QUADERNI DELLA RESISTENZA 
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Novembre 1978 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
 
 
Volume VI
(da pag. 294 a pag. 298)

IL RITORNO DEI MILITARI
 
 

 

 

VALERIO CAROTI. Sottotenente degli Alpini -23 anni - Comandante («Giulio») della divisione garibaldina «VAL LEOGRA». Nato a Santorso il 12-9-1921. Studente. Figlio di Oreste e di Greselin Maria. Residente a Schio dal 1922 in via S.G. Bosco. 17.

«Il padre Oreste, fiorentino di Rignano sull’Arno, era giunto in zona di Schio nel 1916 quale fante nella battaglia contro la Strafen-Expedition (Zovetto-Lemerle-Novegno). Fu prima guardia notturna e poi portinaio presso il Lanificio Rossi. Autodidatta tipico del contado di Firenze, era uomo di cultura: sapeva a memoria la Divina Commedia, e leggeva di preferenza l’Iliade, l’Odissea, Eschilo, Sofocle, Euripide, Ariosto, Tasso, Alfieri e Shakespeare oltre a libri di storia. Iscritto all’Azione Cattolica fino al 1943.

Uomo di vedute aperte, criticava con ironia il fascismo per la “imbecillità” delle sue manifestazioni e per la irreggimentazione del popolo italiano. Ricordava spesso il delitto Matteotti. Ebbe un momento di dubbio nazionalistico con l’avventura dell’Etiopia e le sanzioni, superato molto presto. Collaborava con poesie e racconti a giornali per la gioventù editi dai Salesiani. Per arrotondare le entrate familiari faceva anche il calzolaio. Con i figli è stato sempre aperto nel colloquio. Incarcerato e minacciato di fucilazione a causa del figlio, sopportò con fierezza ogni disavventura.

Dopo 6 mesi fu scarcerato. La madre Maria era di Santorso, operaia del Lanificio Rossi, cattolica convinta ma non per nulla bigotta; nonostante la propaganda dei tempi, dimostrava in famiglia comprensione per gli antifascisti del ’37 e per quelli che erano andati a combattere in Spagna nelle Brigate. Valerio, studente universitario di filosofia a Milano presso l’Università Cattolica (si manteneva all’università facendo l’insegnante privato presso un istituto di orfani di Milano), venne chiamato alle armi verso la fine Gennaio del ’41 nella Scuola di alpinismo di Aosta.

Nell’Agosto del 1941, sergente allievo ufficiale, conobbe un ufficiale di Genova e seppe dal medesimo dell’esistenza del movimento clandestino di Giustizia e Libertà aderendovi con altri ufficiali. Nel Dicembre del 1941, presso il Corso Allievi di Avellino, un compagno di corso della sua squadra, certo Rubino di Genova più attivo degli altri, fu scoperto e fu fatta una rigorosa perquisizione a tutti i componenti della squadra che furono tenuti costantemente d’occhio. In seguito divenne sottotenente degli Alpini di la nomina presso il III Reg.to poi presso il II. Fortunatamente per ben due volte scampò di andare in Russia. Inviato in Slovenia vi rimase da fine Gennaio al Luglio 1943 ove ebbe occasione di conoscere i metodi della guerriglia.

L’8 settembre ’43 si trovava a passo Palade con il II R.to Alpini: la notizia dell’armistizio pervenne con un dispaccio del Comando di Reggimento verso le ore 22; il 9 Settembre venne inviato a Merano per il prelievo viveri per la compagnia ed in piazza a Merano dovette spianare la pistola contro una piccola folla di altoatesini che volevano impedirgli di salire sulla corriera per passo Palade. A Lana di Merano, nascosto sotto le sottane di alcune ragazze della Val di Non, riuscì a superare lo sbarramento delle truppe tedesche che catturavano tutti i militari italiani.

A Passo Palade seppe che la compagnia su ordini superiori, si era trasferita al passo della Mendola e che quanto era rimasto era stato saccheggiato da Altoatesini muniti di bracciale ed armati: vi era stato uno scontro con un plotone della guardia di frontiera guidata da un capitano. Il primo pensiero fu di tentare la via per la Svizzera e in effetti Valerio camminò durante tutta la notte fra il 9 e il 10: ma l’impresa, per mancanza di idonei attrezzi alpinistici, naufragò ai primi ghiacciai dell’Ortles in Alta Val d’Ultimo.

Ritornato sui propri passi per entrare almeno in territorio trentino assai più sicuro, nel mentre accompagnava un alpino trovato ferito lungo il sentiero per la Val di Non, ebbe uno scontro a fuoco con un gruppetto armato di altoatesini che si risolse in maniera poco soddisfacente per questi ultimi, tanto che verso 1’11-12 settembre, poté giungere con il ferito e alquanto affamato in un casolare del paese di Brez in Val di Non.

Le notizie erano tante e le più strane: sembrava per certo che mentre il Trentino e il Veneto erano stati occupati dai tedeschi, la Lombardia era ancora in mano Italiana: era perciò ragionevole tentare di raggiungerla attraverso le giogaie del Cevedale. Ma giunto a Cogolo in Val di Peio, dopo una marcia di 24 ore continue, seppe che tutta l’Italia era stata occupata dai tedeschi. Nascosta la divisa, ricuperata una tessera senza foto di un giovane fascista e vestito decentemente, giunse in treno, in prima classe, assieme ad alti ufficiali tedeschi fino a Rovereto; da Rovereto, per non rischiare oltre, attraverso il Pasubio, giunse a piedi fino a Schio. Deve essere stato il 17 o 18 Settembre.

Più tardi venne emesso il bando di chiamata per gli ufficiali e dopo pochi giorni Valerio ritenne opportuno con altri due ex militari ritirarsi in una baita dietro il colletto di Velo: aveva con sé una vecchia pistola a tamburo del padre. Uno dei due ex militari era un certo Berlato di Schio che sembra avesse lavorato presso il magazzino De Antoni in via Fusinato, dov’era impiegato anche Domenico Baron. In montagna si sentiva parlare della «banda Marchioro» del Cerbaro composta di vecchi antifascisti. Dopo pochi giorni di vita inconcludente e calmate le acque della chiamata degli ufficiali, Valerio rientrò in famiglia.

Conobbe per primo Mario Prendin, detto Mario Valmore, un comunista entusiasta e attivo che venne spesso a trovarlo e che lo presentò a Domenico Baran. Contemporaneamente per le strane affinità che sorgono in certi casi, allacciò rapporti con altri giovani del Partito d’Azione tra i quali il dotto William Pierdicchi allora studente alla Cà Foscari e il dotto Ferrari di Piovene pure studente alla Cà Foscari. A Venezia il Partito d’Azione aveva messo in funzione una tipografia clandestina. Il collegamento fu utile perché nel Novembre 1943 già circolava la stampa del Partito d’Azione assieme a quella Comunista; la cosa fu poi utilissima nel Febbraio ’44 in occasione degli scioperi; anche i genitori e la sorella Gemma contribuivano alla diffusione degli stampati.

Nel Dicembre 1943 Valeria ebbe un colloquio in Vicenza con l’on Domenico Marchioro: questi gli propose di assumere il comando della squadra di Campetto e l’affare era quasi fatto, senonché il Marchioro si lanciò in una lunga dissertazione sulla dittatura del proletariato che disorientò l’interlocutore, il quale essendo piuttosto un mazziniano, si ritirò in buon ordine. Sempre in Dicembre, a mezzo Mons. Tagliaferro, ebbe un incontro a Vicenza con esponenti cattolici, tra cui il prof. Fraccon: l’incontro fu deludente, perché gli interlocutori erano attendisti ad oltranza. A parte i motivi culturali e politici del periodo universitario, ciò che fece entrare Valerio nella Resistenza fu lo scontro armato avuto con gli altoatesini, i quali, lanciati alla caccia al soldato italiano stavano dimostrando un odio razziale incredibile e una spietatezza degna delle SS». Schio, 17 novembre 1977.


 

BRUNO STOCCO. Allievo ufficiale di cavalleria a Pinerolo - 26 anni - Capo di S.M. («Braccio») della divisione garibaldina «VAL LEOGRA». Nato a Schio il 16.10.1918.

«All’epoca della guerra ero stato dichiarato “rivedibile” come si diceva allora e quindi idoneo ai servizi sedentari. Feci domanda per poter essere arruolato volontario e fui assegnato alla Guardia di Frontiera a Vipiteno e successivamente trasferito a Bolzano al 232 di Fanteria. Essendo morto mio fratello Natale in Africa Orientale ed essendo che l’altro mio fratello Palmino era volontario in zona di guerra fui rinviato a casa. Volli ripartire e alla successiva visita fui fatto abile ed assegnato alla Scuola Allievi Ufficiali di Cavalleria di Pinerolo.

Frequentai il corso dei reparti “a cavallo” per circa 8-9 mesi; nel settembre del 1943 ero ancora alla scuola di Cavalleria che fu successivamente occupata da parte dei tedeschi. Era una Scuola particolare nel senso che era vivissimo lo spirito di corpo specie per quelli che, essendo nobili, come tutti meno me, avevano delle tradizioni da continuare. Quando io partecipai alla Scuola il comandante era il conte colonnello Soliani e come allievi i figli delle più celebri famiglie italiane; fra gli altri il principe Odescalchi da Roma, il principe Caracciolo da Napoli, il principe Colonna da Roma e poi duchi, baroni, conti, marchesi.

Gente che prima ritenevo non preparata alle difficoltà della vita ma che potei in seguito apprezzare per la loro forza morale e per una indomabile tenacia. Potrei raccontare molti episodi che mi colpirono ma non è questo il caso. Alcuni allievi però, prima dell’arresto del duce e prima della occupazione della scuola da parte dei tedeschi sparirono: tra questi ricordo il conte Acquarone, figlio del ministro della Real Casa che se ne andò in licenza senza naturalmente più tornare.

In quei giorni tribolati il comando era indeciso sul da farsi; voleva armarci e farci assalire i tedeschi che erano ad Airasca ma, per fortuna, ci ripensarono; avevano persino pensato di farci fare una carica di cavalleria con le lance.

I tedeschi aspettarono a venire a Pinerolo che quasi tutti i soldati se ne fossero andati; alpini, fanti e cavalleggeri. Gli unici che ancora fossero rimasti eravamo noi allievi della Scuola di Cavalleria. Quando vennero piazzarono due o tre cannoncini a tiro rapido nei crocicchi delle strade vicine alla Scuola mentre l’aviazione volava a bassa quota; effettuarono qualche sparo, e poi in formazione vennero ad occupare la caserma senza spargimento di sangue. Dimostrarono anche in questo caso la loro efficienza, la rapidità nella esecuzione di quanto avevano prestabilito di fare ed il nostro comando si trovò ad essere dal tutto inattivo.

Per prima cosa fecero inviare in Germania i cavalli più prestigiosi e particolarmente quelli che facevano parte del Centro Olimpionico; provvidero anche ad ammazzare alcuni cavalli vecchi che erano solo una gloria per la Cavalleria come il cavallo Osoppo che era stato il campione di salto in alto ed altri che non erano bene in arnese. lo in quei momenti, mi ritenevo quasi un traditore che dovesse chiedere scusa ai tedeschi; eravamo infatti stati educati e cresciuti senza che nessuno ci avesse mai detto un qualche cosa che potesse farci pensare diversamente dalla imperante educazione fascista. Per questo mi sarei sentito portato a non tradire, ripeto, i tedeschi ma a continuare la guerra.

La ribellione avvenne in me per un assieme di cose che mi turbarono e mi fecero riflettere; soprattutto per l’uccisione, che fu un assassinio, del sergente maggiore Agosta, un nostro istruttore, egregio cavaliere, che aveva una nobilissima fierezza e che fu ucciso da un tedesco delle S.S. proprio per questa sua fierezza, con un colpo di pistola alla testa all’entrata della caserma.

Vi fu la veglia funebre in scuderia e giurammo tutti tra noi allievi di vendicare lui e l’offesa all’onore di italiani che i tedeschi stavano facendoci subire. Fummo tenuti per qualche tempo alla Scuola ed anzi io stesso dovetti istruire alcuni tedeschi al nostro modo di cavalcare. Noi, alla Scuola, avevamo infatti seguito il cosiddetto metodo Caprilli che differiva totalmente dalla loro scuola. Dopo un certo tempo fui portato con alcuni altri ad accompagnare i rimanenti cavalli del Centro Olimpionico verso Bergamo; da Bergamo potei tornare a Schio dicendo che mi sarei presentato alla Legione della Milizia di Schio. Da quel momento, come avevamo tra noi giurato, cercai invece di unirmi subito alle formazioni partigiane ma la cosa non fu facile.

Avevo un fratello caduto e decorato di medaglia d’argento in Africa Orientale, un altro fratello ancora in armi presso la milizia Volontaria e decorato sul campo di medaglia di bronzo, io stesso ero partito volontario e quindi non mi fu facile trovare chi mi ascoltasse come se fosse stata colpa mia se non avevo mai sentito parlare di altro che di fascismo.

Chi mi aiutò fu il sig. Luigi Zen che era allora impiegato alle Industrie Saccardo e che mi fece andare a nascondermi in casa del sig. Beghini Tullio in via Milano dove rimasi finché venne a prendermi un certo Mario Valmora che mi portò, attraverso i posti di blocco, in montagna dove trovai per primi “Giulio” (Valerio Caroti) e “Carlo” (Alberto Sartori). Il mio fu un impatto duro; ero capitato proprio in un brutto momento e cioè alla vigilia del rastrellamento di Vallortigara. Fui comunque accettato fraternamente, specie da “Giulio”, ed iniziai la mia lotta partigiana, vestito con una giacchettina verde, in camicia e cravatta, e con le scarpette gialle.

Non voglio qui ricordare gli episodi della vita partigiana anche perché non ne sono stato richiesto, ricordo solo le prime notti passate sul monte Novegno con una copertina militare che mi era stata data e che mi tiravo prima sulle spalle e dopo sulle gambe perché non poteva coprirmi tutto restando quindi senza dormire per il freddo. Iniziai anche subito a lavarmi rompendo il ghiaccio sulle pozze di montagna come tutti si ricordarono poi ridendo. Mi ero quindi subito adattato alla nuova vita nonostante le abitudini precedenti e credo di non essermi mai lamentato e di aver fatto modestamente il mio dovere».



 

DOMENICO RUARO. Figlio di Samuele (Cl. 1893 - agricoltore) e di Graziani Anna. Nato a Schio (Magrè) il 23.2.1915 in una famiglia di sentimenti cattolici. Scuole elementari a Magrè, due anni di Ginnasio in un Istituto religioso di Tortona, poi iscritto all’Istituto magistrale Fogazzaro di Vicenza dove conseguì il diploma di maestro. Chiamato alle armi il 21.4.1936 in Fanteria a Cuneo, fu ammesso alla Scuola A.U.C. ed ebbe la nomina a Sottotenente nel 1942. Comandante partigiano. Guido D del Btg.ne «Pietro Barbieri».


«Dal 18 novembre 1942 partecipai alle operazioni di guerra nel Mediterraneo ed in seguito fui destinato con il grado di sottotenente alla fascia di copertura costiera fra Sanremo e Ventimiglia nel 4820 Btg.ne Costiero. All’8 settembre 1943, per disposizioni superiori, ci siamo trasferiti in Piemonte per ricongiungersi ad un Comando della II Armata. Qui però i nostri reparti furono accerchiati da truppe corazzate tedesche; quella notte, essendo privo di dotazione personale, ottenni di dormire fuori dal campo e cosi fui l’unico a salvarmi dalla deportazione in Germania. Ritornai allora nella zona di Sanremo e mi unii subito ai primi gruppi di Resistenza che si erano costituiti sui monti ad opera di militari sbandati e di qualche perseguitato politico.

Dopo circa un mese il C.L.N. di Sanremo, su mia richiesta, mi procurò i documenti falsi che mi permisero di rientrare a Monte Magrè, dove restai nascosto assieme ad un gruppo autonomo di 10-12 sbandati tra i quali ricordo Francesco Sandri di Magrè, Lino e Bruno Filippi: eravamo accampati in alcune tendine in mezzo al bosco ai “Casarotti” fra Monte Magrè e Raga alta. Quando le pioggie diventarono insistenti e cominciò il freddo trovammo sistemazione nelle nelle case nei fienili. Fu in primavera che mi misi in contatto con Valerio Caroti. In luglio passai nel distaccamento di Val Terragnolo con “Tom” ma dopo il rastrellamento di Posina (12-13-14 agosto 1944) ritornai nella zona di Monte Magrè Raga».



GIUSEPPE DE GUGLIELMI. Alpino - 30 anni - Vicecomandante partigiano («Chiodi») del Btg.ne «ISMENE» - Medaglia d’argento.


Figlio di Giobatta (operaio filatura) e di De Marchi Lucrezia. Nato a Malo (Vi) il 25-9-1914 e residente in via Porto al Proa. Ha frequentato le scuole elementari fino alla classe V. Falegname. Di leva nel 1935, fu assegnato al 6° Alpini al Brennero e nel 1936 partecipò alla campagna d’Etiopia nella divisione «Pusteria»; rimase poi ad Adis Abeba a lavorare come falegname fino al maggio del 1938. Dopo la campagna di Grecia, fu spedito in Russia con il grado di caporale nella «Julia» e qui rimase dal 16.8.1942 al 19.2.1943 nell’Ospedale militare di Calci (Pisa); tornò poi in famiglia con una licenza di convalescenza e qui si trovò all’8 settembre 1943. Ricercato a casa, come militare che non si era presentato al richiamo alle armi, rimase nascosto presso la sorella a Capovilla in periferia di Malo. Nella primavera del 1944, ormai deciso a non ripresentarsi in considerazione dei tanti anni di servizio militare effettuati, si informò sulle prime pattuglie partigiane della zona e salì sul Faedo con Ferruccio Manea («Tar»), del quale diventò vice-comandante. Fra le molte azioni di «Chiodi» la «Battaglia sul Pasubio», riportata nel presente Quaderno, è senza dubbio una delle più significative; la precedente esperienza militare in Africa, in Grecia, in Russia ed il suo temperamento prudente e concreto fecero di «Chiodi» un ottimo vicecomandante.