QUADERNI DELLA RESISTENZA 
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Aprile 1979 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
 
 
Volume VII
(da pag. 370 a pag. 376)


ARRIVO DI «CARLO»

di E. Trivellato
 

 

 

 

«Carlo»(Alberto Sartori) giunse a Schio il 29 maggio 1944 e rimase in Val Leogra fino alla fine di giugno: è quello che potremmo definire il «mese valleogrino» di Carlo. Sulla scorta di un suo memoriale ed attraverso varie testimonianze ed altre fonti ho ricostruito le sue vicende durante tale permanenza in Val Leogra, ritenendo che queste siano interessanti per far luce su alcuni fatti locali. In seguito Carlo si allontanò dalle nostre zone per recuperare armi sull’altopiano di Asiago e lo ritroviamo nei mesi successivi in quasi tutta la zona della «Garemi».


Per la Val Leogra Carlo era un «foresto», oriundo della Valdastico, emigrato in Francia, presente nell’Africa del nord, paracadutato in Piemonte ed ivi catturato, evaso da Verona il 21 maggio 1944, capitato a Schio in casa di Nello Pegoraro, salito in Raga a fine maggio.


Il suo arrivo e la sua permanenza suscitarono una certa perplessità nell’ambiente scledense e montanaro valleogrino, costituzionalmente refrattari ai «foresti», specie se questi – per mentalità ed atteggiamento – si discostano dalla norma, cioè da un certo tipo medio esistente in zona. Le vicende di Carlo, Inoltre, se raccontate con passionalità e vivezza di particolari, assumono a volte una connotazione «avventurosa» che è interessante per alcuni ma negativa per altri. Il significato di queste considerazioni potrà essere meglio valutato «dopo» un’attenta lettura dell’intera Inchiesta.

Chi era «Carlo»? Quale il suo passato prima di arrivare a Schio?



BIOGRAFIA
Alberto Sartori («Carlo») nacque a Stradella (Pavia) il 18.3.1917 e pertanto, allorché giunse in Val Leogra, aveva appena compiuto i 27 anni. Il padre Giovanni, nato a Rotzo, era emigrato in Svizzera nella prima decade del 1900 e qui, rimasto vedovo con 2 figli, aveva conosciuto e sposato un’emigrata fiorentina, Giovanna Castagno, dalla quale ebbe 3 figli (Alberto fu il secondo). Allo scoppio della prima guerra mondiale la famiglia rimpatriò a S. Pietro di Valdastico, allora frazione del Comune di Rotzo, ma con l’offensiva austriaca del 1916 si trasferì nell’Oltrepò pavese, dove appunto a Stradella nacque Alberto nel marzo del 1917.


Dopo il periodo scolare questi trascorse un biennio in un istituto religioso della bergamasca, ma quando la famiglia tornò a smembrarsi a causa dell’emigrazione del padre e dei fratelli maggiori, il quattordicenne Alberto salì sulle montagne di Marcesine e di Poselaro sull’altopiano di Asiago a fare il manovale, dal momento che i maschi in famiglia erano per tradizione dei muratori. Tuttavia proseguì da autodidatta gli studi, per i quali si sentiva portato, ed in ciò fu aiutato di tanto in tanto da un maestro di Pedescala (Nicolussi), noto antifascista di fede mazziniana.


IL PRECETTORE ALBERTO


L’adolescenza è il periodo più propizio alla poesia ed anche Alberto trovò in essa uno sfogo letterario ed emotivo, con risultati di certo apprezzabili se una sua raccolta di poesie venne ben giudicata da un grosso calibro del Fascismo (Nino Dolfin), che tra l’altro era un lontano parente dei Sartori. Ciò consentì la sua assunzione, a soli 15 anni, come precettore nel Collegio Comunale «Cordellina» di Vicenza. Una strada allora seguita da parecchi giovani, poveri in canna, per poter proseguire gli studi.


Le poesie e la buona parola di Dolfin furono senza dubbio importanti, ma è probabile che il quindicenne, alto, ben parlante di tratto signorile malgrado le umili origini avesse già a quell’età il «phisyque du role». Gli inizi di carriera furono purtroppo interrotti da un fatto imprevisto: l’emigrazione in Francia del padre, il quale si disinteressò della famiglia. Ciò costrinse un po’ tutti a darsi da fare per sopravvivere e così anche Alberto, nel 1934, ritornò al lavoro di manovalanza; solo l’anno successivo lo ritroviamo come precettore e questa volta in un Collegio di Thiene dove ebbe l’affetto e la stima del Rettore Mons. Zanoni, con il quale restò anche in seguito in rapporti epistolari addirittura dalla Francia e Tunisia e, a detta di Sartori, con grosse noie per Mons. Zanoni da parte delle autorità fasciste.


Ma un nuovo evento familiare venne ad incidere profondamente nel suo periodo giovanile: nel marzo del 1936 gli morì la madre, una donna sensibile e colta per quei paesi di miseria, una fiorentina che aveva sicuramente la vivacità verbale e la connaturata insofferenza dei toscani tutto pepe e che aveva trasferito nei figli, ed in Alberto in particolare, la sua natura anticonformista.


Non posso non notare la coincidenza che il padre di Valerio Caroti («Giulio») era un toscano e che Nello Boscagli («Alberto») era nativo di Sinalunga (Siena).


Nell’autunno del 1937 Alberto Sartori passò a fare il precettore nel Collegio Baggio di Vicenza: aveva vent’anni. Ma nell’estate era successo un fatto increscioso. In una riunione di coetanei su di un prato in località Belania di S. Pietro in Valdastico il giovane Sartori aveva espresso con foga la sua fede repubblicana, derivante dal buon maestro Nicolussi e dalle idee materne.

Dopo pochi giorni fu convocato in Caserma e paternalisticamente preso a calci dal brigadiere dei carabinieri, che lo trattò da «sovversivo» e lo diffidò a dimenticare sia Mazzini che Garibaldi. A parte i calci, quella patente di « sovversivo» stuzzicò invece l’interesse e fors’anche la vanità del giovanotto e siccome a quel tempo i sovversivi patentati erano soprattutto i comunisti e gli anarchici, egli si diede da fare per trovare del «materiale sovversivo»; purtroppo sulla piazza c’erano solo «La madre» di Gorkj, il «Guerra e pace» di Tolstoi, gli scritti di Alfredo Oriani («La lotta politica in Italia ») ed il «Così parlò Zarathustra» di Nietzsche.

La preparazione teorico-politica di partenza, ingigantita dall’idealismo dell’età, convince il Sartori ad abbandonare, nel marzo del 1938, il Collegio Baggio (il direttore ne restò allibito) ed a recarsi a fare il manovale in Val Gardena assieme ad un anziano analfabeta di Valdastico, un certo Righele detto il «Nono». Sartori afferma: «Trovai tra quegli operai tanti disperati che, stanchi di fame e di miseria, invocavano a conclusione dei loro discorsi: Che vegna la guera!». Nel giugno dello stesso anno Alberto Sartori era già a Parigi.


Alcune considerazioni mi sembrano d’obbligo su questo periodo giovanile del nostro, se accettiamo l’ipotesi che l’ambiente familiare e sociale e l’iniziale formazione culturale abbiano poi un grosso peso nella mentalità e nei comportamenti da adulto.

Qui, con Alberto Sartori, ci troviamo di fronte ad una irrequietezza familiare di fondo: emigrazione da povertà, rimpatri, spostamenti in parte dovuti a situazioni obiettive di bisogno ma in parte ad un temperamento familiare, che l’Alberto recepì in pieno.


In lui tuttavia si aggiunge anche il problema ed il dilemma della scelta fra il lavoro manuale e le aspirazioni scolastico-culturali, verso le quali una parte della sua natura lo trasporta. Per ben tre volte fa il manovale di fatica e per altrettante fa il precettore in tre Collegi diversi oscillando continuamente fra manualità e intelletto, alla ricerca forse di un «punto fermo sempre sperato e mai realizzato, per colpa di Tizio, di Caio, di Sempronio, della famiglia, della politica, del mondo intero.


La storia di Alberto, a mio avviso, potrebbe finire qui, in questa alternanza giovanile tra azione e speculazione intellettiva ed in questa emigrazione permanente. Ho quasi l’impressione che le vicende successive ne siano una ripetizione di fondo in mutati ambienti e con personaggi diversi.


S. Pietro di Valdastico, Vicenza Thiene, Val Gardena degli anni giovanili diventano Parigi, Algeri, Piemonte, alto Vicentino e Trentino del periodo bellico e partigiano.

Non è difficile incontrare persone estremamente attive ma anche eternamente inquiete ed in proposito ho il ricordo di mio nonno Giuseppe, direttore tecnico della Cartiera Rossi a Velo d’Astico, che alla fine del secolo scorso partì d’un colpo con un ingegnere di Padova per andare a far funzionare i treni delle nuove linee brasiliane e per poter cacciare nel Mato Grosso. E conosco, su di lui, l’opinione di mia madre, che ha i piedi incollati per terra. Digressioni a parte, Alberto Sartori a ventun anni se ne va a Parigi.


IL FRANCESE ALBERT

 

A Parigi egli si mette in contatto con l’ambiente italiano antifascista ed entra nell’U.P.I. (Unione Popolare Italiana) dove si trovano ad operare in quel periodo Di Vittorio, Nenni, Longo, Gaddi, Giorgio Amendola, Emilio Sereni, impegnati tutti a mobilitare gli emigrati antifascisti e ad aiutare i volontari che hanno combattuto nella guerra di Spagna.


Per un giovanissimo fu senz’altro stimolante trovarsi nel crogiolo scottante parigino della battaglia fascismo-antifascismo resa rovente dal vicino conflitto spagnolo ormai al suo epilogo. La sua presenza ed attività fu notata dalla polizia fascista ed il suo nome fu segnalato nel Bollettino delle Ricerche dell’OVRA con schedina n° 441-015652 del 1939. In proposito vi è una delibera n. 61027 del 23.9.76 della Commissione apposita della Presidenza del Consiglio dei Ministri che, all’esame degli atti, conferma la rubricatura di Sartori nel Bollettino delle Ricerche fino al 1939 e gli riconosce un periodo di perseguitato politico antifascista che va dal 25 aprile 1939 al 25 aprile 1945.


A Parigi egli collaborava nell’U.P.I. all’organo di stampa «La Voce degli Italiani» diretto da Di Vittorio. Arriviamo così allo scoppio della Seconda guerra mondiale e Sartori, a 22 anni, si arruolò nell’esercito della Repubblica francese in quelle formazioni di stranieri che venivano detti «Engagés Volontaires pour la durée de la guerre». Secondo Sartori era questa la parola d’ordine dell’U.P.I. ed egli mantenne tale ingaggio anche dopo il patto di non aggressione germano-sovietico, che disorientò i dirigenti del P.C.I. Invece che sulla linea Maginot egli fu inviato in Africa del Nord come tutti i giovani stranieri che non avevano ancora fatto il servizio di leva nei loro paesi di origine.



IL TUNISINO


Dopo molte peripezie egli entrò in contatto, in Tunisia, con il «Gruppo tunisino» dei comunisti italiani che facevano capo a Velio Spano. L’adesione a questa organizzazione clandestina non era priva di pericoli perché i suoi componenti erano braccati dalla polizia di Pétain.


Così anche Albert si diede da fare per organizzare gli arabi ed i gollisti sulle montagne di Pont duFahs e Djebel-Mansour; diventò addirittura minatore tra gli arabi che lavoravano nelle miniere di Kelibià nel Capo Bon.


Quando nel maggio del 1943 l’Africa del Nord fu liberata, i dirigenti locali del P.C.I. scelsero Alberto Sartori, allora già ventiseienne, come il militante più idoneo per raggiungere con ogni mezzo l’Italia e per ristabilire, dopo 4 anni di isolamento, un contatto con i dirigenti italiani.


Perché il Sartori? Forse ebbero buon gioco, oltre alla militanza parigina, anche le sue doti di intraprendenza. Ovviamente per arrivare in Italia dall’Africa del Nord bisognava passare attraverso gli americani o gli inglesi, anche se in quel periodo «Ercoli» (Palmiro Togliatti) sembra avesse dato l’ordine di interrompere i rapporti con i servizi di spionaggio alleati.


Comunque Velio Spano, per lo stato di necessità, presentò il Sartori agli addetti del Q.G.A. di Algeri accreditandolo come un antifascista di fede mazziniana e sottacendo la militanza comunista per ovvi motivi. Ciò fu possibile ed accettabile perché all’epoca il Sartori era cofondatore e dirigente della «Unione Democratica Italiana di Tunisi» con Barresi ed altri «indipendenti»; viceversa Velio Spano, Maurizio Valenzi, i fratelli Loris e Ruggero Gallico, Weiss ed altri erano notori comunisti che in precedenza, ad eccezione di Spano, erano stati catturati dalla polizia di Pétain e condannati a dure pene.


Velio Spano confidava che gli Inglesi, ai quali aveva pensato di rivolgersi, avrebbero accettato un Sartori «indipendente». Questi pertanto si diede a girovagare, sempre accompagnato da Spano, travestito da prigioniero di guerra, nei vari campi di concentramento dell’Algeria e della Tunisia per cercare un paio di radiotelegrafisti, uomini idonei ad affrontare la missione nell’Italia del Nord; dopo molte ricerche, tollerate dagli inglesi ma per altri aspetti pericolose, la scelta cadde su due sergenti radiotelegrafisti (Alessandro Teagno di Asti e Matteo De Bona di Belluno) che erano stati paracadutati come sabotatori dopo la fine delle ostilità, catturati e messi in campo di concentramento. Dopo un celere corso di paracadutismo, per allenare il Sartori in località Club des Pins di Algeri la missione s’imbarcò e partì per l’Italia la notte del 21 agosto 1943.



GUIDO COSTA


Sulla Missione «Costa» riportiamo il testo di pg. 742-3 della «Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza”, La Pietra, Vol. III:

«Gruppo informativo paracadutato dagli Alleati in Piemonte nell’agosto 1943 e catturato subito dopo l’atterraggio. A guidare la Missione Costa fu designato dagli Alleati Alberto Sartori.
Questi allora membro del P.C.I. accettò l’incarico d’accordo con i dirigenti del suo partito in Tunisia (tra cui Velio Spano), che gli affidarono l’incarico di ristabilire i collegamenti con l’organizzazione comunista operante in Italia. Sartori assunse lo pseudonimo di Guido Costa e, con l’autorizzazione degli Alleati, visitò i campi di prigionieri di guerra italiani in Africa per cercare i collaboratori necessari. Infine reclutò due giovani radiotelegrafisti, Alessandro Teagno e Matteo De Bona (v.)
Dopo un breve allenamento di paracadutismo, il 21.8.1943 i tre componenti della missione furono paracadutati in luoghi diversi del Piemonte, il Sartori nella zona di Alessandria-Tortona e i suoi due compagni nell’Astigiano. Ma tutti e tre furono immediatamente scoperti, arrestati dalle autorità badogliane e rinchiusi in carcere. Trovandosi nel Forte San Leonardo di Verona, il 21.5.1944 Sartori riuscì ad evadere. Raggiunte le formazioni partigiane, continuò la guerra di Liberazione, svolgendo funzioni dirigenti nel Gruppo Divisioni «A. Garemi».
Teagno e De Bona, consegnati dai carabinieri ai Tedeschi dopo l’8.9.1943, finirono nel campo di transito nazista di Gries (Bolzano). Da qui evasero a loro volta nel settembre del 1944 e raggiunsero Torino, dove svolsero intensa attività partigiana. Catturati dai fascisti il 15.2.1945, furono fucilati entrambi al Martinetto. A.Sa.». Vedasi «Lettere dei condannati a morte della Resistenza» (Einaudi).


Fallita la Missione «Costa», il gruppo tunisino del P.C.I. inviò a Bari, dopo l’8 settembre 1943, il militante comunista Maurizio Valenzi, attuale senatore e sindaco di Napoli. Sul fallimento della Missione «Costa» una prima ipotesi è che ciò sia avvenuto per un insieme di circostanze sfavorevoli che hanno portato alla cattura dei tre; viceversa Alberto Sartori sostiene la tesi che i suoi due giovani radiotelegrafisti, il giorno prima del lancio, avessero incautamente rivelato ad un maggiore inglese l’appartenenza del Sartori al Partito Comunista, e che la zona di atterraggio sia stata diversa rispetto a quella studiata in precedenza.

Il Sartori fu subito catturato in località Pollastra (periferia di Tortona) da Tedeschi e Carabinieri e tradotto nella Caserma di S. Giuliano Vecchio, dove fu interrogato e torturato.

Il giorno successivo venne prelevato da ufficiali di alto grado e tradotto prima nelle carceri di Alessandria e poco dopo nelle Carceri Nuove di Torino, in cella di segregazione e sotto continui interrogatori fino al 7 settembre 1943; dopo l’armistizio restò in carcere e nella notte dal 4 al 5 gennaio 1944 la Gestapo lo rinchiuse in un sotterraneo dove reincontrò Teagno e De Bona, i quali sotto tortura avevano rivelato i nomi della Missione.

Il mattino seguente i tre furono portati ammanettati alla stazione di Torino e scortati fino a Verona, dove il Sartori finì nelle cellette di tortura di Palazzo Giusti di Borgo Trento. (Velio Spano gli aveva raccomandato: «Se ti torturano, Guido, non mangiare né bere, così ti indebolisci e sarai pronto a svenire. E, una volta svenuto, ti lasceranno in pace»). Dopo una settimana il Sartori fu trasferito al Forte S. Mattia dove trovò Luigi Sella («Rino») e Nello Pegoraro, ambedue di Schio e con i quali stabili quindi un contatto, che lo porterà in seguito in Val Leogra. Poco dopo infatti «Rino» e Nello Pegoraro vennero liberati e tornarono a Schio.



L’EVASO


È interessante il racconto dell’evasione stilato dallo stesso Alberto Sartori:

«Durante i mesi che seguirono, dopo un vano tentativo di evasione, fui trasferito nel Forte S. Leonardo e non mancai nessuna occasione per offrirmi volontario per qualsiasi tipo di corvé che mi avrebbe consentito di fotografare la situazione della fortezza ed il sistema di sorveglianza, interna ed esterna. Accettai di buon grado l’incombenza ripugnante di svuotare con secchi le latrine del Forte ed anche quella rischiosissima e disperata di disotterrare le bombe inesplose dopo i bombardamenti di Verona, a Porta Vescovo. In fatto di evasione solo tre erano decisi a rischiare con me: Teagno, De Bona ed un ufficiale del S.I.M. poliglotta e coltissimo – Luigi Baldanello di Venezia – che era stato catturato dai Tedeschi con la sua Missione mentre tentava di sbarcare a Chioggia proveniente da Bari. Verso la metà di maggio del 1944 l’interprete tedesco chiese chi di noi fosse muratore ed ancora una volta alzai la mano per primo; ci intrupparono in sette e ci fecero uscire dal Forte, scortati da 4 tedeschi. Dovevamo ripulire dai rovi e dalle immondizie un fossato chiuso da reticolati ed inutilizzato forse dal tempo del Quadrilatero di Radètzky. Furono tre o quattro giorni di lavoro duro, compensati con alcuni sacchetti di vecchie croste di pane nero ammuffito che divoravamo avidamente. Quando mi resi conto che stavamo preparando un poligono di tiro per la fucilazione, lo dissi a Teagno e De Bona ed agli altri ma solo noi tre ci rifiutammo di lavorare, per cui i tedeschi ci riportarono in cella a colpi di calcio di Mauser sulla schiena. Durante la notte seguente mi colse una febbre altissima e mi ricordai che non evacuavo da 4 giorni a causa del pane guasto; al mattino io deliravo e così fui portato in barella all’infermeria del Forte, dove riuscii a gettare nel bugliolo il purgante che l’infermiere mi aveva portato. Verso sera entrò un maggiore medico tedesco il quale, senza visitarmi, disse: “Tifus!”. Un’epidemia in quell’ambiente era pericolosa anche per i Tedeschi e quindi mi trasferirono al KriegLazaret dell’Ospedale di Borgo Trento, con un tedesco armato fuori della porta a vetri. Mi fecero fare un clistere ed il giorno dopo la febbre diminuì. A notte alta scucii la fodera della vecchia giacca puzzolente e vi trovai, quasi polverizzate, le 4 pastiglie di simpamina che mi aveva regalato Baldanello, il quale ne aveva ricevuto una decina entro un pezzo di sapone tramite un sacerdote di Verona.

Approfittai di un intervallo in cui non vedevo più la sentinella, arrotolai la giacca a mò di “testa” sul cuscino, la coprii quasi interamente, sollevai il materasso nel mezzo per simulare la presenza di un corpo, aprii la porta-finestra che dava sull’orto dell’ospedale e saltai nel buio. Mi restava da scavalcare l’alto muro di recinzione sorvegliato da sentinelle interne, ma vi riuscii strappandomi una mano sul reticolato. Feci un balzo, mi trovai in una stradicciola e mi misi a correre a perdifiato, mentre in lontananza sentivo delle raffiche ed urla In tedesco. L’effetto della simpamina fu miracoloso. Finii in riva ad un fiume: non poteva essere che l’Adige! Dopo varie peripezie, all’alba, rintracciai un ex prigioniero del Forte S. Leonardo, uno scrittore veronese – Elia Paganella – che per salvarsi dalla fucilazione si era arruolato nella S.P.E.R. Quando lo ritrovai nel quartiere di S. Lucia mi abbracciò come un fratello, mi caricò sul palo della bicicletta, dopo avermi dato una giacca, e riuscì a portarmi in salvo per strade secondarie fino a S. Bonifacio. Rocambolescamente e con l’aiuto di una famiglia di Alonte, alla quale apparteneva una maestrina che divenne mia moglie “Nadia”, potei raggiungere località Fonte Abelina di Recoaro e di là attraverso i monti raggiunsi Schio dove rintracciai Nello Pegoraro: fu un incontro indescrivibile. Era il 29 maggio 1944».




II. ARRIVO IN RAGA


Nell’ambiente di Schio Alberto Sartori («Carlo»), al suo arrivo a fine maggio del 1944, aveva due soli garanti: Nello Pegoraro e Luigi Sella («Rino»), ch’egli aveva conosciuto in carcere a Verona. Infatti il Pegoraro lo accolse a casa sua ai Cappuccini in attesa dell’arrivo di un altro fuggiasco, Valerio Caroti («Giulio»).


Ecco il racconto di Carlo: «Accompagnati da una staffetta, raggiungemmo – Giulio ed io – Raga alta, dove fummo affidati alle “cure” del nostro primo comandante partigiano: Ferruccio Manea, il “Tar”.
Il “Tar” mi squadrò ben bene e mi dedicò particolare attenzione perché mi esprimevo con un accento francese: non si fidava. Mi consegnò un vecchio “91” dicendomi che con quello avrei dovuto io stesso conquistarmi un’arma migliore. Per cominciare mi fece subito montare di guardia nei pressi di un ròccolo e ad un partigiano che lo accompagnava disse a mezza voce (ma abbastanza chiaramente da farmelo sentire): “Al minimo scherzo che fa, sparagli!’’. Andavamo bene. Di lì a qualche giorno capitò un rastrellamento nella zona e catturammo due fascisti che furono processati e condannati a morte. Ero intervenuto per salvare il più giovane, un ragazzo, che interrogai personalmente; infatti si salvò accettando di combattere con i partigiani, ma me ne pento ancor oggi perché in seguito s’imboscò e riapparve verso la fine della guerra a dettar legge in seno ai partigiani. Così va il mondo in mano ai furbi!

Alla metà di giugno del 1944 fui convocato a S. Antonio di Valli del Pasubio per partecipare ad una riunione allargata di vari comandanti partigiani. La riunione si tenne in casa del Planegonda ma non ricordo con esattezza gli argomenti trattati essendo nuovo della zona e dei relativi problemi di comando e di organizzazione. Chi mi fece maggiore impressione fu Igino Piva (“Romero”): era un militante comunista anziano con un passato nella guerra di Spagna e con caratteristiche d’indole militari prevalenti – così mi pareva – rispetto a quelle politiche: era soprattutto un uomo d’azione. Purtroppo era sofferente di disturbi gastro-intestinali e bisognoso di cure. Non ricordo gli altri partecipanti alla riunione, tranne forse “Giulio”, anche perché mi fu affidata una incombenza urgente, credo di vettovagliamento. Inoltre ad un certo punto fu dato l’allarme per il sopraggiungere di alcuni camions di tedeschi, talché io, con altri, dovetti precipitarmi giù da una scarpata nella valletta retrostante la casa-negozio dei Pianegonda.

In quella riunione fu deciso che io, invece di tornare alle formazioni del “Tar”, mi sarei dovuto aggregare alle formazioni operanti sul versante dei Tretti, sotto il monte Novegno, a S. Ulderico e S. Rocco. Qui, si diceva, c’erano alcune pattuglie che avevano la necessità di essere amalgamate, meno disperse e più controllabili, anche politicamente, poiché agivano con troppa autonomia e “disinvoltura” e rischiavano di inimicarsi la popolazione».



III. LA MISSIONE A S. ULDERICO


«La prima spinosissima incombenza affidatami da “Romero” fu davvero insolita e rischiosa. Si trattava di assodare se rispondessero al vero certe dicerie sul conto di una pattuglia operante a S. Ulderico di Tretto, il cui comandante – si diceva – aveva violentato una ragazza. Se il fatto fosse risultato vero, mi aveva detto “Romero”, era necessario dare un esempio e farlo fuori davanti ai suoi uomini. Non conoscevo i luoghi né gli uomini con i quali avrei dovuto trattare, né loro mi avevano mai visto. Una brutta faccenda! Per fortuna il fatto non risultò vero, per dichiarazione scritta dei genitori e per la stessa ammissione della ragazza. Tutto si concluse con una riunione di “ora politica” che io feci con i partigiani di quella formazione».


Fin qui il racconto di «Carlo», ma in proposito è opportuno aggiungere qualcosa. Infatti è da dire in questa sede, perché forse il Sartori non l’ha mai saputo, che a S. Ulderico gli uomini della pattuglia incriminata avevano già deciso di far fuori “Carlo” se questi avesse preso dei provvedimenti contro il loro capo-pattuglia. Va quindi a merito della ragazza e dei suoi genitori di aver salvato due uomini, con le loro ammissioni e dichiarazioni.



IV. LA MIGRAZIONE NELLA ZONA DI ASIAGO DI «CARLO»


Nel mese valleogrino di «Carlo» vi furono alcuni altri avvenimenti ai quali partecipò. Del suo intervento prezioso in favore dei due feriti di Vallortigara si è già scritto ampiamente in un precedente Quaderno.

Egli inoltre riferisce:

«Ci fu anche il combattimento di monte Enna, dove fui inviato con i rinforzi del caso. Ma, pur essendoci spostati a marce forzate, giungemmo in zona quando il combattimento era cessato e i partigiani coinvolti si erano già sganciati. Tornammo alla base. In quel periodo fui inviato a compiere un lungo giro di ispezione in tutta la zona del Battaglione spingendomi fino a Malunga, dove incontrai “Sergio” (Attilio Andreetto). Ebbi l’impressione che fosse un ottimo comandante, sotto il profilo militare, ma assolutamente sprovveduto e agnostico sul piano politico. Tornai alla base, con gli uomini di scorta, sotto un diluvio di pioggia. Ci era giunta intanto notizia che sull’altopiano di Asiago, da dove era tornato tempo prima il “Tar”, c’erano stati del nuovi lanci di armi e che queste erano state nascoste da partigiani che poi erano caduti in combattimento. Si riteneva che la quantità ed il tipo di armi paracadutate avrebbero consentito di armare i molti giovani che sempre più numerosi salivano in montagna e che spesso dovevamo rinviare alle loro basi-nascondiglio.

Ne discutemmo a fondo con “Roméro” e in considerazione del fatto che io avevo trascorso la mia infanzia e adolescenza su quelle montagne, fu deciso che io mi sarei subito recato in missione sull’altopiano di Asiago per recuperare le armi. Sicché partii con tre uomini di scorta, volontari: 1. Aldo Santacaterina del Tretto (“Leone”) - 2. Mario Saugo di Carrè (“Bill”) - 3. il fratello Aldo Saugo(“James”). Dai Tretti arrivammo a Posina e qui dalla popolazione seppi che in contrada Ganna c’era un noto antifascista piemontese, l’Ing. Perrone, sfollato nella zona con la moglie che era di Posina. Lo andai a trovare e si convenne di mantenere presso di lui un comando-tappa e di costituire il locale C.L.N.

Anche ai Laghi rintracciai un calzolaio, Severino Sartori, che si dichiarò da sempre comunista e che si dimostrò disposto a formare un punto di collegamento e di aiuto. Poi attraverso l’altopiano di Tonezza e i Campiluzzi, evitando il paese, scendemmo in Valdastico ed a Ponte Posta prendemmo contatto con un giovane che subito decise di arruolarsi con noi: G. Costa (“Ivan”) di Pedemonte. Egli ci fece conoscere gli antifascisti della Valdastico ed ebbe inizio la organizzazione delle formazioni nella zona. Più tardi sull’altopiano di Tonezza giunse Germano Baron di Poleo (“Turco”) con i suoi uomini ed andò così a formarsi quella che sarà la divisione “Pasubiana”».


Le vicende di «Carlo» proseguono in quasi tutte le zone del Gruppo divisioni «Garemi» ed alla storia di quest’ultimo appunto appartengono. In questo Quaderno si è voluto solo delineare brevemente la figura di «Carlo», la biografia e le vicende che lo hanno condotto a Schio ed in Val Leogra. 

 

AVVERTENZA PER IL LETTORE.

La narrazione effettuata dal curatore dei Quaderni della Resistenza dott. Trivellato sulla vita di Alberto Sartori ("Carlo") durante la Seconda Guerra Mondiale e in particolare sulla sua militanza nelle fila dei partigiani vicentini della Brigata Garemi non mi trova d'accordo. In questo stesso sito di storia vicentina ho pubblicato un breve saggio sulla prima parte della sua vita durante la guerra del 1940-1945. E ho cercato di evidenziare la pratica menzognera  di quasi tutti i suoi racconti, dal periodo francese a Parigi, da quello algerino e tunisino fino al famoso viaggio aereo e successivo lancio con il paracadute su territorio italiano nell'agosto del 1943. Ho cercato di rintracciarne le tracce fino alla sua permanenza nel Forte San Leonardo di Verona (prigioniero dei Tedeschi) e alla sua "eccezionale" fuga dallo stesso. Ho notato le sue numerose e contraddittorie versioni della fuga, le località diverse e i momenti di "aggancio" con le forze della Resistenza. Parlare di "dubbi" sulla figura di Sartori è poco. Ci sono buchi neri e valutazioni dell'uomo che suscitano paura. Invito perciò il lettore a leggere attentamente (nella sezione di Menu "PROTAGONISTI") il racconto "aggiornato" sul "partigiano" "Carlo". Chi vuole può scrivere una e-mail al sottoscritto:   Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.