QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Luglio 1978 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
Volume V
(da pag. 233 a pag. 241)
IL RITORNO DEI «MILITARI»
« IVAN » -« JURA » -« TAR »
di E. Trivellato
Un « difetto » – nell’étimo di deficere – che si nota in buona parte delle storie della Resistenza è l’inconsistenza umana dei personaggi. « Alberto », « Giulio », « Turco » « Marte », « Gianni », « Jura » hanno giocato un ruolo primario nelle vicende della Resistenza. Ma chi sono? Tuttalpiù si leggono alcune note in calce o in appendice che traducono, e non sempre con esattezza, in nomi di battaglia nei nomi e cognomi reali.
Il fatto, o più propriamente il silenzio, ha cause complesse. Innanzitutto in alcuni la ritrosia di apparire «nero su bianco », poi un certo clima carbonaro ancora percettibile nell’ambiente degli ex partigiani (vi si entra con le credenziali), infine la diffidenza di molti su ciò che si scriverà o non si dovrà scrivere.
Sotto il profilo storico questo fenomeno potrebbe portare, per chi leggerà un domani le storie della Resistenza, ad uno squilibrio. Infatti alcuni hanno saputo scrivere ampiamente i loro memoriali e farsi identificare. Invece molti partigiani d’arme hanno scritto ben poco o sono morti. Pertanto, nei presenti Quaderni, fra i molti intenti ed ove possibile, si è cercato di dare concretezza ai nomi di battaglia affinché non restino personaggi fittizi o fantasmi del passato.
Di « Marte », di « Turco », di « Brescia » e di molti altri si è già detto e si dirà con il procedere della cronologia degli eventi. In questo Quaderno sono invece riportate le vicende autunnali del 1943 di alcuni personaggi che ebbero poi un ruolo di comando nella futura « Garemi ».
GINO MANFRON Artigliere - 22 anni - Partigiano (« Ivan ») e commissario politico del Btg.ne « Barbieri -. Nato a Sanvito di Leguzzano il 13-31922. Figlio di Adriano. Attività prevalenti: operaio edile (1936-1941), servizio militare e Resistenza (1942-45), - operaio tessile (1946-1954), dirigente sindacale provinciale (1955-1971), Segretario nazionale confederale U.I.L. (1972-1978).
Dall’U.I.L. Gino Manfron ci ha inviato da Roma la presente nota del 13-2-1978:
« Il 24 luglio mi trovavo in Sicilia sul fronte del fiume “Simeto” a sbarco già avvenuto da parte degli anglo-americani. Facevo parte del 140 Artiglieria di Corpo d’Armata ed eravamo aggregati ad una divisione corazzata tedesca. Lo sbarco avvenne nella zona di Siracusa-Augusta con impiego di forze marittime ed aeree impressionanti.
Lo sbarco fu rapido e facile. Le truppe italiane non erano in condizioni di combattere e non opposero alcuna valida resistenza ed alcune unità subirono notevoli diserzioni o più realisticamente “andiamo a casa” da parte dei componenti siciliani e meridionali delle stesse.
Dopo un pausa di assestamento sulla costa, la notte del 1° agosto 1943 le truppe anglo-americane iniziarono sulla piana di Catania l’offensiva e in pochi giorni occuparono la Sicilia. Poche ore prima dell’occupazione di Messina riuscimmo a passare lo stretto e ricordo di essere rientrato a Treviso la sera del 7 settembre 1943. Il giorno dopo, all’annunzio dell’armistizio, fummo consegnati in caserma; essendo privi di collegamenti e di notizie, dopo qualche giorno finimmo in mano ai Tedeschi.
Alla stazione di Treviso riuscii a fuggire e rientrai quindi a casa. Verso i primi di ottobre del 1943, assieme a mio fratello Silvio e ad alcuni altri giovani, prendemmo contatto con Sandro Cogollo (“Randagio”) e da questi incontri scaturì la nostra scelta partigiana e la successiva partecipazione attiva alla Resistenza.
La mia educazione antifascista fu indubbiamente determinata dalle posizioni antifasciste dei miei genitori ma anche dalle prime amare esperienze della mia giovinezza. (Estrema difficoltà a trovare un lavoro).
Per ben tre volte mi è capitato di trovare un imprenditore disposto ad assumermi senza mai ottenere il nulla-osta da parte del Collocatore. Motivo: non iscritto alle organizzazioni giovanili fasciste). Una più completa maturazione antifascista avvenne nel corso della guerra. La propaganda e la retorica fascista, l’assumere progressivamente le conoscenze delle violenze e dei soprusi compiuti dal regime, la mancanza di ogni possibilità di discussione e di critica se non attraverso le “barzellette raccontate nelle stalle del paese” costituirono altri fondamentali motivi di maturazione di una coscienza e opinione politica decisamente antifascista che costituirono la base ideologica e ideale più solida per indirizzarmi verso la lotta partigiana dopo lo sfascio ideale e morale del fascismo e della monarchia espressi nelle date del 25 luglio e dell’8 settembre 1943 ».
ARMANDO PAGNOTTI Recluta -25 anni -Comandante (. Jura.) della divisione garibaldina « STELLA ». Nato a Vicenza il 2-6-1919 da famiglia di Schio emigrata in Belgio. Studente. Figlio di Valmòre e di Costalunga Angela. Nel 1943 residente in Schio - via S. G. Bosco.
« Sante – antico capofamiglia dei Pagnotti – nacque a Vicenza nel 1855 e sposò a Schio, dov’era tessitore, una Comunella Maria dalla quale ebbe 8 figli; di questi sono da ricordare Duilio, che restò a Schio con una rivendita di legna e carbone; poi Sandro – sarte – e Valmòre ambedue fuorusciti in Belgio per antifascismo; infine Policarpo ed Arturo che emigrarono in Svizzera. Le loro vicende personali – connesse alle lotte politiche durante l’avvento del Fascismo – sono quantomai interessanti, ma qui necessita un cenno particolare VALMORE' PAGNOTTI (Cl. 1893), che sposò una Costalunga Angela, figlia di un postino di Schio, ed ebbe un primo figlio ARMANDO, nato a Vicenza il 2-6-1919.
Come tutti i fratelli, Valmòre fu un antifascista molto attivo nell’ambiente scledense, amico di Pietro Tresso (Inch. I), e quindi costretto ad emigrare in Belgio a Charleroi nel 1924. Tre anni dopo ebbe ad Erquelinnes anche una figlia, Maria Luigia. ARMANDO PAGNOTTI (« Jura ») frequentò le prime scuole in Belgio, nel clima antifascista e nei ricordi del padre e dello zio Sandra, e si iscrisse poi all’Università di Bruxelles nella Facoltà di Scienze biologiche.
Quando i Tedeschi occuparono il Belgio l’Università venne chiusa come covo di Resistenza e fu così che Armando venne in Italia, anche per assolvere gli obblighi di leva, e giunse a Schio e poi al Distretto Militare di Vicenza ai primi di settembre del 1943. Aveva 24 anni, studente universitario, ma senza alcuna esperienza militare. Destinato a Thiene, egli ebbe la visita dello zio Duilio e della cugina Sergia, maestra, proprio nel pomeriggio dell’8 settembre. Non appena il Comandante del piccolo distaccamento lasciò liberi i militari, per l’arrivo dei Tedeschi, Armando riparò presso un lontano parente di Thiene, si vestì in borghese e telefonò allo zio Duilio, che andò a prenderlo in bicicletta per portarlo a Schio.
Qui rimase, in casa Pagnotti, tutto l’autunno e l’inverno 1943-1944 fino ai bandi di chiamata del maggio; in questo periodo continuò a studiare e fu presentato ad alcuni universitari di Schio, come Pierfranco Pozzer, diciannovenne studente di Ingegneria e figlio della maestra, come Letterio Walter studente di matematica e figlio di Riccardo e come Valeria Caroti studente di filosofia ed ex militare appena sfuggito ai Tedeschi. La Resistenza armata e civile non si è ancora organizzata, ma già se ne intravvede il tessuto, poiché in casa Pagnotti veniva spesso Domenico Baron, amico di famiglia ed altri antifascisti.
LA “STAMPERIA PAGNOTTI-POZZER” L’ambiente antifascista belga ed i discorsi in famiglia del padre Valmòre e dello zio Sandra avevano chiaramente orientato Armando (“Jura”) nella sua scelta. Infine i rapporti stabiliti a Schio con i vecchi amici del padre Valmòre lo portarono a dare il suo contributo nel modo più congenere alla sua preparazione culturale di tipo scolastico, malgrado l’inciampo della lingua italiana, che comunque apprese in brevissimo tempo con l’aiuto della maestra Sergia. Il suo nuovo giovanissimo amico Pierfranco procurò un ciclostile, ch’era del padre militare e deportato in Germania; in casa Pagnotti iniziò così l’attività di stamperia, con Armando che scriveva i testi, la Sergia che li correggeva in buon italiano ed i due studenti che tiravano poi le copie: “Fuori i Tedeschi!” era il tema del momento.
La stamperia avrebbe dovuto restare l’attività più congeniale ai due, ma il destino e gli eventi disposero diversamente. Pierfranco Pozzer fu coinvolto, per delazione, negli arresti del novembre 1944 e morì a Mauthausen, mentre Armando – ai bandi del maggio – abbandonò Schio, salì prima in Raga da Pietro Barbieri, donde passò nella Valle dell’Agno, e fu nominato in seguito Comandante della “Stella” ».
TESTIMONIANZE
PAGNOTTI SERGIA. Di Schio. Maestra.
« Armando, pur essendo nato e cresciuto in Belgio, aveva assorbito dal padre, Valmòre e dallo zio Sandro le idee antifasciste che i due si erano portati dall’Italia. Egli aveva quasi una venerazione per suo padre e la scelta di entrare nella Resistenza era quindi motivata. Credo comunque che Armando abbia avuto grosse difficoltà per inserirsi nella guerra partigiana, la cui realtà molto cruda e violenta era ben lontana dall’ambiente cittadino ed universitario di Bruxelles e dalla cultura scolastica acquisita sui banchi di scuola; inoltre aveva solo alcuni giorni di esperienza militare. Certamente la necessità di sopravvivere lo costrinse ad un rapido adattamento, aiutato in questo da un’intelligenza sveglia, ma la sua natura portata più all’idealismo ne subì sicuramente un trauma, che gli restò poi per tutta la vita.
Per un certo tempo insegnai a S. Antonio in alta Val Leogra e ricordo che qualche volta bussava alla porta, affamato e tutto bagnato di pioggia; se mi scusavo per non avere molto da sfamarlo diceva: “Mi basta parlare”. Nella Valle dell’Agna aveva soprattutto “Catone”, studente come lui, con il quale poteva scambiare qualche discorso un po’ fuori delle necessità e dei problemi del momento. Ricordo il nome di “Dante”, del quale mi parlò e qui a Schio passarono di casa anche “Alberto” e “Aramin”.
Dopo la Liberazione ebbe difficoltà nelle pratiche per il rientro in Belgio che avvenne nella primavera del 1946; tornò però in settembre per sposarsi con una ragazza di Valdagno, Antonietta Colombo, che portò in Belgio dove ebbero una figlia nel 1947 ed una seconda nel 1950. Dopo l’esperienza della guerra partigiana non riuscì più a reinserirsi negli studi.
Vive tuttora in Belgio ».
Il Prof. Giancarlo Zorzanello di Montecchio Maggiore (VI), il quale ha in corso le ricerche sulla « STELLA » in Valle dell’Agno, ha cortesemente inviato per la pubblicazione nei Quaderni una « RELAZIONE SULLA VITA PARTIGIANA DI JURA ». Agli studi del Prof. Zorzanello si rinvia per quanto attiene alle vicende di « Jura » in Valle dell’Agno.
« Giunsi in Italia per compiere il mio servizio militare, in seguito a regolare chiamata del mio Distretto (Vicenza), il l° settembre 1943. Presentatomi al Distretto militare di Vicenza il 3 settembre 1943, fui incorporato nel 57° Fanteria, in attesa dell’apertura dei corsi allievi-ufficiali.
L’8 settembre stesso anno, data della pubblicazione dell’Armistizio, mi rifugiai a Schio, presso i miei zii. A quel momento si formò, nella zona di Schio, un primo movimento partigiano (gruppo Piva) che però fu, quasi subito dopo, sciolto. Ma l’idea era data e Comitati locali si formarono. Non potendo rimanere indifferente alla lotta che il popolo italiano conduceva per la sua liberazione dal nazi-fascismo, mi feci presentare da mio zio, al Comitato di Liberazione Nazionale locale.
Così conobbi Domenico Baron per il cui tramite fui presentato a Domenico Marchioro, allora Segretario del P.C. di Vicenza e rappresentante lo stesso nel C.L.N. di Vicenza. Questi mi incaricò dell’organizzazione dei gruppi giovanili nel vicentino. Il lavoro era ancora impreciso. Si trattava soprattutto di preparare gli spiriti ad una lotta di resistenza -passiva per il momento -ma che col tempo doveva trasformarsi in azione vera e propria.
Il compito non era facile, i gruppi non essendo collegati ma diffidando piuttosto gli uni negli altri. Però un po’ alla volta si poté creare le prime formazioni di GAP. È allora che entrai in contatto con Alberto, responsabile regionale (Padova) della GAP. (dicembre 1943), e dell’organizzazione militare del C.L.N.
Alberto chiese il mio passaggio per un’attività esclusivamente militare; ma siccome in quel frattempo il P.C. mi aveva nominato responsabile del partito per la zona di Schio, tenne che rimanessi ancora in questa carica fino agli scioperi in preparazione per il mese di marzo 1944. Perciò la mia attività in quel periodo fu e militare e politica; ma parlerò qui unicamente dell’attività militare.
Con Alberto abbiamo organizzato la GAP delle provincie Vicenza-Verona. Si lottava allora con mezzi assolutamente primitivi, le armi acquistantesi a caro prezzo e con grande pericolo e gli esplosivi non potendosi ottenere che grazie a colpi di mano nei depositi delle miniere. In quel modo Mario Trentin di Torre B. (morto in combattimento), “Ivan” (morto in combattimento, ’44), il “Moro” (in seguito Commissario del battaglione nella Brigata “Martiri Val Leogra”), ed io, riuscimmo ad asportare dalle cave di Pieve B. due quintali di dinamite e con quel materiale, Alberto ci insegnò a fabbricare bombe a ritardamento per far saltare ferrovie, linee telefoniche, automezzi di trasporto tedeschi, ecc.
Nel frattempo Alberto, Aramin ed io entrammo in contatto con la Missione Alleata Marini, la prima Missione per il Veneto. Dopo esser riusciti ad appianare tutte le difficoltà di natura politica esistenti fra noi, la Missione ci concesse piena fiducia e si concluse la creazione di una vasta orga¬nizzazione partigiana, i cui centri di sviluppo dovevano essere la vallata del Leogra e l’Altopiano di Asiago.
Benché non bene preparati, visto la mancanza di gruppi organizzati e decisi di lasciare ogni attività legale per darsi alla macchia, accettammo la responsabilità di ricevere e condurre a buon fine, lanci di armi e di rifornimenti alleati. CosÌ vennero effettuati cinque lanci sul Novegno e cinque sulla Conca Marcesina (Altopiano di Asiago). Da quel momento si può dire che è nato il movimento partigiano nel vicentino.
Però ben pochi erano gli uomini che allora vivevano in montagna (gennaio o febbraio 1944). Controllai personalmente i lanci sul Novegno, mentre Aramin controllava quelli sulla Conca Marcesina. Nella stessa epoca, un nostro colpo di mano (Trentin, Giack, io, Battaglia ed altri di cui mi sfugge il nome) ci metteva in possesso a Magrè, di due mitragliatrici pesanti Breda, con relative munizioni, di 17 moschetti e di una cinquantina di bombe a mano. L’afflusso di uomini in montagna è notevole dopo gli scioperi di marzo.
Si creò allora un effettivo Comando Militare Partigiano che rimase però, fino a maggio 1944, in pianura, con alternanze occasionali di soggiorno in montagna. Questo per permettere un più facile sviluppo alle basi di mantenere i collegamenti con i vari Comitati e soprattutto con la Missione Marini.
Ma dal maggio, i movimenti di va e vieni dalla montagna alla città divennero troppo pericolosi ed inoltre i gruppi di montagna essendosi rinforzati, richiedevano la presenza continua, permanente, del Comando. Il Comando Regionale di Padova decise dunque di mandarci definitivamente in montagna, ... (nelle zone di Campetto, Campodavanti, Frasèle, Campo Brun) ... ».
NOTE
A. - NOMI DI BATTAGLIA e COGNOMI citati nel testo di « Jura »: 1) « Mario Trentin di Torre B. » - ANTONIO TRENTIN (« Burasca ») di Torrebelvicino, da non confondere con Antonio Trentin (« Battaglia ») di Valli d. P. e con Arduino Trentin detto Lino (« Francia ») di Valli d. P. 2) « Ivan - DUSOLINO SCORZATO della pattuglia di Fondo Torre, da non confondere con Gino Manfron (« Ivan ») di Sanvito. 3) « Il Moro » - GIOVANNI GRAMOLA (« Moro ») di Torrebelvicino, da non confondere con Giuseppe Fin detto « Moro Fin » di Malo. 4) « Giack » - LUCIANO DE ROSSI di Schio. 5) « Battaglia. - ANTONIO TRENTIN detto dei Furbi da Contrà Pietra di Valli d. P. 6) « Alberto » - NELLO BOSCAGLI di Sinalunga (Siena). 7) Aramin» - ORFEO VANGELISTA di Bassano del Grappa. 8) « Marini» - Ten. RENATO MARINI piemontese della Missione M.R.S., da non confondere con Giampietro Marini (« Gianni ») di Bergamo.
B. - LE ARMI IN RAGA - Le 2 mitragliatrici Breda pesanti ed i 17 fucili furono trasportati, subito dopo l’arrivo dei Tedeschi a Schio, dalla postazione antiaerea del Castello di Magrè nella casa di Pietro Barbieri in Raga e di qui tali armi vennero nascoste nella Chiesetta di S. Zen e poi in cima Raga in una grotta nella località « in sima Saréo ». Ad un controllo risultò che qualcuno aveva asportato le cinghie di cuoio dei fucili. Un giorno Ampelio Sandri, un alpino pratico di mitraglie Breda, Nano Baron e Domenico Baron le misero in funzione e fu sparato qualche colpo verso il Zovo. Più tardi si ritenne che fossero più utili ai partigiani della zona dell’Agno, i quali appunto vennero a prenderle (testimonianza di Domenico Baron).
FERRUCCIO MANEA
Artigliere scelto - 30 anni - Comandante (« Tar ») del Btg.ne « ISMENE ». Nato a Malo nel 1914.
« Il giorno 8 settembre 1943 mi colse a Pizzighettone (Cremona) perché ero stato condannato a sei mesi di “Compagnia di Disciplina” per antifascismo. La motivazione diceva: “Si condanna l’artigliere scelto MANEA FERRUCCIO a sei mesi, i quali potranno essere raddoppiati ogniqualvolta il Manea darà segni di insofferenza alle Leggi attuali dello Stato o segni di indisciplina”. Il nome di Pizzighettone evoca in me il triste ricordo di un luogo dove si consumava la più spietata ferocia fascista ad opera di una banda di aguzzini che, con il consenso tacito dei superiori, ci sottoponeva ad ogni sopruso. Il luogo però mi ricorda anche una delle pagine più combattive di ribellione giovanile da parte di quegli infelici che ebbero la sventura di vivere in una “Compagnia di Disciplina” nei mesi antecedenti l’8 settembre.
Qui mi ero fatto una fama di “sovversivo” ed ero stato anche contrassegnato con una treccia gialla applicata sul berretto. Mi donava molto, a dir la verità, e mi sentivo fiero di tale ornamento, forse un po’ meno quando venni a sapere che serviva ad identificarmi durante i lavori forzati e che le sentinelle mi avrebbero sparato se mi fossi avvicinato alla rete del campo. Ricordo che in quel periodo quasi tutti mi evitavano e che cercarono di fare amicizia solo dopo che Mussolini venne spedito a Campo Imperatore.
Si arrivò così alla sera dell’8 settembre 1943, allorché il Colonnello che comandava la « Compagnia di Disciplina » inviò un gruppo di noialtri -accompagnati da parecchi Carabinieri per rimuovere dai locali pubblici i ritratti di Mussolini e dei gerarchi ed in questo, devo dire, mi dimostrai piuttosto zelante. Un fatto merita di essere ricordato. In precedenza il nostro Sergente, quando si passava per i giardini pubblici, ordinava regolarmente l’ “attenti a ... des!” per salutare un busto del Duce, colà sistemato; quella sera volli rammentarlo al Sergente e così mi fu consentito, con mazza e piccone, di abbattere il busto dal piedestallo e poiché la testa era rimasta intera mi venne l’idea di portarla al Quartiere e di sistemarla proprio al centro della vaschetta di raccolta di un “vespasiano”.
La sera del 10 settembre il Colonnello riunì tutta la “Compagnia” e, in un accalorato discorso, ci rammentò i nostri doveri verso la Patria e ci dissuase dal fuggire; bisogna precisare che egli aveva fatto rimuovere con l’8 settembre il “fascio littorio” dall’arco frontale del portone di ingresso del nostro Quartiere, ma che la sera del 10 settembre aveva tolto quello di “Casa Savoia” ed aveva rimesso il “Fascio Littorio”. Forse questo spiega perché, al termine del suo infuocato discorso, il Colonnello si mise a confabulare con il Sergente. per sapere il nome di quello che aveva sistemato la testa del Duce nel vespasiano.
Nel frattempo i mezzi corazzati della Wehrmacht giunsero a Pizzighettone, occuparono i punti strategici lungo il Po e proseguirono verso Sud. Tutto questo mi convinse della necessità di cambiare aria al più presto, per cui trascorsi la notte fra il 10 e l’11 settembre in parte a discutere con i graduati, per la verità senza molto esito, sul pericolo di finire tutti in Germania ma in parte anche a fare piani di fuga che, a rammentarli oggi, erano piuttosto rocamboleschi. Comunque la notte porta consiglio e l’idea luminosa mi balenò al mattino; ne feci compartecipe un mio amico detto il “Siciliano”.
Ci aggregammo infatti alla corvé che andava a fare la spesa per la “Compagnia” e, durante la pesatura, chiedemmo il permesso di recarci al gabinetto. “Uno alla volta!” replicò il Sergente, sicché si avviò per primo il “Siciliano” mentre io stavo a sbirciare l’esito della sua fuga: sfruttando il catenaccio della porta, raggiunse il tetto, poi scavalcò il filo spinato e si buttò nel fossato del bastione. “Il soldato sta tornando” dissi al Sergente “adesso vado io”. “Vai pure” fece lui. Partii calmo ma, appena fuori dal suo controllo, arrivai in un lampo sul tetto e superai il filo spinato, senonché: “Manea! Torna indietro!” mi gridò il Sergente mentre stava estraendo la pistola. Allora mi girai e col braccio sinistro teso battei la mano destra sull’incavo del gomito, secondo la segnaletica d’obbligo in simili casi.
Però, gli diedi anche del cornuto. Poi, con un balzo acrobatico sorvolai tutto il fossato e patapumfete dall’altra parte, aiutato dal “Siciliano” a tirarmi su. Iniziò così la fuga a perdifiato attraverso le marcite delle risaie in un continuo cadere e rialzarsi, tutti sporchi e imbrattati di fango ma finalmente liberi. Dopo un chilometro si presentarono dei campi di granturco, stoppie e canali coperti d’alberi, ottimi luoghi per nasconderci, ed infatti ci fermammo in uno di questi fossati dove mi tolsi la giubba militare, che gettai in acqua, restando con la tuta. Quando il “Siciliano” vide che mi incamminavo verso Pizzighettone mi fece: “A’ Manea! sei pazzo?”. Gli risposi che gli inseguitori non avrebbero mai pensato che saremmo tornati indietro.
Dopo un mezzo chilometro ci siamo arrampicati ognuno su di una pianta dal fogliame denso e così, dalla nostra tribuna, abbiamo seguito i movimenti dei militari che stavano perlustrando la zona come cani mastini. Certo che abbiamo dovuto tenere i nervi saldi perché la nostra tensione era spasmodica. Si arrivò al calar del sole e, finalmente scesi dagli alberi, il “Siciliano” mi disse: “Bravo Manea, li abbiamo beffati”. Allora spartii quel po’ di tabacco che avevo e con le cartine ci arrotolammo una sigaretta per fumare e distendere i nervi; finché venne il momento dell’addio e di un abbraccio fraterno, poiché io ero diretto a nord-est ed il “Siciliano” dalla parte opposta.
Verso mezzanotte arrivai ad un cascinale di campagna dove si trovavano 6-7 militari, alcuni già in borghese altri in procinto di cambiarsi; dopo una cena modesta si dormì tutti nel fienile ed il mattino – era il 12 settembre – incaricai una donna della fattoria di procurarmi una “carta geografica”, che mi misi a studiare con cura, mentre altri sbandati stavano intanto sopraggiungendo. Quando verso le tre del pomeriggio decisi di mettermi in marcia, sei di loro vollero a tutti i costi seguirmi, malgrado avessi fatto presente che un grosso numero dava nell’occhio ed aumentava i rischi: non ci fu verso di liberarmene né potevo impedir loro di venirmi dietro.
Altre sette ore di cammino e alla fine si fece tappa in una fattoria. Ricordo che quella sera, prima di dormire, udii tanti commenti e speranze per l’avvenire ... chi pensava alla moglie ed ai figli ... chi alla madre, ai genitori, ai fratelli... quanti sogni! Alle sette ci si rimise in marcia disposti in modo che io mi trovavo in testa, altri due erano scaglionati a venti metri e così via. Avevamo appena superato un ponte di legno quando mi sembrò di udire il rumore di un motore ed una donna, che ci precedeva di un centinaio di metri, ci gridò: “Se siete soldati, scappate! Ci sono i Tedeschi!”.
Con i due che mi seguivano prendemmo la rincorsa per acquistare slancio e saltammo il fossato d’acqua profonda; uno cadde in acqua ma si aggrappò agli sterpi e riuscì anch’egli a scomparire nel granturco. Gli altri quattro pensarono di tornare verso i! ponte ma, appena imboccato, furono individuati dai Tedeschi che stavano sopraggiungendo con una motocarrozzetta e ... maledetti Tedeschi! ... furono falciati da una raffica di Spandau. Dal luogo dove mi trovavo potei vedere le “belve del Führer” avvicinarsi ai quattro infelici – uno alzò un braccio e qualche altro era probabilmente ancora vivo – e rotolarli nell’acqua del fossato.
Mai come in quel momento ho desiderato un’arma e, con le unghie che si conficcavano nel palmo della mano, giurai che sarei stato contro di loro con odio. Da quel fatto tragico nacque l’idea del mio nome di battaglia nella guerra partigiana: “Tar” cioè vendetta. Ma quel giorno, che era iniziato così male, doveva terminare con un’altra terribile esperienza. Infatti verso le quattro del pomeriggio arrivai presso una famiglia di contadini, dove il capofamiglia, dopo avermi offerto del pane e formaggio, vino ed anche delle sigarette, volle indicarmi la strada per proseguire, senonché mi accorsi che una donna della famiglia mi faceva dei cenni di diniego.
Sul momento non vi feci caso ma lungo la strada notai delle tracce di un cingolato che mi misero in sospetto e mi suggerirono di spostarmi a lato tra i vigneti ed il granturco proprio nell’attimo che stavano arrivando in lontananza dei Tedeschi; quando cominciai a correre mi spararono dietro. Fu a questo punto che, superando un fossato ,trovai il corpo di una giovane donna parzialmente denudata e che quegli assassini avevano violentato ed ucciso; infatti in seguito, presso una famiglia che mi ospitò, venni a sapere che nella zona si trovavano acquartierati in casa di un facoltoso fascista alcuni paracadutisti tedeschi.
Dopo due-tre chilometri mi fermai in mezzo al granturco per aspettare la sera e, nell’attesa, pensavo ai quei poveri soldati falciati dai Tedeschi vicino al ponte di legno, alla ragazza violentata e ad un mio compagno di prigionia, nella “Compagnia di Disciplina”, che mi fu subito amico fin dai primi giorni: vicino ormai alla sessantina, aveva sempre nutrito sentimenti anarchici e subiva continuamente processi per renitenza alla leva, fiero di questo suo atteggiamento (“Io sono un uomo libero! “).
Ripresa la marcia, pensavo tra me: “Quei fioi d’un can, se gai messo in suca de farme fare el giro d’Italia a pìe?!”. Dal 13 al 16 settembre le più gravi difficoltà furono di attraversare l’Olio, il Mincio e l’Adige, non essendo capace di nuotare; tuttavia riuscii a farcela con l’uso di tavole, “fascine” e qualche trave. Accolto infine presso una famiglia ospitale, non immaginavo che avrei avuto la prima sorpresa piacevole di quella giornata. Mentre stavo aspettando che una donna di casa mi preparasse qualcosa da mangiare, mi guardo attorno e poso gli occhi sulla foto di una persona che mi sembrava di conoscere: “Ma questa è mia sorella Fedora con il marito Agostino!!”. La donna allora mi fa: “Ma ... ma ... alora ti te si Ferucio?!”; aveva spesso sentito parlare di me, senza conoscermi di persona.
Chiamò tutti a raccolta e la sera restai con loro a raccontare le mie peripezie ... sentii che qualcuno singhiozzava ... era la zia mamma che piangeva per il figliolo che era in Russia; alla fine del mio racconto parecchi avevano gli occhi lucidi, altri invece si schiarivano la gola. Mi addormentai dopo la mezzanotte e al mattino, rifocillato e ripulito, dopo aver abbracciato tutti, partii, con passo gagliardo malgrado i piedi gonfi.
Ormai vedevo le mie montagne e mi sembrava già di essere a casa, benché vi fossero ancora molti chilometri da percorrere ed ognuno poteva essere quello fatale. Stavo camminando sul lato sinistro dell’Agno, ormai all’altezza di Tezze, quando trovo una donna che mi si getta addosso dicendo: “Piero mio, finalmente te si tornà”, poi... poi si allontana a guardarmi meglio e mi fa: “Ma ti, sìto Piero o no?”. Un’altra tragedia della guerra, una madre uscita di senno che, per una certa rassomiglianza, aveva ravvisato in me il suo figlio disperso; mi accolse in casa e mi diede da dormire. Purtroppo i! dramma di questa povera donna si concluse qualche mese dopo... ed io sarò presente alla sua morte, fingendo di esserne il figlio.
Il mattino successivo partii per l’ultima tappa verso Malo e quando fui alle “Ornare” di Priabona, mentre stavo dissetandomi, si avvicina un ragazzo di 12-13 anni che mi rivolge la parola: “Sélo un soldà?”. “Sì”. “Galo d’andar distante?”. “A Malo”. “Benon, sel vole, lo compagno mi in bicicleta” e così fece; a Gecchelina smontai e gli diedi le ultime due lire che mi restavano. Questo ragazzo più tardi entrerà nella mia formazione partigiana con i! nome di “Topolino”. Quando arrivai finalmente a casa fu un giorno dei più tristi della mia vita, perché all’appello mancavano cinque dei miei fratelli: dov’erano? ».
« L’8 settembre 1943 fu un’immensa tragedia che travolse tutto i! popolo italiano facendo della nostra terra il campo di battaglia di opposti eserciti stranieri, scatenando una lotta fratricida che iniziò con il proclama di Badoglio e con la fuga ignominiosa della famiglia reale e del suo codazzo di blasonati verso il Sud mentre i! popolo italiano e l’esercito venivano lasciati nel caos, mentre seicentomila soldati italiani venivano deportati in Germania ed altri venivano catturati per le delazioni fasciste.
Ho ricostruito la cronaca delle mie vicende in quei giorni, perché era un dovere il farlo, un dovere verso i compagni morti sul ponte di legno ... Essi stavano tornando ai propri cari, verso una madre, una sposa, i figli, come da sempre fa il guerriero vittorioso o vinto, stavano tornando in famiglia per trovare conforto e per risanare le proprie ferite materiali e morali ».
Malo, 25 febbraio 1978. Ferruccio Manea (« Tar I e II »).
LA FAMIGLIA MANEA
La situazione e le traversie della famiglia Manea durante la Resistenza risultano da una dichiarazione del Sindaco di Malo datata 28 ottobre 1946:
- La madre GALVAN TERESA vedova MANEA di anni 65 fu Imprigionata due volte, la prima dal 5 febbraio al 5 marzo 1944, la seconda dal 2 aprile all’8 luglio dello stesso anno.
- Il figlio ISMENE della classe 1908 fu confinato politico per 5 anni ed il 12 luglio 1944 fu barbaramente trucidato dal nazi-fascisti a Schio.
- Il figlio FERRUCCIO della classe 1914 ha subito persecuzioni di ogni genere ed è stato comandante di un Btg.ne garibaldino della Divisione « Val Leogra ».
- Il figlio ANTONIO (Cl. 1919) è stato prigioniero in Russia.
- I figli Giuseppe (Cl. 1910) e GILBERTO (cl. 1918) sono stati prigionieri in Germania.
- La figlia FEDORA di anni 25 fu imprigionata con una tenera creatura dal 20 giugno al 20 luglio 1944. Alla fine di giugno 1944 sono state portate via alla signora GALVAN, ad opera del nazi-fascisti, tutte le masserizie, utensili domestici, vestiario, biancheria, ecc. della sua casa situata in Via Lupo, 1, lasciando lei ed i suoi familiari assolutamente privi di tutto.
NOTA
Dei vari comandanti e Commissari nativi di comuni della Val Leogra si è scritto in parte nei precedenti Quaderni: di Alessandro Cogollo (« Randagi »), di Pierin Bressan (« Gastone »), di Gaetano Pegoraro (« Guido 2° »), di Igino Piva («« Romèro ») e di Biagio Penazzato (« Bob ») nel « Gruppo del Festaro »; di « Turco », di « Marte », di « Brescia » e di « Glori » nella « Repubblica di Poleo ». In questo Quaderno si è scritto di alcuni altri, mentre verranno in seguito pubblicate notizie di « Marat », di « Ciodi », di « Samuele », di « Guido », di « Moro »e di tanti altri, non appena e qualora pervenute.