QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Ottobre 1977 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
Volume I
[da pag. 25 a pag.28]
Il « sabato fascista »
di Valerio Caroti
Una volta veniva chiamato sabato inglese ed era la mezza giornata del sabato pomeriggio in cui, normalmente, fabbriche, uffici e scuole restavano vuoti e la gente andava per i fatti suoi. L’avevano inventato gli inglesi e per quello si era chiamato così. Ma ai tempi del fascismo non si poteva tollerare qualcosa di straniero e tanto meno inglese e così, su due piedi, il sabato inglese divenne sabato fascista.
Ma il sabato fascista doveva avere anche un significato e un contenuto diverso: non poteva essere tollerato che specie la gioventù se ne andasse per i fatti suoi. Liberi gli inglesi di lasciare che i propri figli crescessero « smidollati » e « imbelli» (i giornali e i discorsi dicevano proprio così, ma poi, quando ci fu la resa dei conti, ci accorgemmo che ci avevano detto una bugia), l’Italia fascista, invece, doveva e voleva allevare una « sana stirpe guerriera », « una maschia gioventù » alla severa scuola del regime.
E così al sabato pomeriggio, i giovani fino ai 19-20 anni dovevano andare a marciare e ad ascoltare la parola illuminante del fascio: tutti in divisa, naturalmente e ciò per molte famiglie, sotto alimentate, costituiva un serio problema economico. Allora per i più piccoli e più poveri, ci pensava la befana fascista a regalare la divisa nuova.
I maschi erano inquadrati secondo l’età: figli della lupa (prime classi elementari), balilla, avanguardisti, giovani fascisti. Al sabato pomeriggio i figli della lupa e i balilla erano presenti sporadicamente; se ciò accadeva, venivano a marciare e a fare ginnastica con i cerchietti anche le piccole italiane e le giovani italiane.
Questo aveva luogo quando era in vista qualche adunata o qualche celebrazione e la gente doveva rinfrescare la pratica di marcia cadenzata. I più tartassati erano gli avanguardisti e i giovani fascisti: per questi ultimi il sabato fascista si chiamava anche pre-militare. Pre-militare significava addestramento alla vita militare. Ci davano talvolta anche il fucile: non mi consta che i fucili dati per l’addestramento qui a Schio fossero idonei a sparare. Non ricordo di che marca fossero e mi pare di non aver mai sparato. Ricordo, comunque, che si cercava di imparare il saluto romano, l’attenti, il riposo, il presentat-arm e soprattutto si marciava: avanti marc! dietro front! per fila sinistr! per fila destr! alt! ecc. ecc.
Ma quello che importava più di tutto era l’avere un comportamento marziale e una faccia sprizzante superba fierezza e perciò dura e accigliata. Non per niente dovevamo essere una « maschia gioventù »; ciò implicava il concetto di eroismo ma anche, all’occorrenza, una gagliarda carica di gallismo e una giusta dose di prepotenza. A dir la verità, in quei frangenti c’erano tante facce accigliate e dure ma non perché quei ragazzi (salvo eccezioni) si fossero immedesimati nel clima eroico, ma perché mandavano moccoli a tutto spiano all’indirizzo degli istruttori e del duce per tutta quella roba da circo equestre.
Ma allora interveniva l’istruttore, i moccoli cessavano d’incanto, il cipiglio spariva e l’aria marziale andava a quel paese. In tal caso ci sentivamo gridare con monotona assiduità, « pecoroni », « caproni », « teste di cazzo! » ecc. ecc. Eravamo tutti condizionati, per cui al di là del mugugno non si riusciva ad andare; ma quel che è peggio, la maggior parte non provava solidarietà per i pochi riottosi che immancabilmente andavano a finire in cella di rigore rimanendovi fino a tarda sera. I riottosi venivano poi rilasciati, non per magnanimità, ma semplicemente perché all’istruttore non piaceva l’idea di star lì a far la guardia di notte e magari di domenica. La cosa sarebbe stata troppo complicata e di sacrificio.
Gli istruttori, salvo le solite eccezioni, non erano i fascisti più accesi, bensì cittadini cui piaceva esibirsi in divisa e a cui madre natura aveva fatto dono di una voce stentorea e di un fiero cipiglio: sparavano dei comandi, specie quando capitava il segretario del fascio o il segretario federale, che sembravano le trombe del giudizio. Ciò influiva non poco sul nostro condizionamento. Ma talvolta, da bravi italiani, anche gli istruttori sbracavano per brevi momenti; in questa contingenza supplivano i capi centuria, i vice capi centuria, i capi squadra che erano dei giovani come noi.
Questi non « sbracavano » mai perché, purtroppo, erano convinti della parte che facevano. Erano degli autentici « naioni».
La passione per i gradi e i segni distintivi è antica quanto l’umanità, e tutti aspiravano ad avere un grado o comunque un segno distintivo. Qui il fascismo fu un buon psicologo perché ebbe una fantasia inesauribile nell’inventare divise, insegne di grado e via dicendo, riuscendo poi a creare su quelle cosette una gerarchia di valori cui molta parte della gente anelava. La divisa dei capi centuria o cadetti come si chiamavano comunemente, era nera con pantaloni di gabardine grigioverde ma scintillante di fregi e di gradi dorati.
Quando non portavano la divisa erano dei bravi ragazzi come tutti gli altri; ma quando disgraziatamente entravano in quella divisa diventavano stronzi e prepotenti (salvo rare eccezioni) e tutti li detestavano. lo poi ho un ricordo personale ed emblematico in proposito: mi ero distratto un istante a parlare sottovoce con il vicino, quando mi sentii arrivare un gagliardo ceffone. Era stato un cadetto della mia età, figlio di una delle famiglie « più bene » di Schio e che poteva « molto ». L’intervento di un altro cadetto (rara eccezione) evitò che io andassi in prigione e l’altro all’ospedale. L’istruttore osservò la scena in silenzio senza parteggiare per nessuno dei due e ciò, a dir la verità, non fu poco per quei tempi, dato che io ero di umile lignaggio e mio padre non aveva la tessera del partito.
Il sabato fascista aveva due poli qui a Schio: la casa del fascio, dove ora c’è l’ufficio imposte e il campo sportivo di Magrè. Le cantine della casa del fascio fungevano da celle di rigore, mentre nei saloni veniva fatto l’appello e nei giorni di pioggia ascoltavamo i discorsi.
Qualche volta, nel trambusto, si cercava di rispondere presente anche per l’assente giacché, agli assenti, era riservata particolare attenzione; ci voleva poco a passare come nemici del regime.
Al campo sportivo, invece, si marciava e si correva.
I discorsi erano tenuti da fascisti di provata fede. A Schio, c’era un maestro particolarmente desideroso di farli, ma era troppo bravo e i presenti, seppure fascisti in divisa e perfino fascisti di fede, ridevano sotto i baffi. lo ero studente di liceo e fra i testi di scuola c’erano i discorsi di Mussolini. Vi avevo trovato molti vocaboli nuovi o perlomeno strani, come «fede immarcescibile », «immancabili destini», e via dicendo e prima di ogni frase riuscivo a indovinare cosa l’oratore avrebbe detto. Ambizione insopprimibile degli oratori era quella di imitare il grande capo, nelle parole, negli accenti, nell’atteggiamento imperioso e nel gestire frenetico a scatti. Ma gli imitatori erano incomparabilmente meno bravi del grande capo, almeno a quanto si vedeva nei film-luce: questi sapeva dosare e guidare il sermone nel modo allora giusto per abbindolare le masse e trascinarle con il giusto supporto di « claque », ad emettere un urlo oceanico scandito « duce, duce, duce! ».
Invece qui a Schio l’oratore si lasciava travolgere dalla foga del discorso e dalla grandezza delle parole fino a perdere il filo impaperandosi, ma si salvava con la chiusura: « viva il duce ». E il coro, molto scarso come « claque », alzando il braccio, rispondeva « a noi! » Gli istruttori e i cadetti stavano attenti acché il braccio fosse levato nel saluto fascista in modo corretto. Qualche volta il grido « viva il duce! » subiva delle varianti: l’oratore o l’istruttore gridava: « per il duce » e noi si rispondeva « ehia ehia alalà ».
Comunque sia l’uno che l’altro venivano gridati con discreta convinzione perché chiudevano il sabato operoso. I! sabato fascista aveva anche dei diversivi e degli strascichi. Per esempio insegnavano i canti del regime e tutti a berciare con voce gagliarda: fino al 1936 furono di gran moda « giovinezza » e « fischia il sasso », poi ebbe il suo grande momento « faccetta nera ». Una cosa che non si riuscì mai a imparare benino fu « salve dea Roma! » che voleva arieggiare il tono solenne dell’inno nazionale tedesco, come non si riuscì mai a imparare il « passo romano di parata » una brutta copia del passo dell’oca teutonico. Fatto dai figli della lupa faceva tenerezza, fatto dagli anziani muoveva al riso. Come strascico del sabato c’era spesso l’adunata e la sfilata della domenica: ogni occasione era buona per sfilare e la sfilata era sempre imponente, perché era obbligatorio andarci.
Le sfilate avvenivano lungo la via dell’impero, ora via Maraschin. In testa marciava il drappello dei fascisti con i gagliardetti portati dai benemeriti della « marcia su Roma» che si fregiavano del titolo d’onore « di squadristi ». Il pubblico, al passaggio dei gagliardetti, doveva levarsi il berretto e fare il saluto romano.
Se qualcuno non era pronto a farlo, c’era sempre tra la folla qualche altro, spuntato chissà da dove, che s’incaricava di richiamare l’attenzione dell’incauto; il richiamo meno foriero di conseguenze era una sberla. A una certa distanza marciava il giovane fascista o avanguardista, ma sempre cadetto, che marcava il tempo agitando il bastone in su e in giù e dietro a lui il drappello dei tamburini che battevano il tam-tam. Non ricordo bene, se poi venivano i figli della lupa o i balilla. Se la sfilata era solenne dei figli della lupa c’era solo una rappresentanza. Ma l’ordine classico era questo: balilla moschettieri con il fucilino, balilla, avanguardisti con moschetto e non, giovani fascisti, gioventù universitaria fascista, piccole italiane, giovani italiane, tutta la gioventù di Schio gioiosa di passare la domenica marciando.
La sfilata assumeva poi un tono minore con i fascisti dei gruppi rionali e scadeva del tutto con il gruppo delle massaie rurali. E man mano che gli anni scivolavano verso il fatale 1940, le sfilate si infittivano, ci parlavano sempre più spesso della « perfida Albione » (alias Inghilterra), di nazioni ricche o « demoplutocratiche e corrotte» e delle nazioni « proletarie » e « sane » che giustamente anelavano ad uno « spazio vitale ».
Venimmo a sapere che il numero era potenza, della battaglia del grano, che l’unica vera amica dell’Italia era la Germania di Hitler e questo sconcertava un po’ dati i precedenti risorgimentali e la guerra del 15-18.
Ci gabellavano l’intervento in Spagna come una crociata e, naturalmente, c’era il silenzio assoluto su quelli che, clandestinamente, erano andati a combattere dall’altra parte. Questo lo si sapeva, perché il popolino mormorava ma era proibito parlarne in pubblico, come non era stata data alcuna evidenza agli scledensi che, a decine, erano stati portati davanti al tribunale speciale. L’Italia era un « blocco monolitico » e a scuola i temi come Mediterraneo, « mare nostrum », «Tunisia Italiana», « Corsica Italiana », « un popolo di santi di navigatori, di eroi, di scienziati e di poeti » ecc. ecc. stavano diventando un viatico quotidiano.
E dietro a questi marchingegni la figura del duce diventava sempre più grande, onnipotente, divinizzata e misteriosa. Quando il nostro uomo, nel 1938, capitò a Schio a inaugurare il villaggio Pasubio, la gente impazziva per lui perché sembrava incredibile poter vedere «il sommo », tanto più che si era sparsa la voce che con un telegramma a Hitler, spedito dalla stazione di Schio, Mussolini avesse evitato la II guerra mondiale. Quella voce, inventata o meno, fu per il buon popolo scledense motivo di orgoglio e di gioia e la conferma del motto: « il duce ha sempre ragione » e dell’«uomo inviato dalla provvidenza ».
Frattanto era saltato fuori l’asse Roma-Berlino il cui supporto era costituito da « otto milioni di baionette» cosa che ci veniva propinata ogni sabato in maniera martellante, assieme alla vittoria in Spagna e ai camerati tedeschi; i quali stavano diventando sempre più bravi e più buoni capeggiati dall’uomo con i baffetti.
In pari tempo c’era il bollo sulle biciclette e la mensa della grande maggioranza degli italiani stava diventando sempre più spartana a base di verdure di stagione. Il mugugno cresceva, aumentavano la barzellette, ma anche se ciò rispecchiava disagio, sofferenze e malumore, si trattava di un fatto epidermico.
L’opposizione, quella seria, era stata messa a tacere oppure operava in ristrette cerchie di iniziati. Cosa importava che leve su leve di giovani fossero chiamati alle armi senza soluzione di continuità per l’Abissinia, per la Spagna e via dicendo? Cosa importava la fame cronica degli italiani? Avevamo l’impero e la fame sarebbe presto sparita, Agello aveva battuto il primato di velocità e la nostra aviazione era la prima del mondo. E poi c’era il dopolavoro e l’onnipresente « opera nazionale balilla» che con gite, colonie, campidux, solari, propinavano un piacevole diversivo al popolo.
I bambini del salario, figli di lavoratori, passavano le loro giornate estive qui a Schio ad abbrustolirsi nel recinto del campo sportivo di Magrè, che serviva a tutto anche a teatro dell’opera, perché venne perfino il carro di Tespi a fare delle rappresentazioni e fu festa grande. E così, stringendo la cinghia, ci avvicinavamo sempre più rapidi al traguardo degli « immancabili destini », dell’« aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende », di « credere, obbedire, combattere » che facevano un tutt’uno con gli « otto milioni di baionette » e le « quadrate legioni » finché un giorno del 1940, un uomo, fra i « colli fatali di Roma », davanti ad una folla oceanica festante come in una sagra paesana, sciolse la riserva in ordine agli « immancabili destini » e ci trovammo irrimediabilmente in guerra.
Su Schio, nonostante le vittorie germaniche, nonostante la retorica, calò il gelo; la popolazione si chiuse in se stessa e il mugugno della vigilia, divenne qualcosa di più.
Schio, Luglio 1977.
Valerio Caroti