre 1372); 13. Attacchi veneziani sull’Adige e penetrazione alla laguna; conquista della torre del Curame (10 dicembre 1372) e sviluppi della vittoria veneziana; 14. Attività diplomatica tra dicembre 1372 e marzo 1373: a) trattative di pace; b) alleanza ungherese col patriarca d’Aquileia; c) alleanza carrarese e ungherese coi duchi d’Austria; d) l’Ungheria dichiara guerra a Venezia; 15. Difficoltà e provvedimenti veneziani; la vittoria di Padova presso Lova (14 maggio 1373); 16. Un tentativo di pace e le condizioni dei belligeranti; 17. Francesco da Carrara tra sconfitte e congiure; 18. Il trattato di pace (21 settembre 1373); 19. Conclusione
1. INTRODUZIONE.
Causa o pretesto di questa, come di tante altre guerre, una questione di confini. La quale tra Padova e Venezia, come tra altri municipi, non è neppure una questione nuova: si agita, insoluta o temporaneamente aggiustata, da alcuni secoli. E nel variare dei tempi la questione territoriale si colorisce di diverso significato politico.
Pare duro dilemma della signoria carrarese (e neanche questa è nota originale) o la tutela del potente confinante, Venezia, o l’inimicizia: i limiti di quella o i rischi di questa, gravi gli uni e gli altri. Travolta, quando era appena instaurata, dall’irruenza scaligera, la signoria carrarese risorse per l’intervento di Venezia, nella cui orbita rimase, sempre più lentamente, per un ventennio e se ne emancipò quando durante la guerra di Zara preferì, fosse ineluttabilità contingente o calcolata decisione (che la necessità contingente poteva invocare come scusa), alla tutela veneziana quella ungherese: tra due potenti meglio uno lontano, specie se con questo non c’è collisione di interessi. Ma l’ardito mutamento di indirizzo comportava necessariamente, prima o dopo, l’urto con Venezia: il nuovo protettore di Padova, se da una parte contribuiva a dar una certa fermezza alle rivendicazioni carraresi, dall’altra aveva gravemente leso e più ancora minacciava gli interessi veneziani.
Da questa situazione internazionale il ripresentarsi, più frequente e aspro, della questione per confini; e anche il suo significato.
Dal 1358 al 1371, dalla fine della guerra di Zara alla vigilia di questa guerra, ora verso la laguna (Castelcaro e Portonovo: 1360; S.Ilario: 1363) ora verso la montagna (Cesana: 1369) la questione si riaccende e, sempre rinviata la soluzione netta, si sopisce, avvolta in una trama di rivendicazioni, diffidenze e sospetti e anche di preparativi, che per precipitare a conflagrazione aperta attendono solo la propizia occasione. Per le ragioni che diremo Venezia colse nel 1372 l’opportunità attesa. E scoppiò la guerra. La quale segnò un momento decisivo e per la politica veneziana di terraferma, recentemente minacciata dall’occupazione ungherese di Treviso, e per la vita stessa della signoria carrarese. Quali gli esiti e gli sviluppi vedremo.
2. Villanova e il contrasto fino alla chiusura delle palate (24 febbraio 1372)
A nord-est di Oriago larga estensione di terreno era quasi oppressa dalle paludi. Padovana la giurisdizione (almeno secondo le fonti padovane; la proprietà, ch’era del monastero di S.Giovanni Evangelista in Venezia, Francesco da Carrara l’acquista, permutando con il priore del monastero, e a tutto vantaggio di questo, altro terreno in S.Angelo di Liettoli. Regolarizzati i titoli giuridici, il Carrarese compie, in quel delicato controverso settore di confine, lavori tra di bonifica e di fortificazione. In breve la contrada, prosciugata con fosse profonde e ben arginate, è ridotta a terreno fermo, fertilissimo di biade: si edificano case e la gente accorre, perché la terra è ceduta in proprietà a chi vi si trasferisce per abitarvi né alcun dazio grava i prodotti locali, liberamente circolanti a Padova e a Venezia; alcuna tassa colpisce gli abitanti o i lavoratori. Feracità di terreno bonificato, privilegi economici e giuridici, esenzioni tributarie, case: le condizioni per la fondazione di un paese ci sono tutte, tranne una che è capitale: la certezza della sorte politica di questo lembo di terra posto a cavaliere di due signorie tenacemente rivali. Il paese sorge: si chiama Villanova (1371).
Da questo lato le cose tra Padova e Venezia potevano forse correre liscie. Ma gli argini con fitti alberi, specialmente l’argine “su per la Brenta alto e forte” lanciato arditamente dalle palate di Oriago quasi fino alle palate dei Veneziani, potevano insospettire vicini anche non prevenuti. A riparo del paese, ormai grosso e popolato, si asseriva e sosteneva fossero quelle opere, e s’intendeva a riparo dalle acque, ma come, proprio lì, non anche contro o a riparo dai confinanti? Il pacifico argine di bonifica poteva diventare per una facile trasformazione un terrapieno difensivo e offensivo; le cave o fosse, trincee. Venezia giudica le nuove opere un apprestamento militare e, inflessibile, solleva la questione giurisdizionale, subito.
Non si poteva lasciar passare l’occasione a lungo spiata, finalmente opportuna. I Turchi, entrati in Serbia, allarmano Ludovico d’Ungheria, il potente re all’ombra della cui protezione il Carrarese aveva via via alzato la testa. La notizia dell’invasione turca in Serbia era giunta ai signori di Lombardia proprio attraverso Francesco da Carrara, dalla corte ungherese incaricato di trasmetterla. Giunse, necessariamente, anche ai Veneziani, che ne trassero le logiche conseguenze: se il re d’Ungheria è trattenuto e occupato contro i Turchi, Francesco da Carrara non può, come al solito, “scaldargli leggermente le orecchie”.
Al Carrarese viene a mancare l’appoggio principale. Sugli altri non poteva contare sicuramente. Lo Stato della Chiesa impegnato dalle scorrerie dei Visconti; gli Scaligeri e i duchi d’Austria oscillanti tra Padova e Venezia (e Venezia aveva ragioni, come vedremo, per credere di riuscire ad attrarli a sé); indeciso ed evasivo anche l’Estense. Restava a Francesco da Carrara l’aiuto del patriarca d’Aquileia, ma sulla linea diretta Udine-Padova s’incuneava Treviso veneziana, per cui ad esser sicuri bisognava salire per Feltre (questa soggetta ai Carraresi), e alle spalle il patriarcato poteva esser premuto da Venezia, ora più che mai per la recentissima vittoria su Trieste. Il temuto cerchio che, facendo fulcro sul contributo ungherese, poteva strozzare la giovane politica veneziana di espansione nella terraferma (la guerra di Treviso era una non dimenticata lezione) pareva che ora si allentasse e sciogliesse. Assente l’Ungheria, Padova, più o meno isolata, poteva subire la volontà di Venezia.
Da questo punto di vista si capisce la rigidità veneziana: nel lungo lavorìo diplomatico che precedette le ostilità nessuna concessione, anzi una progressiva dilatazione di pretese.
Sullo sfondo di tali condizioni politiche, Villanova si presentava motivo ottimo all’attuazione, finora spesso rimandata, dei piani di Venezia. Quando ancora si lavorava a Villanova, osservatori veneziani, riconosciuto che le nuove opere si facevano su territorio veneziano, lanciarono la piccola pietra. Era segno, secondo una consuetudine allora viva derivante dal diritto romano, che una parte sollevava contestazioni giurisdizionali e l’altra doveva sospendere l’opera. Ma i Padovani non smettono, poiché sanno o ritengono, di lavorare su suo proprio per diritto di antica giurisdizione e di dominio recentemente e regolarmente acquisito. Il contrasto si precisa (inizio 1372).
Il notaio veneziano Desiderio domanda a Francesco da Carrara, il quale contro l’avvertenza legale aveva fatto proseguire i lavori, la distruzione delle nuove opere, perché poste nel distretto di Venezia; se no, Venezia “provvederebbe ai rimedi opportuni, come spettava alla ragione e al suo onore”. Ambasceria recisa, quasi un seccato sbatter la porta; pare che il cronista padovano lo avverta e postilla: “Né più parole disse”. E siamo appena all’inizio; è il primo passo. Ma seguire tutti gli altri, rifare tutte le vane corse da Padova a Venezia e viceversa nell’affannata, per Padova, ricerca d’una conciliazione, è inutile. Seguiamo soltanto i successivi punti di avviso. Si constaterà che per Padova è un continuo arrendevole rimettersi, regredendo di rinuncia in rinuncia; per Venezia un parallelo e inverso irrigidirsi, avanzando di pretesa in pretesa.
Le trattative dirette si erano appuntate in questi termini: una soluzione pacifica per arbitrato o per altra via amichevole (Padova), resa impossibile dalla inaccettabile condizione preliminare di distruggere i nuovi “lavorieri” (Venezia), quando intervenne la prima ambasciata pontificia. Il cardinale vicario di Bologna, sollecitato da Francesco da Carrara, mandò l’arcivescovo di Ravenna, Pileo da Prata, e il vescovo di Fermo, Niccolò da Perugia, i quali andarono più volte da Padova a Venezia e, indotti da parole sibilate ad arte nelle loro orecchie in Venezia, spinsero Francesco da Carrara a distruggere cave, fosse, argini.
Col taglio degli argini si riapriva pure il passaggio ai pescatori (anche di questo danno delle opere padovane s’era infatti lagnata la signoria di Venezia).
Ma non s’acquietavano così i Veneziani. Altre distruzioni esigevano, prima che si esperimentasse la via arbitrale. E’ la volta delle piantagioni (si ricordino i fitti alberi degli argini) e di alcune case, vecchie queste e sul terreno d’Oriago. Quale fosse la meraviglia del Carrarese si legge nella relazione fatta dagli ambasciatori pontifici alla Signoria veneta, dalla quale inoltre appare chiaro che ormai a Padova il gioco e le intenzioni veneziane erano scoperti.
“El qual Signor [Francesco da Carrara] respose molto meraveriarse dela domanda che sia desfacte così facte cose, dele qual per inanci mai no fo facta alguna mention…Al signor messer Francesco chiaramente pare che la Signoria vostra non habia animo di viver con lui in perfecta pase, et che queste cose ie sia facte ad animo per romper el so pacifico stado et di soi citadini”.
Altro che perfetta pace! Se ne accorse anche quel dottore in legge, altro ambasciatore dall’instancabile Francesco da Carrara mandato a Venezia subito dopo il ritorno dei legati pontifici, per pregare, con buona dose di ingenuità, che “maggiori signori e più possenti” com’erano i Veneziani, non volessero tener nascosto il loro “animo e intenzione”, il quale si sentì rispondere (ed era “final resposta”) che il Consiglio veneziano aveva deciso di chiudere le palate verso Venezia. Il 22 febbraio 1372 dietro le spalle di quel dottore in legge si serravano al calar della notte le palate. Il contrasto dalle discussioni diplomatiche, vane, passava alla prima misura ostile.
3. Missioni diplomatiche e tregua (24 aprile 1372)
Né i due contendenti perdono tempo. Venezia si prepara alla guerra. Ci affidiamo a informazioni padovane che, per quanto suscettibili di qualche attenuazione (Francesco da Carrara calca le tinte, per aggravare alla mente degli amici il pericolo), rispecchiano la realtà. Venezia, dunque, cerca gente d’arme ovunque, stringe alleanze coi signori non amici di Francesco da Carrara, fornisce del necessario per la guerra le fortezze di confine, nel trevisano e nel padovano. Peggio, fa derubare e taglieggiare da appositi suoi incaricati i cittadini padovani che battono il trevisano o si recano a Venezia. Dopo la chiusura delle palate, che ledeva interessi economici, l’offesa alle persone. La provocazione monta.
Anche Padova si prepara, e il suo signore esce (ai primi del marzo del 1372) di città per visitare i serragli sul confine veneziano, Mirano e Oriago.
E sollecita l’intervento degli amici: Ferrara, Stato Pontificio, Firenze, Pisa, Lucca, Ungheria.
Minacciato dalle armi viscontee il cardinale di Bruges, vicario di Bologna, non può dividere le sue milizie in due parti: l’una per contrastare il passo ai nemici, l’altra per aiutare l’amico Francesco da Carrara; fra l’altro, poteva stancare la pazienza dei Bolognesi e provocarne qualche novità. Insomma rifiuto, almeno per ora (è il 9 marzo 1372), delle desiderate milizie: però parole molte e anche promesse.
Subito dopo una seconda ambasceria pontificia parte per Venezia. Stavolta (ancora marzo 1372) al legato pontificio, che è il vescovo di Siena, si unisce quello del marchese d’Este, Ugolino di Savignano. Risultato dell’ambasciata, di male in peggio. Non basta più abbattere le case e i plantoni, già noti; dev’essere distrutta anche la torre di San Boldo, “ch’è a confin del Trivixan e del terren de Zividale de Belun”. Poi si potrà parlare di arbitrato. Ma intanto la distanza si allunga. Che se la Chiesa, come non abbastanza energicamente minacciava il suo legato, si schierasse in caso diguerra dalla parte dell’alleato Francesco da Carrara, Venezia fa intendere che potrà e saprà difendersi.
Come lo Stato pontificio, Firenze. Parole, non aiuti. Pisa, che risorge sotto Pietro Gambacorta, e Lucca, passata dalla schiavitù a “godevole libertade”, promettono milizie. E intanto Firenze (24 marzo) e Pisa (31 marzo) mandano separatamente ambasciatori a Venezia. Sempre però con esito negativo.
Ma la potenza su cui Francesco da Carrara ripone tutte le sue speranze è l’Ungheria, di cui si dichiara, con un pizzico di adulazione interessata, creatura. Al re Ludovico una generica informazione era stata mandata al primo manifestarsi dei malumori veneziani. Ora, marzo 1372, gli pervengono, a breve distanza l’una dall’altra due ambasciate padovane, che, dopo aver fatto una particolareggiata esposizione delle trattative con Venezia, garbatamente suggeriscono, se fallisce la conciliazione (e per tentarla si chiede l’invio di una ambasciata ungherese a Venezia), un ben delineato e intelligente piano di azione: mandare a Padova 1000 uomini d’arme, prova incontestabile, agli occhi dei Veneziani, della protezione ungherese e anche argomento di paura; tenere inoltre pronte 10 galee in Zara, per danneggiare Venezia (si accenna alla promessa lega del patriarca d’Aquileia e all’adesione della Chiesa; si domanda che sia ordinato a Cansignorio di non lasciar libero passo a gente d’arme per Venezia; infine la regina Giovanna è avvertita di non lasciar libero accesso nei suoi porti di Puglia ai Veneziani. Era, noi diremmo, un blocco per terra e per mare (o, per mare, dato l’esiguo numero di navi richieste, un contrasto e disturbo). Qualche cosa che può far pensare, come im embrione, alla prossima guerra di Chioggia.
Ma occorreva al re d’Ungheria più decisione e anche più navi (quelle che porterà Genova, che l’Ungheria non ha. Tanto preciso ed energico il piano proposto dal Carrarese, quanto temporeggiatrice la risposta ungherese (28 marzo 1372). Il re, consigliato dai suoi baroni, qualcuno dei quali era cupido di visitare le terre veneziane, promette uomini, ne ordina subito l’arruolamento, ma per inviarli, attende l’esito della sua ambasciata, che in quei giorni era giunta a Venezia.
Neppur questa smuove, nonostante varie proposte e reiterate istanze, la Signoria dalle sue richieste. Abbattere i plantoni e distruggere le case in quel di Oriago, nonché la torre di S.Boldo, è la solita ferma condizione al compromesso arbitrale e alla riapertura delle palate. E quando gli ambasciatori di Pisa, Firenze e Ungheria, per difendere più autorevolmente la causa dei Padovani, si riunirono insieme e insieme si presentarono (2-9 aprile 1372) alla Signoria veneziana, neppur allora ottennero una mitigazione delle pretese.
Ormai, sperimentati tutti i mezzi, fatte parecchie proposte concilianti, invicati e usati singolarmente o collegialmente più intermediari, a Padova non restava che aderire accettando a malincuore “non senza gran vergogna e pregiudizio” l’imposizione.
Perciò, dopo la deliberazione d’un maestoso consiglio generale orgogliosamente convocato l’11 aprile alla presenza degli ambasciatori forestieri e anche dietro suggerimento degli stessi ambasciatori, il 14 aprile 1372 le opere nuove di Villanova furono diroccate, le vigne e le piante sradicate e tratte a terra, la torre di San Boldo ridotta al primitivo stato.
A questo prezzo, che segna, nel biennio, il primo avvilimento della inquieta politica di Francesco da Carrara, gli ambasciatori d’Ungheria, Firenze e Pisa potevano ottenere una tregua di due mesi a partire dal 24 aprile, durante la quale un collegio di dieci arbitri, cinque dell’una e cinque dell’altra parte, poteva definire le questioni dei confini.
Il 24 aprile, dopo due mesi di fervida attività diplomatica, che fece convergere a Venezia gli amici del Carrarese, e di meno appariscenti ma forse non meno tenaci preparativi militari, tentati o realizzati, le palate si riaprivano. Ma fu illusoria distensione.
4. Compromesso arbitrale (24 aprile – 24 giugno 1372)
Il 1° maggio i cinque arbitri eletti da Venezia: Giacomo procuratore di San Marco, Lorenzo Dandolo, Giacomo de Priuli, Pantaleone Barbo e Taddeo Giustinian; e i cinque eletti da Padova: Lodovico Forzatè cavaliere, Arsendino de Arsendi dottore in legge, Giovanni Dall’Orologio fisico, Frugerino di Capodivacca, Giacomino Gaffarello giurano: “removesto ogni odio amore paura presio e pregiere, nui cognosceremo et diffiniremo sovra le discordie di confini le qual è tra le parte a pure et bona fe segondo Dio e justitia…”. La loro competenza investe tutte le questioni per confini tra la signoria veneziana e quella carrarese, non quella soltanto che gli ultimi avvenimenti hanno suscitato sul lato settentrionale della laguna: Villanova ha riacceso il problema su tutti i luoghi controversi, dalla laguna (nord e sud) al trevisano. L’esame comincia dalle paludi.
Dopo aver viaggiato, il 2 maggio, lungo il Brenta e per la via da Lugo senza nulla decidere, gli arbitri si riuniscono a Cavarzere, luogo prestabilito per il primo incontro, che avviene il giorno dopo.
Quivi rimangono una settimana o poco più (fino al 10 o 15 maggio). Tra essi anziché formarsi un accordo, sorge tensione viva; se al loro arrivo a Cavarzere quelli di Padova, e col seguito componevano una brigata di 75 persone, non trovarono alloggio e dovettero una piccola parte arrangiarsi in una casetta capace di tre persone, tutti gli altri rimasero a ciel sereno o sui sandali; poco dopo, la discussione tra due arbitri, l’uno padovano e l’altro veneziano, scese a insulto offensivo e stava per degenerare addirittura in violenza a colpi di stocco, se non fossero intervenuti i colleghi a calmare gli animi commossi a furore.
Episodi di cronaca, che potremmo senz’altro omettere, se non fossero indici significativi d’una astiosità forse preconcetta da entrambe le parti; di cui tra breve vedremo i frutti, ben più amari d’uno scontro personale nei rapporti tra i due stati.
Così il primo incontro. Degli altri tre, che le fonti ricordano, analogo lo svolgimento, identico l’esito. Il secondo s’inizia a Borgoforte il 15 o il 16 maggio, presente l’ambasciatore pontificio Enrico di Sessa, vescovo di Como. Dal 24 maggio ai primi di giugno il terzo, a Chioggia. Il quarto…sfuma; infatti il 12 giugno gli arbitri padovani si recano a Codevigo e quelli veneziani giungono a Chioggia, ma il giorno seguente i primi ritornano a Padova e riferiscono di non aver nulla deciso, perché non avevano trovato gli arbitri di Venezia.
Ho accennato a dispetti e asti manifestatisi nell’ambito del collegio arbitrale fin dal primo incontro. Lo sfondo del terzo è anche più cupo. Al Consiglio dei Dieci è ormai (maggio 1372) svelato che Francesco da Carrara veniva a conoscere le deliberazioni segrete della repubblica di Venezia mediante i suoi famigliari, Moncorso e Bernardo de Lazara, ch’erano in relazione con frate Benedetto del convento di S.Stefano di Venezia. Il 29 maggio al podestà di Chioggia è mandato ordine che cerchi di aver nelle mani i fratelli De Lazara.
Perciò sospetto e paura dei Veneziani per individui, specialmente di Padova che bazzicavano Chioggia; vigilanza e guardia armata di notte. E, ecco i riflessi nei lavori della commissione arbitrale, non minore paura dei rappresentanti di Padova, e anche disagio, chè non difendevano con ardore le ragioni del proprio comune in ambiente poco tranquillizzante per la integrità personale. In quegli stessi giorni il processo e la condanna dei quattro gentiluomini veneziani Lodovico da Molin, Lunardo Morosini, Piero de Bernardo e Francesco Barbarigo, che “prendevano parte alle più delicate funzioni dello Stato e per il loro officio entravano nei più segreti affari della Repubblica”, dei quali i primi due erano colpevoli di aver manifestato decisioni segrete a chi le faceva giungere a Padova.
Ma oltre a questo ben organizzato spionaggio, l’altro mezzo tremendo, l’assassinio politico, doveva essere sperimentato dal Carrarese in questo torno di tempo. Sarà scoperto dopo scaduto il termine della tregua, ma era stato usato prima […].
Alla obbiettiva difficoltà della definizione dei confini si aggiungeva la cattiva volontà e l’intrigo. Ed era necessario che in ambiente così eccitato il compromesso fallisse. L’8 giugno Francesco da Carrara ne dà una sfiduciata informazione all’Ungheria e il 19, cinque giorni prima della sua scadenza, Venezia ordinava, quia nullum concordium sequutum est, al podestà di Treviso di provvedere per il 24 prossimo venturo a far serrare tutti i passi verso o da Padova. Dopo quasi due mesi di convegni più o meno calmi, di separazioni sdegnose, di sopraluoghi, esami, discussioni cavillose, i contendenti si ritrovarono al punto di partenza, trincerati nella iniziale pertinacia.
Ma insomma quali erano i termini del contrasto? La risposta posa su dati approssimativi per la difficoltà insuperabile di scoprire il valore attuale di antichi termini geografici. Le fonti ricordano due argini: quello dell’Adige e un secondo, di cui non si dice il nome, in capo al quale è la casa del Conte, al di là valli e valli anche al di qua. La casa del Conte mi pare da porsi su quel capo dell’argine che è verso l’Adige o senz’altro lo tocca, non su quello opposto. Argine e casa sono a non meno di quattro miglia da Borgoforte. Ebbene Venezia voleva fosse determinato che tutto l’argine dell’Adige verso Borgoforte fosse suo, Padova che dalla casa del Conte in qua verso Borgofort non si desse niente dell’argine.
Quanto al secondo argine, Padova era disposta a rinunciarvi in tutto o in parte insieme con le valli che sono all’al di là di esso (delle quali mi pare non mai ferma la rivendicazione padovana) oppure, sguarnitolo, renderlo comune per segnare il termine delle due giurisdizioni: Venezia invece asseriva che la sua giurisdizione arrivava a quattro o cinque miglia al di qua dell’argine verso Borgoforte.
Le prove delle contrastanti rivendicazioni, anziché argomento di chiarificazione e definizione, diventano anch’esse in ambiente irritato, pretesto a nuovi cavilli e rotture. Secondo le fonti padovane fu Venezia, naturalmente, che non produsse le prove; Venezia irremovibile nella sua secca decisione: “nui volemo così” non avrebbe declinato dalla sua intransigenza illogica, neppure se gli arbitri padovani si fossero affaticati per cent’anni!
Sull’obiettività, però, di Padova è lecito, sollevare qualche riserva che un fatto particolare, senza dire degli intrighi e congiure sopra accennati, rende più che legittima, grave. A un certo punto della discussione i Veneziani si appellano alla carta geografica compilata con particolare competenza dal padovano Dondi dall'Orologio (si ricordi: è uno dei cinque arbitri), che de visu conosceva i luoghi descritti per la sua permanenza a Chioggia. Ebbene l’animo di Francesco da Carrara “se mosse contra el mostraor dela dicta carta perché la nosè più che la no covò al Comun de Pava”.
Temere una siffatta prova, perché invocata dall’avversario stesso è segno che per lo meno i torti sono divisi. Forse coglie nel segno il veneziano Caroldo: “Fu tra loro grande contentione né si potè trovar forma di venire ad alcuna resolutione, tanta era la durezza dall’una et l’altra parte”.
5. Il centro dell’attività diplomatica da Venezia a Visigrado
Fallito l’arbitrato, il centro dell’attività diplomatica si sposta da Venezia a Visigrado. Ed è logico. Finchè permaneva una qualsiasi possibilità o speranza di conciliazione, gli ambasciatori, prima e dopo la chiusura e riapertura delle palate, da Firenze, Pisa, Bologna, Ferrara, dalla Sassonia e soprattutto da Padova e dall’Ungheria convennero a Venezia, poiché è Venezia che, a ragione o a torto, ha sollevato la questione e resiste.
Ma, caduta quella possibilità, l’attenzione converge sull’Ungheria, di cui l’una parte sollecita con sempre più pressante istanza, l’altra tenta di scongiurare o almeno differire l’intervento armato; e alla corte del re si svolge ogni giorno la vivace schermaglia delle ragioni e delle confutazioni presentate con vigore polemico a sostegno delle opposte tesi dai Padovani e dai Veneziani. Altre ambasciate all’Ungheria giungono da città indirettamente interessata alla questione, come Verona; o dall’Ungheria partono destinate a Verona, oltre che a Venezia e Padova. E’ un intrecciarsi di missioni diplomatiche, che a Visigrado hanno, in arrivo e in partenza, il loro discrimine.
6. Incertezza di Verona
Ai primi di luglio (1372) a un ambasciatore padovano che ritorna alla sua città si uniscono Giovanni Chus, già Bano di Dalmazia, e Valentino, chierico decretalista; due autorevoli personalità, che vengono, ambasciatori del re Ludovico, a Verona e a Venezia.
Verona, che certo ha della ruggine con Padova, non assume fin dall’inizio dell’ostilità un decio atteggiamento tra Venezia e Padova (o, che è lo stesso, l’Ungheria): tra l’una e l’altra pencola.
Il 2 marzo, quando, chiuse le palate, Venezia si prepara alla guerra e Padova non dorme, gli ambasciatori veronesi, espongono a Venezia le novità che Francesco da Carrara, senza essere provocato, faceva ai Vicentini; ma soprattutto non tacciono la loro “buona disposizione” verso Venezia, se questa, pochi dì appresso, tenta con l’ambasciata di Pantaleone Barbo di dare ad essa disposizione un contenuto meno generico, trasformandola in lega.
Cansignorio non si mostra restìo. Quantunque sollecitato da oratori ungheresi a prestare favore al signore di Padova, è contento di far lega con Venezia; oppure, se Venezia vuole l’accordo con Padova, è pronto a prestare i propri buoni uffici di intermediario; infine, anche raggiunto l’accordo, sarebbe la lega ugualmente utile, perché se Padova facesse delle novità all’uno o all’altro, si potrebbe resistere insieme.
Insomma, opportunità d’una lega difensiva contro le attuali o le future aggressioni di Padova. Il senato veneziano, informato dal proprio ambasciatore, accetta naturalmente la lega e ne delinea i patti: concorso a metà nelle spese per i cavalieri e i fanti; quanto alle conquiste, a Venezia la città di Padova con la parte nord-orientale del suo distretto, ivi compresi Bassano, Cittadella e Camposampiero; a Verona il resto, cioè il distretto padovano verso Vicenza. E’ rifiutata, invece, con bel modo la mediazione veronese, su cui si spande l’ombra di sfiducia che incombeva sulle parecchie altre; e poi, comunque andasse la pratica direttamente aperta con Padova, Cansignorio doveva essere certissimo che la repubblica veneta non concluderebbe alcun patto, salvo con onore e a proprio vantaggio (altra eco alla intransigenza veneziana, che già conosciamo).
La terza proposta: lega da stringersi, anche dopo l’eventuale accordo veneto-padovano, se Padova muovesse guerra a Venezia o a Verona, è, come la prima, accettata. Pareva dunque che i desideri e gli interessi delle due città, che si lagnavano d’essere entrambe disturbate dallo stesso pretensioso signore, collimando si stringessero in accordo. Senonchè Cansignorio, per irresolutezza o per timore delle ritorsioni ungaro-padovane, differiva la conclusione della lega; né riuscì ad ottenerla con tutto il suo zelo Pantaleone Barbo, che in capo a qualche giorno dovette accontentarsi d’una concessione sola e ottenuta a fior di ducati: poter assoldare in Verona e in Vicenza gente d’arme. Non era poco, ma la “buona disposizione” di Cansignorio anziché svolgersi e maturarsi in una lega con Venezia, si contraeva e sbiadiva in una dichiarazione di amicizia per tutti, per Venezia e per i suoi nemici.
Questa ondeggiante politica scaligera, mentre da una parte non spegne le sollecitazioni veneziane, che continuano anche dopo la concessione del libero passo, dall’altra desta i sospetti di Padova e dell’Ungheria. Alla fine di marzo ambasciatori carraresi sono presso Cansignorio, per sapere se egli voleva aiutare Venezia, ed hanno assicurazioni di neutralità e anche di amicizia per Padova.
Quasi nello stesso tempo Stefano da Veglia pregava a nome del re d’Ungheria Cansignorio, quale parente del medesimo re, di non volersi intromettere nella guerra veneto-padovana, come guerra di sua maestà; anche a lui buone assicurazioni dello Scaligero: la preghiera del re si riceveva come comando, la benevolenza del re si voleva conservare perpetuamente. Non meraviglia perciò che Padova potesse concepire la speranza di farsi alleata Verona. Francesco da Carrara scrive (ante 27 maggio) al re d’Ungheria, pregandolo di mandare a Verona un suo ambasciatore che tratti l’unione con Cansignorio o per lo meno ne ottenga formale promessa di non offesa a Padova.
E a questo tentativo di attrarre Verona sideve forse la concessione del sale fatta da Francesco da Carrara a Cansignorio a dispetto di Venezia, che l’aveva negato (10 giugno). Quale indirizzo prendessero i rapporti tra Verona e Ungheria (e quindi Padova) dice anche un altro fatto: tra fine maggio e inizio giugno Cansignorio manda suoi messi in Ungheria a promettere aiuti. Non è quindi azzardato dire che pareva attuabile con Padova e l’Ungheria quella lega che Venezia si era vista sfuggire.
Ma proprio quando gli indici sopra notati potevano far pensare a intiepiditi rapporti veneto-veronesi e, più, a un progresso dell’avvicinamento padovano-veronese, messi di Cansignorio presentano a Ludovico d’Ungheria una veemente requisitoria contro Francesco da Carrara. Un puntuale energico ritorno di Venezia aveva intorbidato il cielo tra Padova e Verona. A suggestione e istigazione di Venezia e non a danno patito da parte di Francesco da Carrara (ma noi non riusciamo ad essere così tranquilli nell’escludere ogni responsabilità carrarese) sono attribuite, secondo la concorde interpretazione padovana e ungherese, le accuse di Verona.
Lo zampino di Venezia si può scorgere nella richiesta conclusiva delle lagnanze veronesi: se i danni, si dice, e le ingiurie di Padova contro Verona porteranno a una rottura tra le due città, Ludovico d’Ungheria dovrebbe non difendere Francesco da Carrara contro Cansignorio, ma dare favore a iuti a questo contro quello. Sollevare Verona contro Padova e, magari, staccare l’Ungheria da Padova è l’ambizioso obbiettivo dell’abile mossa diplomatica veneziana. Ma Venezia non riesce, poiché cozza contro l’insolita energia di re Ludovico.
Il quale non solo rimanda ad altro tempo più adatto l’esame dei lamenti veronesi, di cui subito scopre e contesta la fonte veneziana, ma anche si dichiara stretto a Francesco da Carrara da alleanza e da singolare affetto, per cui si era disposto ad aiutarlo contro tutti. Tale risposta apparve ai messi di Cansignorio così dura, che essi pregarono istantemente (e ottennero) che fosse data per iscritto, affinchè il loro signore non sollevasse dubbi sull’autenticità di essa.
Tutto ciò, dunque, era avvenuto tra marzo e giugno 1372, quando nella prima quindicina di luglio i due ricordati ambasciatori ungheresi Giovanni Chus e Valentino si presentavano a Cansignorio, per attuare con lui i suggerimenti di Francesco da Carrara, aggiornandoli, già vecchi com’erano di qualche mese, alle ultime tendenze antipadovane della politica scaligera.
Queste le richieste ungheresi: Cansignorio non si intrometta nella questione veneto-padovana, se no va contro la maestà d’Ungheria; viva per riguardo della stessa maestà, in pace con Francesco da Carrara; si stringa anzi per riguardo della parentela sempre con sua maestà in alleanza con Francesco da Carrara; se a tanto non aderisce, non conceda almeno libertà di passaggio a chiunque marci ai danni del Carrarese. E questa la risposta di Cansignorio: rifiuta la lega con Francesco da Carrara; si dichiara non alleato dei Veneziani, ma in forza di antica convenzione, obbligato a dare a questi libertà di passo.
Quasi in identici termini si ripresentano i rapporti padovano-veronesi due mesi dopo, quando l’8 settembre altri ambasciatori veronesi giungono da re Ludovico e lo trovano molto turbato con loro per ciò che gli aveva scritto il suo messo Giovanni Chus (il quale avrà anzitutto riferito l’esito dell’ambasciata fatta con Valentino a Verona e poi forse avrà segnalato anche qualche successivo coerente atteggiamento di Cansignorio, osservato attraverso il prisma carrarese; a Padova infatti rimane Giovanni Chus).
Gli ambasciatori scaligeri, ricevuti il 12 settembre, riaffermarono, non senza aver forse nuovamente toccato delle ingiurie di Padova, la perfetta neutralità di Cansignorio, ma anche l’impossibilità di vietare i passi ai Veneziani. Le stesse cose, dunque, che due mesi avanti. E fermo, quasi direi ostinato, nonostante tutto, nel proposito di stringere la lega padovano-veronese è anche re Ludovico poiché promette, rispondendo agli Scaligeri, di mandare suoi ambasciatori appunto per trattare l’accordo. Aveva fatto suo pienamente il punto di vista carrarese.
7. Venezia e l’Ungheria
Cinque giorni dopo che a Verona, Giovanni Chus e Valentino giungevano a Venezia. Assai diverso però il tenore di questa ambasciata. A Verona abbiamo notato costante fermezza: a Venezia nessun “succo di virilità”. A Cansignorio si tenta di imporre più che la neutralità, la lega con Padova: i Veneziani sono pregati di avere buona vicinanza e pace con Francesco da Carrara e di rispettarne le “ragioni” dalla pace veneto-ungherese in poi.
Sui motivi della pace si insiste con dimostrazione storica in parte addomesticata ingenuamente: i Veneziani erano sempre stati amici degli Ungheresi (la recente guerra si era risolta con una buona pace!); il re d’Ungheria aveva restituito per sua liberalità quel distretto di Treviso, che, occupato, poteva tenere di fronte a chiunque; Francesco da Carrara (e qui la realtà era constatata senza rosei travestimenti) era stato indotto dall’Ungheria a non piccola umiliazione, quando aveva accettato di abbattere le opere nuove di Villanova e S.Boldo.
Venezia nega che Francesco da Carrara voglia la pace, mentre da parte sua si dice disposta alla concordia. Duplice asserzione buttata lì tra l’evasivo e il generico, su cui Venezia si riserva di ritornare, provando e discutendo, con un’ambasciata che decide di inviare in Ungheria. Il fatto che la protezione ungherese su Padova non sia abbastanza decisamente riaffermata (e dell’incertezza ungherese vedremo le ragioni) è immediatamente sfruttato da Venezia, che nulla concedendo a Francesco da Carrara approfitta del tentennamento ungherese e invia ambasciatori al re con lo scopo che subito conosceremo.
Alla fine di luglio, dunque, o all’inizio di agosto con Valentino che ritorna in patria, sono traghettati anche i due messi veneziani: Giacomo Moro e Pantaleone Barbo. Loro ufficio mitigare l’animo del re, esponendo le ragioni di Venezia, e anche staccare il re dall’alleanza con Padova, calcando da una parte i lamenti contro Francesco da Carrara, dall’altro facendo allettanti offerte di aiuto contro i Turchi.
Baiazet I (indugiamo un istante su questo tasto battuto a ragion veduta dai Veneziani) aveva sconfittoBulgari e Serbi e dei Bulgari occupato tutti i luoghi principali. Perciò il pontefice aveva mandato un breve al doge esortandolo a prestar aiuto all’Ungheria contro i Turchi. E Venezia, poiché desidera la conservazione e l’esaltazione del regno d’Ungheria, offre liberamente e prontamente otto galee armate a sue spese per sei mesi contro i Turchi. Tutto questo, ripeto, per “addolcire l’animo di Sua Maestà” e per “conservare quella Maestà nella benevolenza della Signorìa, acciò non si movesse né prestasse agiuto al Carrarese contra il Stato Veneto”.
Ma il tentativo non riesce. Le giustificazioni “parve che…fossero malamente accettate”; i lamenti rimasero senza risposta e, insieme con l’interessata offerta antiturca, furono sopraffatti dalla “risoluta risposta” del re, che intendeva “dare agiuto al signor di Padova contra la Veneta Repubblica et che per modo alcuno non lo voleva abbandonare”.
E davvero risoluto fu tutto il comportamento del re con gli ambasciatori veneziani, i quali, poiché erano sprovvisti del mandato di trattar la pace (questo, non altro, interessava al re), furono licenziati e se l’uno di essi, Pantaleone Barbo, rimase in Ungheria (mentre l’altro, Giacomo Moro, il 13 settembre rimpatriava), lo fece di sua propria iniziativa, per sua propria insistenza; presso il re fu un tollerato. Ormai l’Ungheria si era irrigidita. “…Ma scrivi ben al Signor vostro che vui non ve partirì de qua senza gente” aveva detto detto il re agli ambasciatori carraresi subito dopo un irritato clloquio coi Veneziani e il 15 settembre direttamente aveva scritto a Francesco da Carrara: “…ve femo asaver che, in caso che ‘l debia esser guerra mai no ve abandoneremo, che nui vè dagamo sufficiente alturio!”.
E per contro a re Ludovico la signoria veneta faceva chiaramente notare, tramite Pantaleone Barbo, che se egli prestava favore a Francesco da Carrara, non si poteva far altro giudizio, salvo che gli voleva “dar modo et ardire di usurpare del territorio del Veneto Ducato senza ragione, et fare ogni ingiuria alla signoria sotto l’ali di sua Regia Maestà”.
8. Sospensioni del re Ludovico d’Ungheria: insistenze di Francesco da Carrara
Da metà luglio a metà settembre, tra l’ambasciata ungherese che giunge a Venezia e quella veneziana che giunge in Ungheria è pertanto evidente un cambiamento della politica ungherese. Non che re Ludovico spedisca subito a Padova aiuti, come sperava e pregava Francesco da Carrara, o dichiari apertamente guerra a Venezia; per arrivare a ciò altre resistenze, numerose e tenaci, occorrerà vincere.
Ma certo a metà settembre si impegna formalmente ad aiutare Padova, mentre due mesi innanzi la fiacca ambasciata ungherese aveva suscitato l’impressione che provenisse da un principe, il quale avesse più voglia di star in quiete che per una grande offesa muoversi a vendetta. Da che cosa potesse derivare l’incertezza prima, la risoluzione poi possiamo determinare traverso pochi indici e di non certissima significazione.
In una vivace conversazione (fine luglio) con gli ambasciatori padovani Guglielmo da Curtarolo e Michele da Rabbata, il re Ludovico esce d’improvviso in una domanda che malamente cela la sua preoccupazione: “Et como me farave guerra i dusi de Ostoricho a posta de quilli da Venesia?”.
I duchi d’Austria: un vicino turbolento, che impensierisce l’Ungheria. Tanto più che essi sembrano presi, dopo la guerra di Trieste, nell’ambito della politica veneziana. Già dal 5 aprile 1372 Francesco da Carrara, assai attento, aveva avvertito il re Ludovico che i Veneziani mostravano palesemente di aver grande speranza nei duchi d’Austria e dicevano che ne avrebbero aiuto contro Padova. E in agosto (la notizia ci interessa soprattutto per il suo valore retrospettivo) Francesco da Carrara sa da fonte ufficiosa, tramite il patriarca d’Aquileia, che i Veneziani erano in trattative e quasi in accordo coi duchi d’Austria.
La citata lettera del 15 settembre, scritta dal re d’Ungheria a Francesco da Carrara è doppiamente significativa. “Amico carissimo [volgiamo il testo volgare di Nicoletto, ch’è certamente versione dell’originale], sebbene da alcuni sudditi dei duchi d’Austria siano state fatte alcune prede e incendii nel mio regno e parimenti da nostri sudditi sia stato fatto in Austria e non con minor gagliardìa, per cui si crede che guerra debba essere da tutte e due le parti, tuttavia noi vi facciamo sapere che, in caso di guerra, noi non vi abbandoneremo senza darvi sufficiente aiuto”.
Ancor più esplicita per l’avversione a Venezia una risposta, sempre del re, agli ambasciatori carraresi (13 settembre): “E se i duchi d’Austria si disponessero a prendersela coi miei (sudditi), anch’io me la prenderò coi loro e inoltre coi Veneziani, insieme”.
E’ evidente quanto fosse progredita la tensione austro-ungherese (parallela, forse, alle trattative austro-veneziane), e come pertanto fossero giustificate le preoccupazioni e le sospensioni del re; ma è anche manifesto che la questione austriaca non costituisce più un ostacolo a che il re si schieri decisamente per Francesco da Carrara. La ragione di questa evoluzione rimane oscura: non si capisce, cioè, per quale preciso motivo la pregiudiziale austriaca dapprima fonte di perplessit non impedisca più tardi, pur continuando a sussistere, un atteggiamento risoluto.
Sperava Ludovico di attutire o comporre il dissidio coi duchi d’Austria per via diplomatica? [E’ di appena una settimana dopo la notizia di una “sufferentia” appunto tra i duchi e il re]. Oppure di eliminarlo a spese del Carrarese?
O forse, avanzo una terza ipotesi, vincono gli argomenti e le preghiere di Francesco da Carrara. Il quale fin dal 25 luglio, cioè un giorno prima che l’ambasciatore regio rimpatriasse, avvertiva Ludovico d’Ungheria che nulla aveva ottenuto la sua missione in Venezia: non l’accordo, non la pace; e, convinto che i Veneziani volevano la guerra e ad essa si preparavano (l’invio stesso dell’ambasciata veneziana in Ungheria giudicava un pretesto per prendere tempo), supplicava di mandargli aiuti.
La richiesta si rinnova, insistente e incalzante come un ritornello, sciorina con una certa fretta non scevra di contraddizioni argomenti su argomenti per persuadere il re: i Veneziani si propongono non tanto di distruggere la signoria carrarese quanto di riacquistare la Dalmazia; i duchi d’Austria, gente militarmente inesperta e superba, non possono preoccupare; tra i Veneziani serpeggiano dissensi; i vicini sono sospesi e muoveranno contro Venezia, se il re interviene: aderiranno a Venezia, se il re, indugiando, mostrerà disinteresse per il Carrarese.
E il re, dicevamo, aderisce, ma non del tutto: s’impegna, ma non con quella larghezza e prontezza, che ormai occorrevano a Francesco da Carrara. Il 28 settembre questi ringrazia quello del “paterno amore” e anche lo informa che i Veneziani si preparano ad assalire armata manu il suo territorio e a piantarvi una bastita nuova. Cinque giorni dopo la guerra è già scoppiata.
9. Preparativi militari
Amicizia con Verona ristretta alla semplice concessione di passo per i soldati; trattative, incerte coi duchi dìAustria per una problematica alleanza e più o meno schiette col re d’Ungheria per una utile dilazione del conflitto, sotto pretesto di composizione: ecco il bilancio, non certo brillante, dell’attività diplomatica veneziana fino al settembre 1372. Anche più povero quello di Padova, le cui speranze, garbatamente espulse dallo Stato pontificio, si rifugiavano nella dubbiosa e poi lenta Ungheria.
All’ombra di queste relazioni esterne, che ne sono in parte il presupposto, procede la preparazione militare. Sollecita e sicura della propria forza quella veneziana, un po’ sfiduciata (appunto perchp tutto o quasi si riprometteva e ripeteva dall’estero), ma non perciò meno industriosa quella padovana.
Di Venezia conosciamo le misure per la difesa del territorio trevisano e cenedese, i provvedimenti finanziari [prelevamento di denaro dal Monte, nonostante precedenti ordini in contrario; costituzione d’una commissione che studiasse gli onesti modi atti a ricuperare denaro e d’un’altra che inquisisse le facoltà dei cittadini dai 15 ai 60 anni nel territorio lagunare da Grado a Cavarzere e nel retroterra trevisano e cenedese, le agevolazioni di sconto concesse agli assenti per debiti che rientrassero e servissero nell’impresa militare, la preparazione di 40 ganzaruoli, su su fino al blocco economico, via mare, di Padova [Bertucci Pisani, cui ubbidiva il capitano deputato alla custodia delle Marche, vigilava con due legni tutta la riviera da Rimini in giuù, affinchè né vettovaglie, né “grassa di sorte alcuna” entrassero in Padova con gran danno della impresa, ma passassero a Venezia]. Curato è soprattutto lo stato maggiore veneziano, costituito da un capitano generale forestiero, due governatori, due provveditori, due cavalcatori, o maniscalchi, due pagatori (dell’esercito).
Al 1° settembre, non essendo stato condotto il capitano generale nonostante le ricerche estese in più parti, è nominato vicecapitano Domenico Michiel, sostituito nella sua funzione di governatore da Taddeo Giustinian e questi, a sua volta, nella funzione di provveditore, da Albano Capello. Il quadro completo delle superiori cariche militari è pertanto questo: vicecapitano Domenico Michiel; governatori Andrea Zen e Taddeo Giustinian; provveditori Giovanni di Priuli e Albano Capello; cavalcatori o maniscalchi Giovanni Contarini e Luca Valaresso; pagatori Polo Dandolo e Nicolò Contarini. Anche sulle rispettive competenze siamo abbastanza informati: assistito dai due governatori, il vicecapitano ha funzioni deliberative; da solo, funzioni esecutive; le funzioni giudiziarie – civile e penali – sui soldati pare che spettassero solo al capitano generale.
Per controbilanciare in qualche modo i preparativi veneziani Francesco da Carrara in un consiglio generale, riunito tra la fine del luglio e l’inizio dell’agosto 1372, decide di assoldare milizie all’estero, far buona guardia a tutti i passi dubbiosi, riammettere gli sbanditi ecc.
Il mese di agosto vede l’attuazione di queste deliberazioni: oltre la grida di assoluzione degli sbanditi (7 agosto), la condotta dell’inglese Compagnia Bianca (8 agosto), la fortificazione della linea confinaria dalle prealpi alla laguna: da Solagna (tra il 10 e il 13 agosto), Bassano (10 agosto) e Camposampiero (19 agosto) giù fino a Mirano (13 agosto) e alle Gambare (13 agosto).
Di particolare urgenza la fortificazione della Valsugana. Occupandone qualche castello, il nemico poteva rompere le comunicazioni tra Bassano e Feltre-Belluno; il che significava praticamente perdere quelle due città, che a Padova non potevano saldare né la lunga distanza né il recente acquisto. Per questo pericolo Francesco da Carrara aveva ordinato al capitano di Solagna, Francesco da Castelbarco, la costruzione della bastita di Cornon che, posta a ridosso del monte sopra Solagna, conservasse aperto e sicuro il passo.
L’opera era iniziata dai Padovani, ma a completarla provvederanno i nemici.
10. Lo scoppio delle ostilità; assalto a Valstagna (3 ottobre 1372)
L’ambasciatore pontificio Uguccione da Thiene era ancora a Venezia, fiducioso messo di pace, quando improvvisamente senza diretta o indiretta dichiarazione di guerra “a mo dei predoni” i Veneziani aprono le ostilità (3 ottobre). Leonardo Dandolo parte da Castelfranco alla testa di oltre 2000 uomini e assale il gruppo ben più piccolo di artigiani e operai, che, con una esigua scorta di armati, stavano edificando la bastita di Cornon sopra Solagna.
Lo scontro è aspro assai e si risolve sì con la vittoria dei Veneziani, ma non netta quanto potevano far presumere la loro superiorità numerica e la sorpresa. Infatti dei tre elementi che componevano il gruppo strategico fortificato di Solagna; la bastita in costruzione cade dopo il primo (contrastato) assalto (e i Veneziani completeranno tosto la preziosa opera); il borgo è messo a ferro e fuoco in un ritorno offensivo sferrato dopo una diversione oltre Brenta nel Vicentino, fatta per depredare i Padovani ivi rifugiatisi; la torre invece, strenuamente difesa, è mantenuta dalle forze carraresi asserragliatesi dentro. E fosse per questa valida resistenza, fosse per altri motivi, le truppe veneziane dopo alcuni giorni erano già rientrate nel castello di partenza.
Dell’operazione iniziale nessuno sviluppo organico; la seguono episodi isolati di attività militare dall’una e dall’altra parte; fra i quali notevole per un suo scopo di controbattuta intimidatoria la rapida e pingue irruzione padovana fino alle porte di Treviso (6 ottobre). Ma nulla di impegnativo per ora; nulla che risponda a un piano programmatico. Si potrebbe, nell’assalto a Valstagna con (connesso) sviluppo oltre Brenta, a stento scoprire una tenue indicazione appena abbozzata della futura azione organica di Venezia; ma un avvolgimento di Padova alle spalle sarà tentato appieno da Ranieri de’ Guaschi, il forestiero capitano generale non ancora giunto a Venezia.
Quanto a Padova, inferiore di forze, attende i promessi aiuti ungheresi; prima che essi giungano, non può avventurarsi, se mai ne avesse la velleità, in qualche impresa di largo, calcolato sviluppo. Sicchè per analoghi ragioni delle due parti: l’una attende il capitano forestiero, l’altra i soldati stranieri, il fatto di Valstagna, pur segnando l’inizio della guerra, è un episodio snodato dal rimanente corso dell’azione bellica, determinato dalla fretta dei Veneziani di intervenire prima che i Padovani, compiuta la bastita, vi si insediassero saldamente. Conseguenze di azioni guerreggiate nessuna.
Ma il contraccolpo sulla preparazione militare padovana è immediato e forte: scossa a certa fiduciosa attesa. Il giorno stesso del rovescio di Solagna, Francesco da Carrara nomina il suo capitano generale: Simone Lovo; e dà ordini energici, di vigilanza e di offesa, ai capitani dei vari centri che da Bassano per Cittadella e Camposampiero e Serravalle si stendevano fino a Stigliano e Mirano affrontando, grosso modo, il confine verso Venezia. Vigilare; può darsi che i Veneziani scendano da Noale verso Curtarolo e penetrino di là traverso il Brenta nel territorio padovano. (Altra incerta delineazione del prossimo tentativo veneziano: passato il Brenta, puntare su Padova alle spalle).
Ma l’aspettativa maggiore è pur sempre posta sul re d’Ungheria. E alla corte ungherese, perfino alla regian madre, quasi a domandar grazia, per due mesi si rivolgono (dal 3 ottobre stesso ai primi di dicembre) le implorazioni di Francesco da Carrara, dopo la sofferta esperienza di Solagna più che mai fitte e scongiuranti.
Finalmente sullo scorcio di ottobre 1372 giunge una duplice risposta. Tranquillizzante senz’altro quella della regina madre (il re è pronto ad aiutare Francesco da Carrara, “ogni indugio tolto via”); quella del re, invece, quasi a oscuro conturbante sfondo di precisi impegni porta qualche insoluta reticenza: di promesse come questa:
“Noi vi manderemo al più presto la nostra gente e tanta per tutto l’inverno, che per l’aiuto di Dio la vostra amistà senza suo danno potrà star ben tranquilla”, poteva certo rallegrarsi l’angustiato Francesco da Carrara; ma non troppo, poiché il re soggiungeva: “e senza dubbio noi abbiamo sostenuto grandi danni nei nostri affari, perché noi vi possiamo aiutare ed esservi di sussidio”; chiarissima avvertenza, anche se mitigata dalla finale assicurazione: “né per questo voi dovete dubitare, perché, rimosso ogni indugio [le stesse parole della regina madre], noi vi manderemo gente in grande quantità”.
Se si confronta questa lettera di fine ottobre con l’altra di un mese e mezzo prima, si avverte un ulteriore progresso delle relazioni padovano-ungheresi: Ludovico d’Ungheria passava da una promessa di non abbandono in caso di guerra (15 settembre) all’annuncio del pronto invio di aiuti (fine ottobre).
Però le notizie, secondo cui questi aiuti parevano a fine ottobre già sul Piave, erano tosto smentite dalla realtà. Francesco da Carrara doveva attendere e penare un altro mese, prima che gli Ungheresi apparissero nella valle padana.
11. L’avvolgimento di Padova dalla “montagna”
E fu un mese cruciale per la signoria carrarese. Vide lo svolgimento di un pericolosissimo piano: dalla montagna, intendi dagli Euganei, assalire Padova. Vide anche il profilarsi della mareggiata che dalla laguna investiva il territorio padovano. Quello tumultuoso si dissolvette con inaspettata fretta: questa, inarrestabile, monterà gravida di pericoli. Le due azioni sono concomitanti, quantunque la prima impegni subito il maggior e più appariscente sforzo, la seconda inizi con oscuri assaggi (novembre) e solo più tardi (da dicembre in poi) raccolga e manifesti tutto lo sforzo veneziano; se non fossero concomitanti, resterebbe inspiegabile un esito (opposto) contemporaneo: a distanza di un giorno la ritirata dell’esercito terrestre e la prima clamorosa vittoria navale di Venezia; la scomparsa di Ranieri da Brentelle, l’avanzata delle galee al Curame. Ma per amore di chiarezza presentiamo distinte le due azioni.
Quasi negli stessi giorni che dall’Ungheria giungevano buone notizie a Padova, arrivava a Venezia il capitano generale Ranieri de’ Guaschi, toscano. Conferito a lungo con le autorità veneziane, Ranieri de’ Guaschi issava il vessillo capitaniale di S.Marco e “a lui solo era data libertà di passar la Brenta con l’esercito come meglio gli paresse”. A lui solo, non al vicecapitano o ai provveditori senza di lui. Il piano che in germe scorgemmo nell’azione veneziana di Solagna e intravvedemmo riflesso negli ordini di vigile custodia del Brenta successivamente impartiti da Francesco da Carrara, ora poteva essere svolto: c’era il capo militare competente.
Ranieri de’ Guaschi parte con i suoi armigeri per Mestre; di là, direttamente o forse con una puntata su Treviso, raggiunge nei pressi di Bassano (si ricordi Solagna e anche Castelfranco), dov’era accampato, l’esercito di Venezia, di cui assume il comando generale. E’ una notevole massa di oltre 15 mila uomini utriusque militiae, che tosto preme sugli scoperti confini del territorio padovano. Il 7 novembre patiscono l’invasione veneziana Murelle (Bassano) e le ville circostanti; l’8 è la volta dei dintorni di Bassano, distrutti dal fuoco. Avvisaglie della bufera. La quale rapida (ma sarà proprio rovinosa se il centro di Bassano rimase intatto? Sintomi di debolezza?) si scatena appena una settimana dopo.
L’esercito veneziano passa, a S.Giorgio in Bosco o più probabilmente a Curtarolo il Brenta (Francesco da Carrara aveva ordinato di distruggerne il ponte in pietra, come pure di levare quelli in legno di altre località. Ma l’incaricato della bisogna, giunto a Curtarolo, intese che i nemici erano già passati e…se ne tornò indietro). Varcato il Brenta, l’esercito veneziano dilaga menando strage nei paesetti tra Brenta e Bacchiglione (da Piazzola sul Brenta a Trambacche) e si attesta dinanzi al serraglio di Brentelle. Il giorno seguente (16 novembre), l’attacco a Brentelle, di cui i Padovani contengono la virulenza, scomposta e non decisa.
Nonostante le apparenze, c’è qualche cosa nell’esercito veneziano che non va. Il dissidio tra capitano e governatori già agisce. Eppure bastava forzare un po’ e Padova cedeva e la più bella (quella militarmente più importante) parte del territorio era perduta.
Francesco da Carrara era infatti consapevole della difficoltà di contrastare il passo alla soverchiante moltitudine dei nemici e si “struggeva in grande agonia d’animo. Conviene insistere nel mantenere e custodire Brentelle oppure ritrarsene? Troppo grave la decisione, per prenderla senza riunire un consiglio di esperti militari e di autorità politiche. Perciò Bonifacio Lovo, Arcuano Buzzaccarini e Luise Fozatè sono chiamati dal fronte alla riunione (17 novembre) (alla guardia del serraglio restano Simone e Antonio Lovo).
La decisione, piena di buon senso, prova la gravità estrema del pericolo: non si lasci libero passo ai nemici, ma se niente niente si rassoda la loro volontà di rompere, sia abbandonato il serraglio e ci si ritiri a Padova.
A ritirarsi invece e “con tutta sua oste” pensarono i Veneziani nello stesso giorno (17 novembre), i quali, dopo il primo indeciso combattimento, levarono il campo da Brentelle e ritornarono sui loro passi verso il Brenta, tra Vaccarino e Curtarolo. Un secondo e ultimo e inutile assalto frontale a Brentelle lo tenteranno tra due settimane, il 2 dicembre. Tra l’uno e l’altro si svolge la stracca e disordinata scorreria sugli Euganei, causa di fondate preoccupazioni e ansie al Carrarese.
Varcato il Bacchiglione a Longara con la compiacenza dello Scaligero, signore di Vicenza, i Veneziani rimontano gli Euganei da ponente, scendono sul versante orientale ma non premono con energia la linea Padova-Monselice, affrettatamente munita dal Carrarese.
Dopo il primo assalto a Brentelle, un’altra occasione di sfondare verso Padova persa dai Veneziani. Evidentemente qualche cosa minava l’esercito di Ranieri. Consumata una decina di giorni a girovagare sui colli da Rovolone, Boccon e Teolo a Praglia, da Val Nogaredo a Rivella, i Veneziani, che sul loro cammino dovevano aver incontrato parecchie rovine ordinate dall’energico Francesco da Carrara (Cinto, Baone, Lovo, Cornoleda, Valle dell’Abbà ecc. oltre che Abano furono bruciati) tornarono a Brentelle e l’assalirono (2 dicembre).
Ma come poteva riuscire quest’altro assalto, se ai motivi interni di debolezza dell’esercito veneziano si aggiungeva lo spauracchio degli Ungheresi, del cui imminente arrivo Ranieri aveva avuto notizia due giorni innanzi? La sconfitta veneziana sul Piave (9 dicembre) fece sentire i suoi funesti effetti subito; l’esercito veneziano si sciolse disordinatamente, i soldati fuggirono non aspettandosi l’un l’altro “quasi come gente abbandonata” e si rifugiarono nel trevisano.
Il capitano generale vedeva fallito l’audace piano, per la cui attuazione si era atteso il suo arrivo; l’avvolgimento di Padova, da questa parte, cadeva: non la penetrazione nel serraglio di Brentelle, non lo sfondamento, superati i colli, della linea Monselice-Padova. Una festosa accoglienza aveva aperto l’avventura di Ranieri, l’ombra oscura di un giudizio la chiudeva.
12. Arrivo degli Ungheresi e battaglia del Piave (9 dicembre 1372)
Sullo scorcio di novembre 1372 giunge finalmente a Padova l’attesa lieta notizia: gli Ungheresi, diretti a soccorrere Francesco da Carrara, sono in Friuli. Sono 1400 cavalieri guidati da Benedetto, conte Tesimense, già Bano di Bulgaria, e dal conte Stefano, maestro della corte ungherese. S’erano riuniti a “Capronzo” di Zagabria e di là attraverso la Schiavonia e la marca di Gorizia, giurisdizione dei duchi d’Austria (i quali “no ha lassà le predicte gente de messer lo Re ben et liberamente passar per lo so terreno, anci ha elli voiudo che elli habia passado a brigade, benchè molti ne habia passado a mano armada”), erano giunti a Spilimbergo, nella Patria del Friuli, dove li raggiunge il connazionale Giovanni da Polisna che, mandato incontro a loro da Francesco da Carrara, li guiderà attraverso il territorio trevisano. Superato il fiume Livenza, alto e impetuoso, si portano al Piave.
Era stato detto che Taddeo Giustinian, uno dei governatori dell’esercito veneziano, li attendeva a capo di 300 lance e di 2000 fanti nei pressi di Conegliano. Ma quivi non lo trovano, poiché s’era ritirato in posizione più sicura sulla riva destra del Piave, ch’egli aveva fortificato con una siepe di vimini di salice, forse al passo di Nervesa, e lì era pronto a dar battaglia.
Pare che, consigliati da Giovanni da Polisna, gli Ungheresi si dividano in due gruppi e gli uni passino il fiume a Ospedale, gli altri a Nervesa. All’uno dei due passi trovano la salda resistenza di Taddeo Giustinian, che stava per avere il sopravvento, quando, assalito dagli Ungheresi che avevano superato il Piave all’altro passo, fu fatto prigioniero insieme coi nobili trevisani Gerardo da Camino e Rizzolino degli Azzoni. Gravi le perdite veneziane.
Questa battaglia del Piave fu combattuta e vinta il 9 dicembre. Il giorno stesso gli Ungheresi, arrivano a Cittadella, che è il loro accampamento; il giorno dopo, trionfalmente, a Padova. Grande l’allegrezza del popolo padovano, che era liberato anche dall’incubo dell’esercito nemico minacciante tanto da vicino la città.
Ma nello stesso giorno in cui si celebrava questa vittoria, i Veneziani conquistavano la torre padovana del Curame sulla laguna. Ed era conquista, che riusciva compenso di gran lunga superiore alla sconfitta del Piave.
13. Attacchi veneziani sull’Adige e penetrazione alla laguna; conquista della torre del Curame (10 dicembre 1372) e sviluppi della vittoria veneziana
Meglio organizzata e più solida dell’impresa di Ranieri de’ Guaschi la pressione veneziana via acqua. Di qui Venezia logorerà Padova fino alla sconfitta.
Inizialmente si sviluppa risalendo su due direzioni: lungo l’Adige, da Borgoforte ad Anguillara, e lungo i vari fiumiciattoli e canali, che dalla laguna offrono il passaggio alla terraferma nel pievato di Sacco.
Sulla prima linea si tocca la giurisdizione del marchese d’Este, col quale nasce qualche complicazione. L’arcivescovo di Ravenna informa Francesco da Carrara dell’intenzione veneziana di venire per l’Adige fino ad Anguillara, addirittura per fondarvi una bastita. Il colpo, se realizzato, né Padova potrebbe impedirlo mentre contemporaneamente i nemici sono a nord-ovest sul suo territorio, sarebbe troppo duro, perché Francesco da Carrara non intervenga presso Niccolò d’Este e lo preghi di non favorire il piano dei emici. Pare che le assicurazioni di neutralità dell’Estense non tranquillizzino il Carrarese, se questi gli fa prevedere per mezzo dell’arcivescovo di Ravenna le conseguenze di un eventuale fovoreggiamento ai Veneziani.
Tanto meno possono rassicurare le promesse, che il marchese dice date dai Veneziani, di non violazione del territorio estense a danno di Padova. Francesco da Carrara può segnalare il 23 ottobre una smentita: un ganzaruolo veneziano dopo aver navigato lungo la costa estense dell’Adige ha potuto sbarcare in territorio padovano a Beverare presso Borgoforte armati veneziani, che hanno incendiato una tettoia di guardie carraresi.
Alla luce di questa nascente diffidenza è comprensibile come dagli ufficiali del marchese, capitani di Rovigo e di Venezze, possa essere proibito agli operai del Carrarese di piantare quattro o cinque stanghe per un molino appartenente a Niccolò da Carrara in Borgoforte: una ordinaria innocua opera di difesa dalla rosta (posto che veramente fosse tale) insospettisce Niccolò d’Este o gli dà il pretesto per avventurarsi in interventi nelle cose padovane a proprio vantaggio.
Le preoccupazioni di Francesco da Carrara non erano errate. Il 5 novembre gente di Venezia, Chioggia e Cavarzere, guidata dal podestà di Chioggia Piero Giustinian e dal rettore di Cavarzere, venne con dieci ganzaruoli e quattro scuole armate alla fortezza di Borgoforte e ivi sbarcò per tagliare l’argine, ma fu respinta non senza perdite dai soldati padovani, ch’erano alla custodia della fortezza. L’impresa riuscirà, dopo otto mesi, il 6 giugno 1373; e il taglio sarà causa di vasta inondazione in periodo particolarmente difficile per la resistenza padovana.
Nell’esteso intervallo, però, non troviamo memoria di altri assalti veneziani lungo l’Adige. (Permane invece l’irritazione estense-carrarese; e il marchese alla fine dell’anno farà costruire una bastita – ricorda l’aspirazione di Venezia – sulla riva sinistra dell’Adige “per meco Borgoforte in lo terren del comun de Pava”.
Venezia raccoglie e intensifica il suo sforzo sulla fascia lagunare. Se n’è accorto Francesco da Carrara che, forse fin dal novembre, ordina al podestà di Piove varie misure difensive: far attraversare con legname grosso sotto la rosta i fiumi Sioco e Nassarolo “sì che i navilij no possa vignir de giuso in suso per algun dei dicti luoghi”; cambiare la guardia alla torre del Curame e custodirla attentamente insieme con le altre fortezze e passi “ai quali da Venesia se po’ vignire per aqua”. Ma tanta previdenza fu inutile. Le minacce veneziane ripetute “tutto dì”, di venire per le soe aque da mare” trovarono qualche contrasto e intoppo nelle opere difensive carraresi, non caddero dinnanzi a quelle.
E la prima clamorosa conquista di Venezia fu la torre del Curame. Proprio il giorno dopo, ripetiamo, la sconfitta del Piave e quella ritirata da Brentelle, che se gli Ungheresi avessero potuto sfruttare, avrebbe segnato, almeno secondo il Nicoletto, la fine della guerra, Venezia occupava sul fronte lagunare la torre del Curame, la cui perdita “era quasi la destruction del signor” [Francesco da Carrara]: per essa perdita “la mitade del terreno de Pava è consumado”. In verità, posta accanto all’argine d’un canale per “lo qual…se possea vegnir nel terren fermo de pavana”, protetta dalle paludi e congiunta alla terraferma con ponte che superava il canale, la torre del Curame era una “seraia forte” ed una chiave onde “per aqua da marina vegnir al terreno”.
Per espugnarla, i Veneziani misero in atto vari strumenti, nella preparazione dei quali dimostrarono una progredita e abile tecnica costruttiva. La fitta palata di roveri, che, piantata nel canale, sbarrava l’accesso alla torre, fu lacerata mediante argani traenti corde, al cui capo erano attaccati uncini che a guisa di tenaglie strappavano ad uno ad uno i roveri; aperto il canale, assalirono la torre sette navigli grossi incastellati (che raggiungevano l’altezza della torre stessa, dei quali due portavano anche ponti snodati da gettare a terra) e sei piatte su cui erano installate tre manganelle dal tiro infallibile. Dopo aver perso il ponte, i difensori della torre colpiti dal basso (nemici sbarcati) e dall’alto (nemici negli elevati castelli delle navi), cedettero.
E fu perdita irreparabile. I Veneziani non saranno più scacciati da quel caposaldo, sicuro inizio di più estesa e profonda penetrazione nel territorio padovano. Ai Veneziani l’iniziativa, l’attacco. Francesco da Carrara ancora una volta si difende soltanto, oppone sbarramenti, ostacoli, ritardi: bastite contro bastite, tanto da costruire via via una trama di fortezze che coprirà l’estremo lembo orientale del suo territorio, dalla laguna (procedendo verso est come le truppe nemiche) a Lova e Corte, a Lugo e Campagna.
Subito in dicembre i Veneziani fanno due tentativi, naturale sviluppo della recente vittoria, di penetrare più a fondo nel territorio nemico: l’uno diretto su Nova, l’altro su Lugo; entrambi contenuti dalla reazione padovana, che s’appoggiava a quelle due bastite, Lova e Lugo, edificate immediatamente dopo la caduta di Curame, appunto per tagliare l’avanzata veneziana.
Alla fine dello stesso dicembre o all’inizio di gennaio secondo passo deciso di Venezia: la costruzione della grande bastita di guado Onaro. Della quale il Nicoletto così descrive l’origine:
“Et così al dicto vado de Onaro, lago palustre, ma pur alquanto fermo et sodo, desmontono in terra et lì prese una cinta de terrena presso al dicto canale, nel qual elli per soa segurtà tegniva i soi navilii et la nocte se redusea ad albergar in quilli, el qual luogo de dì in dì con ovre che elli fe’ vegnir da Chiogia e da altre soe contrade elli infortì prima de gran fosse, poi de stechado con molti barchoni apti ala difesa del dicto luogo e quello in no troppo tempo elli acresse in sì gran cinta, che quasi ello parea una cità et per simele l’infortì de fosse et de palanchadi et con torre de ligname molto spesse. Ala qual forteca poi elli redusse la gente d’arme, che elli havea et in processo de tempo, segondo che elli andò fasando cente d’arme, così le redusse al dicto luogo”.
Ed ecco, per contrastare il passo ai Veneziani, che da questa imponente fortezza premevano ancor più alla Saccisica, altre due bastite padovane: l’una intorno alla chiesa della villa di Corte, l’altra, Rosinvalle, posta non lontano da quella dei Veneziani sulla via che dalla stessa bastita dei Veneziani menava a Corte.
Pronta reazione, dunque, di Francesco da Carrara: due bastite nuove dopo la perdita di Curame e due dopo la costruzione di Onaro; e vigilanza assidua. Ma lo svantaggio era suo; e ad aggravarlo venne, oltre ad assalti e scorrerie ardite dei nemici nei pievati di Sacco e di Maserà, la perdita anche della bastita di Lova (fine gennaio). Curame, Onaro, Lova: tre anelli della catena veneziana ribaditi in meno che due mesi. Né la catena si spezzava qui.
14. Attività diplomatica tra dicembre 1372 e marzo 1373: a) trattative di pace; b) alleanza ungherese col patriarca d’Aquileia; c) alleanza carrarese e ungherese coi duchi d’Austria; d) l’Ungheria dichiara guerra a Venezia
I due opposti avvenimenti militari (arrivo e vittoria degli Ungheresi e conquista veneziana della bastita di Curame) e i loro sviluppi presumibili (Venezia temeva l’arrivo di altri rinforzi ungheresi) o effettivi (Padova constatava che il nemico, abbarbicatosi al suo territorio, sferrava attacchi frequenti, preoccupanti) suscitano necessità e problemi, che la diplomazia si sforza di risolvere durante i mesi centrali dell’inverno, da dicembre a marzo.
Le trattative di pace, tra le parti, quelle ungaro-padovane per l’alleanza col patriarca di Aquileia e le altre sia di Venezia (fallite) sia di Padova (concluse) per l’alleanza coi duchi d’Austria, in parte successive in parte contemporanee le une alle altre, si spiegano sulla scia di quei fatti militari, il cui svolgimento s’intreccia col corso di esse e lo influenza.
a) Dei tentativi di pace uno fu esperimentato direttamente tra le parti, un altro condotto dagli ambasciatori pontificio e ungherese insieme: l’uno e l’altro, lo dicamo subito, fallirono. Quale delle due parti abbia avuto l’iniziativa del primo (da porsi dopo il 9 dicembre e prima del 5 gennaio) non è possibile decidere essendo contrastanti le fonti. Ma forse poco importa, giacchè per altri indici (lo svolgimento stesso delle trattative) pare che il più preoccupato di raggiungere la pace fosse Francesco da Carrara.
Centro di queste trattative è Taddeo Giustinian, l’illustre prigioniero veneziano a Padova, per mezzo del quale il notaio Marco da Conegliano, segretario ducale, potè correre più volte da Venezia a Padova e nel suo ultimo ritorno alla propria città fu accompagnato dai due ambasciatori padovani: Bonifacio Lovo e Giacomino Gaffarello.
Le diverse proposizioni nella fase finale si possono così compendiare. Francesco da Carrara è incline ad accettare ragionevole composizione della questione dei confini, renitente a pagare le spese di guerra, pronto a cedere Feltre e Cividale. Venezia domanda 300 mila ducati, di cui 100 mila da pagarsi subito, gli altri in 5 anni; sul confine lagunare, il dominio della torre del Curame (intorno alla quale per sette miglia Francesco da Carrara non poteva alzare fortezze) e il dominio di Oriago, mentre Castelcaro doveva essere abbattuta dal Carrarese, il quale, di più, non poteva fabbricare alcuna fortezza sopra il fiume fino a Bovolenta; sul confine montano, il dominio, la restituzione di Solagna (oppure tutte le fortezze di qua dal Brenta, inclusa la torre del Curame); per la determinazione dei confini, nomina di quattro nobili (non è detto se tutti veneziani, come nei patti del febbraio o due veneziani e due padovani); inoltre, se possiamo accettare l’indiretta informazione di Michele da Rabbata al re d’Ungheria, due gravissime limitazioni della sovranità padovana nei rapporti internazionali: rinuncia a tutti i patti e confederazioni del passato, divieto di contrarne per il futuro senza il consenso di Venezia. (Evidentemente si voleva recidere il vincolo ungaro-carrarese).
Le pretese veneziane, al cui rigore e irriducibilità forse contribuiva anche il felice corso delle trattative di alleanza coi duchi d’Austria (il veneziano Caroldo ha un preciso accenno all’interdipendenza dell’azione diplomatica per la pace con Padova e dell’alleanza coi duchi), fecero fallire la pratica per la pace.
La quale fu ripresa da Uguccione da Thiene, messo del pontefice, e da Stefano d’Ungheria, messo ungherese, che a questo scopo giunsero a Padova il 5 gennaio, separatamente, ma forse non senza preventivo accordo o coincidenza di intenti. La discussione si trascinò per un mese circa. Senza nulla concludere: colpa di Francesco da Carrara, scriveva il doge al re d’Ungheria.
In verità le richieste di Venezia non erano state mitigate dalla ambasciata solenne invano prospettante la necessità di “attendere all’impresa contra infideli”. Tolta una facilitazione nel pagamento delle spese, il cui ammontare restava fisso a 300 mila ducati, le altre clausole erano identiche a quelle presentate ai messi padovani o, se mai, anche più dure. Venezia poteva rimanere inflessibile:
l’alleanza austro-carrarese, improvvisamente conclusa, pareva destinata a naufragare (il 23 gennaio, cioè con ogni probabilità nel fervore della discussione per la pace, il duca Leopoldo come vedremo, scendeva con grossa schiera nel trevisano in favore di Venezia); in Ungheria era ancora abile messo alla corte regia, non privo di ascendente sui baroni, Pantaleone Barbo, e, in fondo, quantunque il 7 gennaio giunga a Padova un secondo scaglione di 1600 soldati ungheresi, per il re Ludovico non dovevano essere ancora eliminati tutti gli attriti e le resistenze a una aperta guerra con Venezia, se il suo legato era lì a trattare di pace.
Dall’altra parte Francesco da Carrara non poteva, sebbene “per lo doppio avia disavantaggio” (metà gente d’arme di Venezia, perdita della “miglior parte” del suo territorio [i punti nevralgici dei confini lagunari], mormorìo dei sudditi per le gravezze della guerra, scorrerie, razzie, pericoli, spostamenti), e perciò “da lui era inquerita la pacie” (e queste ragioni interne di Padova si sommano alla situazione internazionale di Venezia sopra accennata, per spiegare l’irrigidimento di quest’ultima), non poteva accettare allora condizioni così umilianti e pesanti. Il Consiglio Generale di Padova le rifiutò sdegnosamente, senza mandare risposta a Venezia; i baroni e i nobili ungheresi, che a Padova erano stati richiesti del loro parere da Francesco da Carrara, si fecero beffe di quei duri patti: prima morire che accettarli; e ad essi facevano eco i loro colleghi, conti e vescovi, d’Ungheria: neppure se fosse prigioniero dei Veneziani, Francesco da Carrara doveva accettare patti simili.
Anche più decisa fu Venezia di fronte a un altro tentativo, se così si può definire, di pace, che il re d’Ungheria fece ai primi di febbraio per mezzo del suo ambasciatore Giovanni Chus. Questa volta il mediatore di pace “non l’aveva potuto fare, perché la Signoria [Venezia] non aveva voluto nessuna pace”. Prima che fallimento delle trattative, rifiuto di esse. E Giovanni Chus partiva da Padova il 15 febbraio; ritornava in Ungheria “per fare al suo signore tal relacione”. Ogni speranza di pace cadeva. Anche l’Ungheria doveva muoversi a una guerra decisa?
b) L’arrivo dei primi aiuti ungheresi ripresenta a Padova e a Visigrado la necessità di stabilire chiari rapporti con i duchi d’Austria e col patriarca d’Aquileia. Bisogna assicurare il passo alle truppe ungheresi attraverso i territori di questi due paesi. Ma il problema si allarga. Dagli stessi territori le merci affluiscono a Venezia.
Chiudere i passi austriaci e friulani alle merci per Venezia, tenerli sicuramente aperti alle truppe per Padova, e, inoltre, se possibile, attrarre quei due confinanti con territori veneziani nella guerra contro Venezia positivamente mediante contributi militari: queste le tre finalità, comuni alle due coppie di rapporti diplomatici, che Francesco da Carrara e Ludovico d’Ungheria si propongono. E in parte attuano: col patriarca, senza eccessive difficoltà; coi duchi, attraverso laboriose trattative, rese anche più difficili da interessi veneziani di cui si ricerca la soddisfazione nella stessa direzione.
In dicembre 1372 la preghiera, da Francesco da Carrara più volte ripetuta, diventa finalmente anche consiglio del re d’Ungheria. Il principe padovano e il re ungherese sono ormai d’accordo sulla opportunità di farsi aderente il patriarca d’Aquileia. Però qualche ostacolo si oppone alla realizzazione del desiderio, chè il re d’Ungheria stima troppo gravose le due condizioni poste dal patriarca: pagamento di 24 mila fiorini d’oro, stanziamento nel Friuli di truppe ungheresi sufficienti a proteggere il patriarca stesso da ritorsioni veneziane.
Ciononostante Francesco da Carrara raccomanda nuovamente all’Ungheria l’alleanza con il patriarca; egli martella questo chiodo per le ragioni già accennate: il patriarca, se entra in guerra, può molestare il Trevisano e l’Istria, chiudere i passi a Venezia, far amichevole accoglienza e dare sicura ospitalità (il che del resto aveva finora fatto) alle truppe ungheresi.
La ferma insistenza carrarese ottiene l’intento. Il re d’Ungheria scrive al patriarca proponendogli l’alleanza quasi certamente sulla trama d’un capitolato discusso tra le parti, dal re prima rifiutato e ora accettato, se con o senza modificazioni non possiamo dire.
La risposta aquileiese (gennaio 1373) è di fatto la conclusione dell’alleanza. Il patriarca accetta questa “confederazione” col re d’Ungheria; solo prega che siano inviati messi oltre che a sé anche a tutta la Patria del Friuli, per persuadere i nobili e i non nobili di essa, i quali temono assai la potenza di Venezia e prevedono che, se il re non manda “un gran subsidio” (fa capolino di nuovo la condizione detta sopra), il peso e il pericolo della guerra cadranno su di loro. Ed è sua intenzione, avverte il patriarca, che la somma di denaro (saranno ancora 24 mila fiorini d’oro?) sia pagata non dal re, il quale pare abbia già compiuto il pagamento, ma da Francesco da Carrara, “di cui è principalmente questa guerra”.
Terzo punto: le milizie ungheresi saranno sempre benignamente accolte, quantunque la Patria del Friuli incorra così nello sdegno di Venezia.
Dopo questa lettera, più nessun accenno, dalle fonti a noi note, a questa alleanza ungaro-friulana a favore del Carrarese. Ma poiché questi non “martellò” più presso il re, abbiamo ragione di credere che l’alleanza sia stata anche formalmente conclusa.
Un confinante chiudeva i passi a Venezia, li teneva aperti ai nemici di essa. Faranno altrettanto i duchi d’Austria?
c) Ciascuno dei due belligeranti desidera l’alleanza coi duchi d’Austria e da metà dicembre 1372 a metà gennaio 1373 si sforza di guadagnarla. E’ un mese di schermaglia diplomatica, da cui Francesco da Carrara uscirà vincitore, ma a caro prezzo; e, di più, passeranno quasi altri due mesi, prima che, con l’intervento del re d’Ungheria, dalle relazioni austro- carraresi siano eliminate (e non del tutto) incrinature e ombre e si saldi un patto a tre tra Austria, Ungheria e Padova. Vediamo, se possibile, di mettere un po’ d’ordine nella intricata matassa.
Dopo l’arrivo degli Ungheresi Venezia manda ai duchi, dapprima il segretario Desiderio e poi Ludovico d’Armer; tra l’una e l’altra missione erano giunti a Venezia ambasciatori dei duchi portando proposte, che parvero irragionevoli.
Non sappiamo se fosse il primo o il secondo ambasciatore veneziano che facesse al duca Leopoldo grandi promesse di denaro; certo è il secondo, Ludovico d’Armer, che tratta un’alleanza veneto-austriaca su una base equilibrata: parità di spese, parità di conquiste; cessione ai duchi di Feltre e Cividale (di Belluno), se fossero state tolte a Francesco da Carrara. Le trattative non furono concluse, poiché i due duchi non si trovavano insieme (ma non ci sembra da escludere che ai duchi fossero già pervenute, tramite il re d’Ungheria, allettanti offerte carraresi.
E quando venne da Venezia istruzione di trattare la lega col duca Leopoldo, ch’era a Bolzano, salva per la validità ratifica del duca Alberto, ch’era a Vienna, pare fosse troppo tardi: il sagacissimo (l’aggettivo è del Caroldo) Francesco da Carrara aveva prevenuto, con rapida decisione, Venezia.
Francesco da Carrara è costretto a cedere Feltre e Belluno, per farsi alleati i duchi.
Un’alleanza veneto-austriaca, per cui contingenti austriaci scendessero contro Padova per la Valsugana e per il Trevisano, può rinnovare, con più grave pericolo, il piano di Ranieri de’ Guaschi, proprio quando sul settore lagunare i nemici sono decisi e attivi, né sembrano disposti a discutere patti di pace.
E a parte il diretto aiuto militare a Venezia, i duchi d’Austria possono sbarrare il passo alle truppe ungheresi, che Francesco da Carrara invoca sempre con insistenza. Il primo scaglione di soldati ungheresi ha già esperimentato come l’ostruzionismo austriaco sia causa di difficoltà e di ritardi.
Né il re d’Ungheria attua il suo energico proposito manifestato forse in un momento di concitazione, di aprire con la forza la via ai suoi soldati: un calcolo più calmo deve aver dimostrato che urtare o scontrare i duchi d’Austria non è prudente né utile (e il peso d’una azione militare cadrebbe sul re d’Ungheria), quando la via può essere sgombrata da trattative diplomatiche (di cui, si noti, sconterà il caro prezzo Francesco da Carrara).
Per questo complesso di ragioni appena il re d’Ungheria ordinò a Francesco da Carrara la cessione di Belluno, Francesco da Carrara ubbidì subito e inviò ai duchi d’Austria i suoi ambasciatori, che il 16 gennaio conclusero l’alleanza in questi termini essenziali: Francesco da Carrara cede Belluno e Feltre; i duchi d’Austria si obbligano di chiudere i passi ai mercanti da e per Venezia e di lasciare libero transito ai sudditi carraresi e agli armati di qualsiasi nazione che vengano a Padova.
Ma appena una settimana dopo, i duchi d’Austria con improvviso cambiamento da alleati diventano nemici di Padova: il 23 gennaio il duca Leopoldo è a Montello con 1200 soldati a favore di Venezia; beffato, vuole beffare (sono parole che gli fa dire il cronista padovano).
Che cosa era avvenuto? Francesco da Carrara aveva rinviato l’effettiva cessione di Feltre e Belluno e forse i duchi la chiusura dei passi. Se quella inadempienza fosse la causa di questa o viceversa, se quindi la responsabilità fosse carrarese o austriaca, è impossibile dire; come è impossibile dire da quali cause nascesse la prima inadempienza (forse, se padovana, si può pensare all’eccessivo costo dell’alleanza; se austriaca, ma in forma meno persuasiva, a fomentazione della diplomazia veneziana). Certo è che corse voce di rottura completa tra i due nuovi alleati.
Ma la pronta ed energica azione e reazione militare del duca Leopoldo, che attuava quella minaccia, per scongiurare la quale Francesco da Carrara aveva ceduto di diritto, Feltre e Belluno; d’altra parte la rigidità di Venezia, che faceva crollare la speranza d’una onorevole composizione pacifica, convinsero Francesco da Carrara a rinunciare ad ogni velleità di resistenza (se mai a lui per primo fosse da attribuirsi) e ad ogni tentennamento o pentimento e a cedere davvero le due città, di cui infatti i duchi entrarono in possesso prima della metà di febbraio.
La cessione di Feltre e Belluno procurò (10 febbraio) a Francesco da Carrara il rimprovero ungherese di eccessiva fretta, poiché il re Ludovico voleva impegnare i duchi in un’alleanza antiveneziana, di cui anche l’Ungheria fosse parte. Francesco da Carrara, poi, pregava il re di far sì che i duchi d’Austria dessero a lui Francesco da Carrara le loro lettere patenti di “osservare quello che hanno profferto al dicto Signore”: dopo gli incidenti seguiti ai patti del 16 gennaio era logico che Francesco da Carrara, il quale aveva rinnovato e di fatto compiuto la cessione, richiedesse una rinnovazione o ratifica di quei patti.
Il desiderio del re ungherese e la richiesta del signore padovano formarono l’oggetto d’un’ambasciata ungaro-padovana, composta da un segretario regio e da Michele da Rabbata e diretta al duca Alberto. Con questa missione e, forse, con un’altra, ungherese ai duchi e una dei duchi al re si raggiungeva il duplice scopo, sancito in un unico documento, della conferma (implicita) dei patti austro-carraresi e dell’alleanza antiveneziana austro-ungaro-carrarese.
Infatti con le lettere patenti del 9 marzo 1373 (ma l’accordo è già fatto compiuto il 26 febbraio); i contraenti si obbligano di chiudere tutti i loro passi e strade ai Veneziani e loro sudditi (in particolare il re d’Ungheria interdirà la strada e il transito di Zara e di Segna), di non fare pace o tregua separata con Venezia, infine (e qui giova riferire il testo letteralmente, poiché sembra adombrare un tacito obbligo o almeno una possibilità austriaca di diretta opposizione militare a Venezia): “ciascun di noi andando contro i detti Veneziani, loro sudditi e aderenti possa e debba liberamente senza impaccio andare e ritornare per i passi e distretti l’uno dell’altro”.
Francesco da Carrara per la sua pronta, quantunque non ferma, cessione di Feltre e Belluno aveva staccato i duchi da Venezia: il re Ludovico li aveva più sicuramente attirati nel cerchio antiveneziano.
Eppure qualche cosa di insoluto restò ancora tra Austria e Padova. Non sono questioni, in certo senso di dettaglio, che possono procurare dispareri e dissapori, se non veri contrasti (come l’assegnazione delle conquiste nel Trevisano; la riscossione del denaro dovuto a Francesco da Carrara nelle terre passate ai duchi). E’ una clausola fondamentale dei patti, contenente il maggior contributo dei duchi alla lotta contro Venezia, che fu da essi attuata lentamente e male: la chiusura dei passi ai Veneziani.
d) Ciò che si richiedeva ai recenti alleati del Carrarese, patriarca e duchi, bisognava che attuasse il più antico e forte, il re d’Ungheria. Finora questi aveva contribuito alla guerra inviando con ritardo di due mesi sull’inizio delle ostilità un primo scaglione di soldati, cui seguì un secondo a distanza di un mese (7 gennaio). Niente di più: non la chiusura dei passi, non una posizione nettamente ostile a Venezia.
Forse il re Ludovico sperava un componimento pacifico della discordia: abbiamo già segnalato i suoi interventi in questo senso, e alla corte regia restava il messo diplomatico di Venezia, Pantaleone Barbo (il quale aveva tratto dal retto sentiero, dice il padovano Michele da Rabbata, la maggior parte dei baroni). Forse lo tratteneva ancora il timore di complicazioni internazionali: quale, per esempio, l’atteggiamento dei duchi d’Austria?
Fatto sta che solo alla distanza di altri due mesi dall’arrivo delle prime truppe troviamo il re d’Ungheria veramente deciso a incondizionato intervento. Ma erano stati due mesi fecondi di opposti avvenimenti determinanti allo stesso fine: fortunata, costante pressione militare di Venezia sul confine lagunare; isolamento internazionale di Venezia o, per lo meno, mancata alleanza veneto-austriaca.
Quella invocava un intervento pieno, questa ne toglieva il motivo (o uno dei motivi) di sospensione. Si spiega così, credo, un fervore nuovo, un generoso impegnarsi alla guerra e un conseguente irrigidimento antiveneziano, che caratterizza l’atteggiamento del re ungherese nel mese di febbraio.
Riuniamo in breve silloge cronologica i provvedimenti ungheresi a noi noti. Il 7 febbraio lettera patente:
“Contra…Ducem Venetorum et Comune Venecie nostre emulos magiestatis et perversores iusticie…tam per mare quam per terram…belicosa nostre potencie vexilla ad flagielandum iamdum inveteratam superbiam destinare proponimus, ipsos et ipsorum confinia et quelibet bona et res tamquam inimicorum iusticie et nostrorum cum ingenti exercitu ostiliter invadentes”.
Perciò piena libertà e libera potestà a tutti di danneggiare i Veneziani e di appropriarsi i beni ad essi sottratti; libero accesso ai porti della Dalmazia, libero sbarco in terraferma per rifornimenti a quanti intendono opporsi a Venezia. Ciò il 7 febbraio, cioè il giorno dopo la definitiva cessione carrarese di Feltre e Belluno ai duchi d’Austria. Il 9 febbraio troveremo in una lettera di Michele Da Rabbata conferma di questa volontà bellicosa:
“Il re vole che tutte le soe vie e strade così da mare como da terra sia serade a quilli da Venezia. Et ch’el sia dado libero intrar e insir dai soi porti a cascun che vorà o vole inquietar quilli da Venezia. Et che i suoii subditi in ogni luogo i debbia offender et haver per nemisi”.
E, già in via di attuazione, non solo invito scritto a Filippo di Taranto “ch’ello voia nemigar quilli da Venezia et serrar ie i soi porti; et no me dubito (riferisce Michele Da Rabbata) ch’el dicto principo farà così, perché ello se ha offerto de far così”; ma anche ordine, non sappiamo per una lacuna del testo a chi dato, di insultare l’Istria (ordine che rimase però inattuato).
La stessa lettera (9 febbraio) informa che l’ambasciatore veneziano presso la corte ungherese, Pantaleone Barbo, è stato licenziato dal re. E la preghiera del doge (26 febbraio) il quale domandava al re il permesso che Pantaleone Barbo potesse “seguramente retornar al conspecto dela prefata maiestà per referir a quella la nostra resposta et intention”, è immediatamente (26 febbraio stesso) e duramente respinta:
“No esser da mo’ inanci necessaria la vignuda de Pantalon Barbo ala nostra presentia, che, per la tardità de la resposta per vui et per lui a nui non facta, nui al presente no semo del quel animo et proposto, che nui eramo al tempo, che nui spectevam e che ne era promessa la vostra resposta. Né ancora possemo esser de quella intention per la union, la qual nui havemo facta con li dusi de Ostoricho et col signor messier Francesco da Carrara contra vui e ‘l vostro comun”.
Evidente la virata; e chiara la ragione di essa: l’alleanza coi duchi d’Austria; questa soprattutto, anzi esclusivamente (almeno rispetto a quella col Carrarese, pure addotta dal re come motivo di aperta ostilità): l’alleanza con Francesco da Carrara non è fatto nuovo, ma a togliere le remore alla sua efficacia (giova ripetere) interviene un fatto nuovo, l’alleanza coi duchi d’Austria.
Contemporanee alle decisioni antiveneziane sono, logicamente, le concessioni e le promesse a Francesco da Carrara. I soldati ungheresi (quelli del dicembre e del gennaio) rimarranno a Padova, finchè ne giungeranno altri, in maggior numero; l’attesa dovuta a difficoltà stagionale (siamo al 9 febbraio) non importa, vale la decisione.
“Et si ve le (le genti) haverave mandade al presente, se elle possesse trovar le cosse che ie fosse necessarie per i cavalli”. E il re stesso con lettera del 10 febbraio promette per la prossima primavera “tanta possanca de nostra gente et in tanta copia che ella con l’alturio de Messer Domenedio porà tegnir campo contra i nostri et vostri nemisi”.
Altra lettera del re (non datata, ma quasi certamente del febbraio) invita Francesco da Carrara ad anticipare venticinquemila fiorini d’oro ai capi delle truppe ungheresi, che erano nel padovano: all’inizio della primavera l’anticipo sarà rimborsato, e allora verranno altre genti.
Lasciamo il mese di febbraio (ma ci sembrò utile insistere sui provvedimenti di quel mese, che vide contemporaneamente il nuovo orientamento ungherese e quello austriaco), ed ecco quasi a coronamento delle misure antiveneziane la dichiarazione di ostilità del re Ludovico contenuta in una lettera aperta data a Visigrado il 26 marzo:
“A notizia de tutti e singuli Nostri per le presente letere femo asaver el Duse, el comun de Venesia, tutti soi aderenti, colligadi et favorevoli et soi subditi esser nostri publichi nemisi. Et percò intentamente Nui pregemo vui tutti e singuli e con fidanca ve rechiremo che vui no daga conseio sobsidio o favor de alguna subvention ai predicti da Venesia né ad alcuna soa gente soi adherenti…Et per simele da mo inanci volemo haver per Nostri publici nemisi tutti quilli, i quali darà sbsidio, conseio o favore o che secorerà quilli da Venesia in facto di victuaria. Et contra i predicti così facti si proponemo de far insulto in havere et in persone et damnificarli come nostri mortali nemisi”.
Francesco da Carrara poteva essere soddisfatto: l’Ungheria era decisa. Ma a che servirono sì buone disposizioni?
15. Difficoltà e provvedimenti veneziani; la vittoria di Padova presso Lova (14 maggio 1373)
L’alleanza austro-ungaro-carrarese, la dichiarazione di guerra dell’Ungheria, qualche incrinatura nella disciplina del proprio esercito non potevano non preoccupare vivamente i Veneziani. E pare che ci sia stato anche un arresto dell’attività militare durante i mesi di marzo e aprile.
Ma, più che crisi, fu turbamento presto superato. Un complesso di provvedimenti presi da Venezia dimostra la sua capacità di resistenza e di recupero. Il 3 marzo sono stipendiate 500 lance e altre 300, di cui è capo Corrado Pitinger, il 17 marzo. Un prestito al 3% è deciso per i bisogni della guerra il 5 marzo e un secondo allo stesso tasso il 21 aprile.
Notevole la cura e tempestività nella elezione ci collegi speciali, deliberanti o esecutivi. Cinque savi della guerra e altri cinque per eseguire le deliberazioni del Consiglio di Pregadi, condurre capitani, assoldare milizie, esaminare le questioni sorgenti tra i soldati, furono eletti il 17 marzo. E, illuminato dalla recente triste esperienza, il Maggior Consiglio elesse, nella seconda metà di marzo, governatori dell’esercito Piero dalla Fontana e Lunardo Dandolo e ne definì i compiti in armonia con quelli del capitano generale: i governatori dovevano “ricordare et consultare et esortare il capitano a far “quelle cose, che a loro paressero di honore dello Stato Veneto” e ad essi il capitano generale doveva comunicare le imprese, ma la libertà di ordinare, disporre ed eseguire era data al capitano generale.
E poco più di 20 giorni dopo fu compilata una lista di 100 nobili “sufficienti” dai 25 ai 50 anni, dei quali si estraeva a sorte un certo numero corrispondente volta per volta alle necessità e a ciascuno dei prescelti era deputata quantità conveniente di balestrieri.
Ancora in aprile ordine al capitano del Golfo, Piero Mocenigo, di vigilare con sollecitudine, presi accordi col console di Puglia, per catturare i molti navigli di Francesco da Carrara, ch’erano andati in Puglia a caricare grassi.
Infine, a colmare il vuoto increscioso lasciato da Ranieri de’ Guaschi, la nomina del nuovo capitano generale Gilberto da Correggio, il quale, eletto il 3 marzo giunse a Venezia soltanto il 20 aprile e, assunto il comando dell’esercito nella festa di S.Marco, si portò a Lova all’inizio di maggio.
Ma non tutte le difficoltà potevano essere vinte, com’è naturale, specie quelle che direttamente o meno rimontavano alla situazione internazionale. La chiusura dei passi (quella problematica dei duchi d’Austria, quella vigile dell’Ungheria) doveva far sentire i suoi effetti, sia pure mitigati dal non mai perduto dominio e controllo della via marittima, se il 30 aprile per mancanza di vettovagliamento non solo furono abbattute le bastite di Castelfranco e di Noale, ma anche esclusi dalle fortezze della città e distretto di Treviso quanti non fossero forniti di “vituaria” per un anno.
Dall’altra parte Padova forte più che dell’alleanza austriaca, della ostilità veneto-ungherese entrata nella fase di effettivo scontro guerreggiato, sostituito nella capitaneria generale a Simon Lovo Riccardo Sambonifacio, ricevuti i freschi rinforzi ungheresi guidate parte dall’eminente personalità del voivoda Stefano, parte dal vescovo di Strigonia, che avvicendavano Benedetto Ongaro e i suoi soldati, pareva che fosse nelle condizioni adatte per disvincolarsi dalla posizione di inferiorità e passare dalla difesa, che almeno nel punto nevralgico del fronte abbiamo segnalato essere stato finora l’atteggiamento costante, all’offesa.
E ci sono fatti che possono confortare questa presunzione. Nella settimana dell’ulivo, cioè dal 10 al 17 aprile, Francesco da Carrara fa costruire la bastita di Serraporci vicino a Campagna, ed è “fossa longa ben II mia, la qual fossa comencava dal Fiumesello et rivava fina l’aqua salsa”; e successivamente (pur omettendo la costruzione, quasi contemporanea alla precedente, d’una bastita “grandissima” a Lova) quella di Boion con fossa lunga un miglio e una terza chiamata Cavalieri.
Dalle fortezze all’azione militare. A metà maggio finalmente le armi ungaro-carraresi sono coronate da una grande vittoria ottenuta nei pressi di Lova, dove i Veneziani avevano fatto cominciare una fossa, che, partendo dalla loro bastita grande, volevano mettesse capo alla fossa tra le bastite padovane di Cavalieri e di Serraporci “et lì far soi incegni et ponti per posser vignir (il solito obbiettivo perseguito con fermezza) al terren fermo verso el Pievado”.
Lì su una striscia di terraferma, posta tra un campo e l’altro, alla quale erano venuti i Veneziani, la battaglia, descritta dalle fonti padovane con compiaciuta dovizia di particolari. E lì la vittoria imponente: più di 300 Veneziani nobili e popolani caddero “a gladio et con i predicti molti di soi pedoni et homini d’arme”; e alcune centinaia di prigionieri, dei quali le fonti portano lunghi elenchi nominativi.
Ma (e questo soprattutto vogliamo sottolineare) quale il peso di così splendida vittoria sul corso generale della guerra? Può segnare il felice inizio d’una riscossa padovana o è episodio isolato?
Tagliate le frange dei cronisti (immensità della strage, costernazione di Venezia ecc. ecc.), ricostituite le linee e le misure vere, la vittoria di Lova non sposta niente: nella causa, si riconnette anch’essa a un altro tentativo di avanzata veneziana in terraferma e non a fervore di inziativa bellica ungaro-padovana; negli effetti, se prescindiamo dalle perdite veneziane (sanabilissime) in uomini, nessuna riconquista di posizioni invase: soltanto contenuto un avanzamento, che poteva risolversi, data la complessità dei preparativi e dei mezzi, in uno sfondamento definitvo dei Veneziani. Questo solo, tant’è vero che Francesco da Carrara circa tre settimane dopo questa decantata vittoria, quando nessun fatto nuovo determinante era sopravvenuto, confessò la necessità di chiedere la pace.
16. Un tentativo di pace e le condizioni dei belligeranti
In un’ambasciata riferita da Michele da Rabbata al re d’Ungheria nell’ultima decade di maggio o nella prima di giugno c’è un punto che rivela la gravità della situazione padovana. “Francesco da Carrara (ed è egli stesso che parla per bocca del suo ambasciatore) non può durare senza pace, perché non può disporre le genti come egli vorrebbe ed anche sarebbe necessario, ed ha tre eserciti sul suo territorio: quello dei Veneziani, quello del re ed il suo”.
Insufficenza di milizie e insieme, senza contraddizione, le gravezze e i danni di tre eserciti stanziati nel padovano: sono i due punti deboli, militare ed economico, della signoria carrarese. Che le milizie fossero insufficienti ad una azione positiva effettivamente utile, liberatrice, risulta dalla stessa ambasciata qui sopra citata, nella quale si dice: “non volendo il re la pace, sarebbe necessario che Francesco da Carrara avesse tanta gente ch’egli potesse tener campo sul terreno dei nemici, affinchè potesse salvare il padovano”.
In realtà Francesco da Carrara (non che contare su operazioni militari degli alleati attaccanti Venezia in punti diversi dal fronte principale) aveva avuto in complesso da essi alleati scarsi contributi di milizie ausiliarie. Dai duchi d’Austria e dalla Patria del Friuli nulla, o, più esattamente, manca memoria o traccia di soldati austriaci e friulani combattenti a fianco dei padovani.
L’arcivescovo di Ravenna Pileo da Prata mandò in gennaio temporaneamente per tre mesi e più a titolo di favore personale (era cugino di Francesco da Carrara) che in adempimento di obbligazione di alleato quattro bandiere di fanti. Il contributo più valido era quello proveniente dall’Ungheria. Del quale, a voler raccogliere breve bilancio comprendente tutti gli invii che precedettero e seguirono la battaglia di Buonconforto (di cui subito ci occuperemo), possiamo fissare questi dati: l’”infinita comitiva” del voivoda Stefano era integrata una settimana dopo dai 2500 Ungheresi del vescovo di Strigonia e tre settimane dopo dai 500 soldati di Piero Ongaro e dalla compagnia, non sappiamo quanto numerosa di un cavaliere Lancelotto; in luglio, dopo la sconfitta di Buonconforto, giungerà un’altra compagnia, della cui entità numerica possiamo dubitare, se Francesco da Carrara propose che, per farla apparire più copiosa, andassero incontro ad essa, gli Ungheresi già di stanza al campo lagunare; e trascuriamo le ultime truppe condotte in settembre da Niccolò e Giovanni Ongaro, da Pietro Zudar e Benedetto Bano, poiché queste non soccorsero Francesco da Carrara altro che di “piacevole parole”: giunte durante le ultime trattative di pace, poterono contribuire soltanto ad affrettarne la conclusione.
Era dunque notevole l’apporto militare dell’Ungheria. Ma sempre inferiore al bisogno, come dimostrano le continue richieste di Francesco da Carrara.
L’altra falla della resistenza carrarese era di natura economica e risaliva alla permanenza dei tre eserciti sul territorio padovano. Inutile dire delle distruzioni e dei danni prodotti dall’esercito nemico sia per la saldo occupazione del bordo lagunare sia per le razzie e scorrerie, di cui qualcuna arditamente puntata e prolungata, nel territorio padovano. Qui ci interessa il comportamento degli Ungheresi verso gli alleati padovani.
Gli atti ufficiali sono generosi di riconoscimenti e di lodi; ed è comprensibilissimo in quella sede il tono encomiastico, anche se fosse disinteressato. Ma voci modeste e sicure, sebbene un po’ irritate, denunciano l’egoismo rapace dei soldati ungheresi.
E conosciamo come il passaggio di essi soldati dal loro quartiere di Cittadella alla Saccisica comportasse il trasferimento della popolazione civile, che per giunta pativa danni. Infine, e sono gravezze più dirette, non solo denaro anticipato da Francesco Carrara agli alleati e non sempre prontamente rifuso, mentre il fisco si esauriva, ma anche il vettovagliamento per i due eserciti, del quale si pativa penuria.
Questa critica situazione induceva Francesco da Carrara a comunicare al re d’Ungheria l’accennata necessità di pace. E il re Ludovico, risoluto a continuare la guerra per l’estate e l’inverno e procedere a “maor cose”, pur a costo di dover impegnare uno dei suoi regni e di assoldare tutta l’armata genovese, non intende fare una pace vituperevole, ma manda a Padova Federico de Mathelor per informare Francesco da Carrara sui passi fatti presso di lui dal frate minore Alvise, veneziano, per la pace.
Quali le ragioni del desiderio veneziano di pace? Era conseguenza della sconfitta di Lova? Può anche darsi. Ma se ci fu una incrinatura nella fermezza di Venezia, fu saldata prontamente. Emessso un nuovo prestito al 3% il 9 giugno, assoldati 5 mila Turchi il 25 giugno, nello stesso mese furono inviate alle bastite tre personalità politiche con l’ordine di esortare il capitano generale “a non perdere tempo, ma ponersi in ordine per cavalcare et passare sopra il territorio degli inimici”. Siamo alla vigilia di Buonconforto.
La coincidenza dei desideri di pace dei belligeranti fu dunque solo esterna, poiché derivava da situazioni ben diverse. Padova copriva dignitosamente la dura necessità di arrivare alla pace col lustro sempre più pallido della non lontana vittoria di Lova: Venezia superava le conseguenze non gravi di questa nella consapevolezza della propria superiorità con provvedimenti che l’avviano rapidamente alla vittoria.
La quale vittoria ottenuta, come vedremo, dai Venziani a Buonconforto (1 luglio) aggravava la situazione dello sconfitto, costretto ad arrendevolezza quasi completa, e irrigidiva il vincitore. Fu perciò che le trattative di pace, aperte tra Padova e Venezia (che si serviva dell’opera del frate Alvise) alla fine di giugno e proseguite fino alla seconda decade di luglio, non riuscirono ad alcun effetto, proprio quando pareva che fossero state rimosse le tre principali difficoltà preliminari. Francesco da Carrara in una lettera (di cui non conosciamo la data, ma che si riferisce al troncamento della discussione) indirizzata a frate Alvise esprime la sua amara sorpresa: “mi pare, del che io mi meraviglio, che quanto più io mi accosto ai vostri ordini, tanto più sono lontano e mi trovo più remoto”.
Sicchè è spontanea la constatazione: “m’accorgo che quella Signoria non vuole che io usi con essa del beneficio della pace oppure non crede che il mio animo sia buono”.
17. Francesco da Carrara tra sconfitte e congiure
A schiantare la resistenza carrarese sopravvennero, dal 1° luglio al 30 agosto, rovesci, militari e non militari, che, acuendone la già critica situazione, costrinsero Francesco da Carrara all’accettazione di una pace assai onerosa.
Anzitutto la sconfitta di Buonconforto. Fosse già compiuta o in via di costruzione questa nuova bastita, che era sul tratto posto tra la bastita grande dei Veneziani e quella padovana di Rosinvalle, Francesco da Carrara ritenne necessario diruparla “aciò che (si noti ancora una volta la finalità difensiva dell’attacco padovano) più ‘nanzo [i Veneziani] non potesono venire”.
Il 1° luglio lo scontro e la sconfitta padovana. Sullo stretto argine di una ignota palude veneta si trovarono di fronte, portativi gli uni dai contratti di mercede con Venezia, gli altri dei patti di alleanza con Padova, Ungheresi e Turchi. I primi non sostennero il numeroso e fitto frecciare dei secondi e fuggendo travolsero nell’angusta strada anche le velleità carraresi di resistenza.
Nel disordine della fuga, grande copia di morti e di prigionieri; dei quali ultimi basterà ricordare, per le conseguenze che subito diremo, il vovivoda Stefano con quattordici nobili ungheresi, e, tra i padovani, i due Lovo: Bonifacio e Antonio, e Rizzardo Sambonifacio.
Francesco da Carrara perdeva dunque non solo il proprio capitano generale, ma anche, e soprattutto, il capo delle truppe ungheresi, la cui alta dignità e legami di parentela e amicizia stringevano alla feudalità ungherese. E le conseguenze militari e politico-diplomatiche furono assai gravi.
L’esercito ungherese si sfasciava e i soldati ritornavano arbitrariamente di giorno in giorno alle loro terre, sicchè Francesco da Carrara prevedeva di trovarsi in breve senza alcuna gente del re.
Né a questo sfaldamento è paragonabile, in campo veneziano, l’ammutinamento di un gruppo di mercenari, trecento dei quali, capeggiati da Ludovico di Exen, indispettito per il mancato onore del capitaniato veneziano o corrotto dall’oro carrarese, passarono dopo la battaglia di Buonconforto dalla parte del nemico: lo sfaldamento ungherese investiva tutta la compagine militare, l’ammutinamento e tradimento nelle file veneziane era una falla circoscritta e individuata negli elementi genetici.
Un’altra conseguenza della sconfitta, cui accennano solo le fonti veneziane, era anche più grave. I baroni d’Ungheria, avuta la notizia della cattura del vovivoda Stefano, si presentarono insieme al re “esclamando et quasi protestandole che sel signor di Padova non si pacificasse con la signoria di Venetia et ottenesse la liberatione del Vaivoda sarebbero contenti prendere l’arme et far la guerra al signor di Padova in favore della Signoria per ottener da lei il Vaivoda”.
Costretto dalla grave minaccia, il re scrisse a Francesco da Carrara avvertendolo che era necessario far pace per ottenere la liberazione, quovis modo dice il Redusio, del voivoda; lettere dello stesso tenore arrivarono a Padova dai baroni ungheresi. Non basta. Il re Ludovico scrisse anche “in caldissima forma” al pontefice, il quale era pertanto spinto da altro stimolo, oltre che dalla necessità di abbassare la potenza viscontea, a svolgere con maggiore alacrità l’opera pacificatrice tra Venezia e Padova, del resto assiduamente sperimentata, in armonia all’ufficio pastorale, durante tutto il contrasto fra le due città.
La sconfitta di Buonconforto, anche se i Veneziani non poterono portarla immediatamente ai completi e più felici sviluppi, fu, dunque, un colpo grave alla signoria carrarese; tanto che, sommandosi gli effetti di essa alla presistente crisi e a quella posteriore decisiva del tradimento famigliare, Francesco da Carrara non si riebbe più.
Né potè correggere questo declinare un duplice successo delle armi carraresi, per cui sullo scorcio del mese di luglio fu impedito il compimento di una nuova bastita veneziana, detta Rosavalle, e fu occupata la bastita di Medicina. Sono vittorie assai limitate; e, comunque, la prima non riuscì altro che a ritardare un ulteriore passo dei nemici nella conquista della terraferma; della seconda svanisce il valore indicativo di una qualsiasi ripresa militare di Padova, se si considera che Medicina fu presa per lo spionaggio dell’apparente disertore veneziano Marco Engelese, il quale avvertì Francesco da Carrara che la bastita era sguarnita di forze e munizioni.
E se anche la vittoria di Medicina poteva aprire uno spiraglio di speranza nell’acuta situazione carrarese, proprio in quel giorno 31 luglio dietro il fronte, in Padova, si teneva l’ultimo decisivo convegno dei congiurati stretti intorno a Marsilio da Carrara.
Il quale, presi accordi con i Veneziani, ancora mentre era in campagna di Roma, ritornò nell’aprile del 1373 a Padova e, recatosi al fronte, si comportò generosamente in alcuni fatti d’arme (Lova, Buonconforto) e, a bella posta, trasse dalla parte del fratello gente, che militava nelle bastite veneziane: valore militare e abile tratto coprivano astutamente la trama. Marsilio aveva profferto al doge di impadronirsi di Padova e di essere perpetuamente amico della signoria veneziana; a sua volta il doge aveva promesso di tenre sotto la sua protezione Marsilio e la sua signoria e di corrispondergli, se l’impresa tentata non fosse riuscita, la somma annuale di 12 mila ducati d’oro tratti dal fisco comunale.
Se a questi termini un tantino generici, che trovi nella lettera ducale del 23 giugno, vogliamo dare un senso preciso, allora: la conquista del potere dovrà attuarsi attraverso la eliminazione, per assassinio o per cattura, degli attuali titolari di esso, Francesco il vecchio e Francesco il giovane, o, secondo il Caroldo, per una meno truce azione militare combinata contro Padova da est e da ovest; la perpetua amicizia del novello signore con Venezia significa, fuori dell’eufemismo, accettazione di gravissimi sacrifici, quasi la definizione dei confini a piacimento di Venezia; cessione di Bassano e suo territorio e della torre di Curame; distruzione delle fortezze di Bovolenta, Oriago, Castelcaro; pagamento di onerose riparazioni, ecc.
Durissime condizioni (a parte il delitto), che asservono Marsilio a Venezia; e spiegabili solo con la facile moralità di un cronista carrarese che dice: “Sì dolce cosa è il signoreggiare, che quasi Marsilio può essere scusato!”.
Riunitisi dunque il 31 luglio i congiurati, ed erano, oltre a Marsilio, Zaccaria Fredo, Pietropaolo Crivelli, Niccolò Pregalea, Musaragno di Giovanni, Marco Engelese da Orvieto, dovevano aver deciso il piano d’azione da attuare, secondo le promesse, entro agosto; ma il giorno seguente furono scoperti, poiché il messo, incaricato di portare a Verona un breve di Zaccaria Fredo, che doveva essere inoltrato a Venezia, lo recapitò invece a Francesco da Carrara.
Svelata la congiura, Marsilio uscì subito dalla città, andò a Camponogara e di là, dopo due giorni, ad Anguillara e, passato l’Adige, si rifugiò a Venezia il 4 agosto. E quantunque contro i congiurati catturati si procedesse con la solita severità, altra analoga congiura, poco dopo mise radici anche tra altri famigliari di Francesco il Vecchio. A reggerne le fila da sicuro asilo, raggiunto per innegabile (credo) mitezza del fratello, provvedeva Marsilio.
Non vogliamo lasciar questo breve esame delle sventure carraresi nel bimestre luglio-agosto 1373, senza accennare ad una altra sconfitta. Per tagliare i rifornimenti di vettovagliamento, che da Venezia giungevano ai soldati della bastita di Lova, Francesco da Carrara aveva cominciato una bastita oltre Lova; ma l’opera non fu compiuta per l’improvviso e forte assalto dei Veneziani (“tutta la città si messe in armi”) che il 30 agosto respinsero gli operai e i soldati carraresi e ne distrussero l’iniziata fabbrica.
18. Il trattato di pace (21 settembre 1373)
Dalle condizioni della signoria carrarese esposte nei due paragrafi precedenti derivano i motivi, che costrinsero Francesco da Carrara alla pace. Li presentiamo in breve riepilogo:
1) incapacità di sostenere le grandi spese per difetto di denaro, ch’era aggravato dal differito rimborso ungherese degli anticipi fatti alle milizie stanziate nel padovano; e anche difetto di vettovagliamento;
2) insufficienza e indugi dei soccorsi militari;
3) paura della congiura e del tradimento;
4) paura della superiorità e potenza dei Veneziani, che respingere dal territorio padovano era ormai impresa disperata;
5) protesta dei baroni ungheresi e minacciata sollevazione, se non fosse stato liberato il voivoda Stefano.
Prostrato da questa complessa situazione, Francesco da Carrara il 4 agosto scrive al doge chiedendo la pace. Latore della richiesta è il minorita Tommaso Querini, patriarca di Grado, che Gregorio XI aveva sollecitato a ricondurre la pace tra Venezia e Padova. Era in breve giro di tempo il terzo tentativo di pacificazione, fatto da ecclesiastici; e fu quello definitivo. Non che ora tutto fosse semplice e liscio; anche questa discussione fu lunga e affaticante, tra proposte e controproposte delle parti. Ma finalmente la pace fu firmata il 21 settembre 1373. Francesco da Carrara, sconfitto, accetta necessariamente questi capitoli:
Riconoscimento della propria colpa. Francesco da Carrara o il figlio Francesco Novello deve recarsi ad presentiam ducalis Dominij a rendere omaggio e a domandar perdono delle offese ed ingiurie recate alla signoria.
Determinazione dei confini: Una commissione composta da 3 a 5 nobili tutti veneziani definirà tutte le questioni di confine con pieno arbitrio, come sembrerà ai membri o alla maggior parte di essi, nel termine, rinnovabile, di tre mesi. Non potranno questi arbitri includere nel confine veneziano i seguenti luoghi: la torre di Solagna, Cittadella, Camposampiero né alcun terreno oltre questi luoghi verso il Brenta; Stiano, Mirano, la bastita di S.Maria di Lugo, Castelcaro né alcun luogo oltre questi verso Padova; la bastita di Borgoforte e il terreno verso Anguillara. Potranno invece, includere il territorio verso Venezia fino alle palate di Oriago.
Riparazioni. Francesco da Carrara pagherà a Venezia 250 mila ducati d’oro, di cui 40 mila subito, il resto in 15 rate annuali di 14 mila ducati; e “per premio di ditti denary” offrirà alla Chiesa di S.Marco per 15 anni ducati 300 all’anno, che saranno spesi dalla Procuratia per adornare la chiesa.
Sorte delle fortezze. La torre del Curame rimane a Venezia, e a Francesco da Carrara è vietato edificare fortificazioni presso quella per uno spazio di 7 miglia. Devono essere abbattuti: Castello d’Oriago e di Portonovo (e ivi non si potrà più fare alcuna fortificazione), Castelcaro e le nuove bastite di Bassano, Cittadella, Camposampiero, Stiano, Mazzacavallo, Mirano, Gambarare col ponte che passa sopra S.Ilario; delle bastite veneziane quella di Solagna, Castelfranco, Noale e Lova. Si ponve inoltre il divieto di drizzare fortificazioni da Bovolonta in giù verso le acque salse lungo il fiume su ambedue le rive per un raggio di due miglia.
Punti strategici del trevisano. Se i Carraresi riacquisteranno Feltre e Cividale, devono restituire e assegnare a Venezia la Casamatta, la torre di S.Boldo, la chiusa di Quero.
Reintegro di vecchi patti e patto del sale. L’una e l’altra parte osservi quei patti che vigevano al tempo di Giacomo da Carrara, padre di Francesco. Rimanga fermo il patto del sale con le condizioni con le quali Francesco da Carrara lo aveva prima per grazia speciale.
Relazioni internazionali. Venezia aveva vivo interesse a ristabilire buoni rapporti con due potenti stati (di cui uno confinante coi suoi territori): ducato d’Austria e regno d’Ungheria, entrambi alleati di Padova. Francesco da Carrara promette che procurerà di restaurare la pace tra il re Ludovico e Venezia. Quanto ai duchi d’Austria con pubblico strumento redatto separatamente (ma nello stesso giorno) da quello dei capitoli di pace, Francesco da Carrara promette di far sì che i duchi d’Austria ritornino in pace con Venezia e restituiscano la chiusa di Quero; e se ciò non potesse conseguire, permanendo la guerra tra i Veneziani i i duchi, Francesco da Carrara si obbliga di entrare in lega con quelli contro questi.
Garanzia per i beni di Marsilio. Il fratello Marsilio da Carrara godrà integralmente i suoi beni e le rendite, ch’egli aveva prima di partire da Padova, e potrà come cittadino veneziano far condurre a Venezia le rendite stesse.
Questa pace sottoscritta, come abbiamo detto, il 21 settembre fu pubblicata solennemente a Venezia e a Padova il 22 settembre; nei distretti di Treviso e Ceneda il 23.
Cinque giorni dopo la pubblicazione della pace il giovane Francesco da Carrara, accompagnato e incoraggiato dal vecchio grande uomo diplomatico, il poeta Francesco Petrarca, che nella sala del Maggior Consiglio al cospetto della Signoria disse il 2 ottobre un’abile orazione, si recava a Venezia a chiedere perdono e ne ritornava il 2 ottobre stesso coi prigionieri, tra i quali il voivoda Stefano. Era il primo umiliante passo nella esecuzione del durissimo trattato. E a quello seguiranno inesorabilmente gli altri non meno tristi per i Carraresi.
Ma poiché abbattere i castelli e liberare i prigionieri, ch’erano in forza del re d’Ungheria, erano due condizioni di lenta esecuzione e urgeva invece la riapertura delle palate, per ottenere queste mentre compiva quelle, Francesco da Carrara manda a Venezia quattro ostaggi, Arcuano Buzzaccarini, Giacomo Scrovegni, Francesco Dotti, Giacomino Gaffarello, che a Venezia rimarranno quasi due mesi.
Dopo la distruzione delle fortezze, la definizione dei confini, che fu decisa il 13 marzo 1374, prorogato il termine iniziale dei dei lavori. Non possiamo dire con documentata certezza, per la solita difficoltà di dare un significato ad antichi termini geografici, come si siano comportati gli arbitri veneziani; ma quella composizione del collegio di sindaci in quell’immediato dopoguerra scosso da viva passionalità, non poteva non portare a lesioni di interessi padovani, come cronisti padovani lamentano; era umano – della perenne tristezza umana – che coì avvenisse.
Un altro capitolo di pace riusciva moralmente gravissimo e repellente al vinto: quello di garantire al fratello Marsilio, il congiuratore impenitente, i beni in Padova e il godimento dei redditi in Venezia. All’esecuzione di esso furono opposte comprensibili resistenze.
Infine quanto ai rapporti esterni, se facile e puntuale fu la ratifica ungherese della pace (forse il tardivo fervore bellico del re era stato smorzato dalla quasi sollevazione dei suoi baroni e dalla preoccupazione turca) impossibile riuscì al carrarese, nonostante onesti sforzi, restaurare la pace tra Venezia e i duchi; permanendo la guerra, Francesco da Carrara entrò in lega con Venezia contro i duchi.
19. Conclusione
Senza l’aiuto degli alleati Francesco da Carrara non avrebbe potuto non che opporsi, resistere a Venezia. E l’aiuto gli mancò affatto (Stato pontificio, duchi d’Austria ecc.) o fu insufficiente e tardivo (Ungheria). Grande sagacia di Venezia fu l’aver intuito che gli alleati del Carrarese non potevano assisterlo efficacemente.
Da ciò la inflessibilità veneziana in tutte le trattative diplomatiche: in quelle che precedettero, per scongiurarlo, e in quelle che accompagnarono, per comporlo, lo scontro guerreggiato: rigida Venezia, anche quando nell’autunno del 1372 falliva per discordie interne del suo esercito (che l’arrivo delle prime truppe ungheresi aggravava con la vittoria del Piave [9 dicembre 1372] l’assalto a Brentelle e svaniva la pressione dai Colli Euganei e quando nella primavera del 1373 si profilava temibile l’alleanza austro-ungaro-carrarese.
L’aiuto dell’Ungheria fu dapprima differito e rallentato da complicazioni o preoccupazioni internazionali (Turchi, duchi d’Austria), poi, caduto prigioniero il voivoda Stefano, impedito da resistenze interne, mentre continuava l’allarme turco; l’accordo coi duchi d’Austria non fu pieno e sicuro o, almeno, efficace.
Perciò dalla conquista della torre padovana del Curame 810 dicembre 1372) alla vittoria di Buonconforto (1 luglio 1373( l’azione militare veneziana ha una continuità di saldezza, che inevitabili difficoltà e pericoli e perfino l’arresto o sconfitta di Lova (14 maggio 1373) non riescono a fiaccare: penetrati dalla laguna in territorio padovano, i Veneziani non furono più respinti.
Tutte le altre numerose battaglie minori e scaramucce, scorrerie, razzie condotte in campo avversario, facendo base da parte veneziana prima a Castelfranco e Treviso, poi alle bastite lagunari, da parte ungaro-carrarese a Cittadella e Padova, furono di esito diverso, ma di peso nullo o trascurabile.
Come pure espressione di viva ostilità, e non più, mi pare si debba vedere nei meschini mezzi di lotta né militare né politica: rivelazioni di segrete deliberazioni veneziane e assassinio politico, cui ricorse Padova prima o all’inizio della guerra; congiura di palazzo, fomentata da Venezia alla fine della guerra; se mai, i tentativi padovani non fecero che irritare la rigidità veneziana (di cui conosciamo le origini più profonde) e la congiura di Marsilio soltanto accelerò il tracollo di Padova, che ragioni economiche e politico-militari rendevano ormai inevitabile.
E la sconfitta assume un significato che va oltre un temporaneo insuccesso militare: segna l’inizio del declino della signoria carrarese. L’alleanza ungherese, preferita, come dicevamo all’inizio, alla tutela veneziana e provata in questa guerra, dà cattivo esito.
E’ vero che Francesco da Carrara non muta il suo indirizzo di politica estera e coltiva l’amicizia col re Ludovico (la quale nessuna clausola del trattato di pace incide: e ciò il principe carrarese segnala con compiacenza al re); e con l’Ungheria e con Genova (della cui potenza navale s’era accennato in funzione antiveneziana qualche volta nelle relazioni ungaro-carraresi anche durante questa guerra) tenterà la rivincita.
Ma anche allora Venezia, che ha ormai consolidato la sua espansione in terraferma e con questa guerra e con l’altra contro i duchi d’Austria, a cui, si noti, questa fu felice occasione, riuscirà vittoriosa.
Paolo Sambin