QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Luglio 1978 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
Volume V
(da pag. 245 a pag. 250)
RICREAZIONE E CULTURA
1943-1945 DIARIO DI UN FILODRAMMATICO
di G.M. Grandesso
GIANMARIA GRANDESSO. Nato a Schio il 14-7-1928. Dal 1942 al 1977, impiegato presso la Carrozzeria per Autobus Luigi Dalla Via S.pA. di Schio. Appassionato ed assiduo attore nella filodrammatica dell’Istituto Salesiano di Schio. Ha conservato una documentazione che inizia il 17 marzo 1942, con nomi, lavori teatrali, fotografie ed annotazioni varie. La testimonianza qui riportata appare interessante per vari motivi: il « punto di vista », tuttora vivo, di un giovane quindicenne su alcuni aspetti di quel periodo; la storia di un gruppo filodrammatico locale; le notazioni di ambiente e di vita durante lo « stato di guerra » a Schio.
« Scrivere oggi a distanza di trentacinque anni sulla mia attività di giovanissimo filodrammatico nel periodo che va dal 1943 al 1945 sarebbe di modesto significato se non cercassi di ambientare gli avvenimento in quei ben definiti limiti che lo stato di guerra imponeva. D’altra parte è quasi impossibile tentare di far rivivere in poche righe quegli anni drammatici, anche per coloro che non avevano obblighi di leva e restarono a casa, anni trascorsi con allarmi aerei, tesseramento, ronde, oscuramenti, coprifuoco, bombardamenti, lasciapassare e, non ultimo, il famigerato ... “Pippo”.
Abitavo allora in via Pasubio, proprio di fronte al Lanificio Rossi, e quando la sirena cominciava a suonare perché l’ “amico” alleato proseguiva la sua ronda sulle nostre teste, venivo bruscamente svegliato da mia madre e spinto, ancora mezzo addormentato, dentro il rifugio dei giardini del Lanificio. Ricordo che a volte, durante quelle notti insonni, eludevo la vigilanza dei miei ed attraverso una presa d’aria uscivo in giardino, salendo poi per una scaletta a chiocciola sulla “torretta” ivi esistente, in attesa dormicchiando che il “Pippo”, con le prime luci dell’alba, se ne tornasse all’inferno, dove immancabilmente e con il cuore la gente lo rispediva; da buon “alleato” ci elargiva i suoi esplosivi doni negli orari meno opportuni con lo scopo di logorare i nervi della popolazione. Cosicché mi trovavo di giorno con il lavoro in ufficio, la sera con le prove in teatro, di notte con l’amico “Pippo”.
A causa del moltiplicarsi delle ore di allarme la produzione nelle fabbriche diminuì paurosamente e quindi, per evitare di correre ai rifugi ad ogni suono di sirena, si abbandonava il lavoro solo quando gli aerei erano “in vista” ed a questo scopo le industrie provvidero ad installare sull’edificio più alto della fabbrica un operaio “avvistatore di aerei” con tanto di binocolo e che aveva il compito di ascoltare, di avvistare chiaramente gli aerei, di individuarne la direzione perché, nel caso di deviazioni, il “nostro” avrebbe lasciato correre a vantaggio della produzione: solo quando gli aerei ci volavano inequivocabilmente sulla testa egli si decideva a suonare una campanella che significava una sola cosa: “gambe”! Per diventare avvistatori non esistevano corsi di abilitazione, anzi qualcuno era proprio... sordo, e ciò suscitava un certo comprensibile disappunto nelle maestranze. Ma se gli aerei erano gli amici che venivano da lontano per fare i nostri interessi, ben altri nemici avevamo all’interno.
Non mi riferisco a quelli vestiti di scuro, con pugnali e gagliardetti, ma a persone molto più terra-terra, quei molti contadini che del “mercato nero” avevano fatto una vera e propria arte! La maggior parte di loro non si accontentava di farsi pagare un prezzo esoso per ogni prodotto della terra ma, lamentando pericoli e paure, sono giunti a chiedere in pagamento solo anelli e collanine d’oro di famiglia, sempre però timorati di Dio e religiosi praticanti. A quel tempo vi ho odiati e parecchio, perché nel 1942 avevo quattordici anni, da due anni orfano di padre, ultimo di quattro sorelle e percepivo uno stipendio netto mensile di 285 lire, cioè l’equivalente di cinque chili di farina gialla da acquistare, dopo tante preghiere e raccomandazioni, presso i nostri contadini del luogo.
Questa allora era la mia realtà e la mia ... fame! A rallegrare gli anni della gioventù c’era poi il coprifuoco, che a volte iniziava molto presto la sera e finiva verso le sei-sette del mattino seguente. Allora, tutti in casa e... finestre tappate anche se fuori c’era il sole; su quelle che non erano chiuse ermeticamente le ronde sparavano e qualcuno ci rimise la pelle. Al mattino però si doveva uscire per andare a lavorare e per le strade a volte non mancavano le “retate”, una parola che sembra innocua ma corrispondeva a quel tempo ad un incerto e triste sistema di vivere.
La prima volta che incappai in una retata le cose andarono in questo modo: ero uscito per recarmi al lavoro e ad un certo punto vidi un folto gruppo di gente che mi veniva incontro; mi appiattii al muro per lasciarli passare ma subito mi accorsi che dietro al gruppo c’erano dei militari con il fucile imbracciato e la faccia tremendamente seria’ allora non mi restò altro che lasciarmi intruppare, buono buono, e condurre ad un posto di controllo donde fummo rilasciati solo dopo aver dimostrato – documenti alla mano – di essere in regola ma soprattutto di non essere qualcuna di quelle persone che cercavano.
Ripensandoci oggi, mi sembra impossibile che nel poco tempo disponibile per la ricreazione che il tremendo dramma della guerra ci concedeva, si trovasse il modo, la volontà e lo spirito sufficienti per pensare anche alle “commedie” ed alle “farse”. Eppure alle prove in teatro ci andavo tutte le volte che il coprifuoco me lo permetteva; anzi ci fu un tempo in cui, provvisto di lasciapassare, tornavo a casa dopo l’inizio del coprifuoco. In questi casi era d’obbligo camminare al centro della strada con le mani bene in vista, per quanto l’oscuramento permetteva, e, all’alt, alzare immediatamente le braccia al cielo attendendo immobili che la pattuglia di ronda si avvicinasse; dopo il controllo del lasciapassare si era invitati a rincasare al più presto.
Queste e parecchie altre cose ancora accadevano in quegli anni ... eppure, ripensandoci, quanto bei ricordi e, perché no, tanta nostalgia! Dovevano essere gli anni miei più belli! Certo furono quelli più intensamente vissuti, dedicati sì al lavoro di fabbrica, ma anche, appena possibile, al teatro, al quale mi ero accostato con una sorta di riverente rispetto e disponibilità ai servizi più umili, come si conveniva ad un apprendista manovale del teatro, categoria nella quale avrei poi lavorato per più lustri. Di quegli anni conservo un diario con date, nomi, foto e, qua e là, anche annotazioni oggi interessanti.
TEATRO. Erano cinque o sei i gruppi filodrammatici che si avvicendavano a quel tempo sulle “vecie tole” del teatro salesiano di Schio. Dalla superba filo “Concordia” dei “veci” a quella assai più modesta dei ragazzini di 10-12 anni c’era tutta una scala di valori oltre che di età, pur avendo in comune il senso del sacrificio e soprattutto una grande passione per il teatro. L’ambizione mia, e di altri ragazzi come me, era quella di riuscire a far parte un giorno della filodrammatica “Concordia”, anche se la gavetta era dura e la disciplina ferrea. Quanto lavoro e quanti copioni mandati a memoria! Dal luglio 1943 al giugno 1945 ebbi l’occasione di recitare per ben 41 volte in 27 luoghi diversi. Si andava dai drammi in 4 atti alle commedie leggere, ai bozzetti, alle farse, ai monologhi; e se a questo si aggiunge l’attività svolta dagli altri gruppi, si può avere un’idea sull’entità e sul ruolo ricreativo delle filodrammatiche nell’ambiente scledense nelle zone circonvicine.
RUOLI FEMMINILI. Naturalmente, o per meglio dire innaturalmente, si recitavano copioni per soli attori maschi e quelli per i ragazzi dai 10 ai 16 anni erano ben pochi. Siccome i “grandi” difficilmente si prestavano a recitare con noi ragazzi, dovevamo fare tutto da soli comprese le parti da anziani, con i risultati e la credibilità che tutti possono immaginare o... ricordare. Nel repertorio degli oratori, soppresso di forza il gentil sesso, restavano i copioni con soggetti storici per soli uomini o quelli di guerra, nei quali i personaggi erano tutti sicuramente di sesso maschile, anche le crocerossine. Il funambolismo degli Autori di simili testi portava a scrivere per uomini anche farse dal titolo “Veronica e Lussia”; il bambino era quasi sempre orfano di madre oppure questa era gravemente ammalata in una lontana casa di cura. I copioni migliori, se così si può dire, e quindi i più sfruttati dalle filodrammatiche, erano quelli abilmente ridotti per soli uomini dal teatro “normale”, pur con il pericolo di paradossali situazioni nei cambi di ruolo.
Ad esempio l’amante donna, per esigenze di unisessualità, diventava l’amico malvagio e di conseguenza l’originale situazione adultera si trasformava in perdizione nell’alcool o al tavolo da gioco in qualche lontano casinò, donde nel finale si tornava in bolletta ma pentiti. La moralità dei copioni teatrali era un tutt’uno con certe regole di comportamento nei confronti della donna nell’ambito dell’oratorio; si facevano degli enormi “distinguo” fra la Madre, le Sorelle e le ... ragazze, quest’ultime riguardate con sospetto perché potevano indurci a “cattivi pensieri”! Guai a chi sgarrava. Se un ragazzo andava a ballare era un “compagno cattivo” e poteva essere, somma infamia, cacciato dall’oratorio.
GLI ATTORI. Elencare i giovani e gli adulti che, per un verso o per l’altro, furono parte attiva in teatro è davvero impossibile. C’erano i “soliti”, che recitavano in continuazione per le loro capacità e per l’immutata passione; c’erano gli “occasionali” e la curiosa categoria degli “indifferenti”, con buoni requisiti ma scarsa volontà e che per recitare volevano farsi pregare con insistenza; infine i “disposti a tutto”, i quali, pur di restare in palcoscenico, si adattavano ai lavori di macchinista, di suggeritore, di elettricista, di truccatori e spesso ... di rompiscatole. A quel tempo, nell’insieme, vi era un giro di quasi duecento persone.
I MANOVRATORI. Questa schiera era guidata con solido polso e mano pesante da quel don Mario Milocco che è tuttora ricordato per il dinamismo, l’irruenza friulana e la gran passione per il teatro; c’era don Amelio Buoso, acuto e , comprensivo, infine il burbero dal cuor d’oro don Antonio Broggiato, molto concreto nelle sue attività. Al di sopra di tutti vigilava il direttore dell’oratorio don Alfredo Brancalion sulle cui spalle pesavano le tante e gravi responsabilità del momento. Pur così diversi di carattere, ognuno di loro portò il suo contributo a superare la difficile situazione.
STAGIONE TEATRALE. Iniziava da sempre l’8 dicembre, festa della Immacolata Concezione, e terminava in marzo-aprile con recite pomeridiane e serali, comunque sempre nelle giornate festive. Nel pomeriggio, normalmente, si esibivano le filodrammatiche dei ragazzi con qualche commedia in tre atti ed operette, ma soprattutto con atti unici, dialoghi, monologhi e farse: copioni “leggeri” per far ridere ... e ne avevamo bisogno in quei tempi! Il pubblico pomeridiano, composto quasi esclusivamente da ragazzi, era quanto mai difficile: a scena aperta si udiva un continuo brusìo, sussulti di pianto, grida, nomi che si rincorrevano da una parte all’altra della sala, rumoretti vari perché tutti a mangiare “carobe, bagigi, stracaganàsse, caècio dolse”. Sul baccano imperava a volte la voce del chierico preposto all’ordine e, negli attimi in cui il silenzio si ristabiliva, c’era immancabilmente l’ossessivo cigolìo della porta d’ingresso! Ci dicevano che questi pomeriggi teatrali servivano ai giovani filodrammatici per “farsi l’orecchio al pubblico”: ci sembrava giusto e ci bastava.
Dopo un tale apprendistato, e per meriti acquisiti, si passava alle recite con i “grandi”: inizialmente era la particina del servo muto, poi parlante, poi del comprimario e così via. Nelle recite serali veniva il pubblico degli adulti, abitudinario e sempre attento e comprensivo. Era il nostro, un pubblico che apparteneva a tutte le classi sociali, poiché tutti mandavano o avevano mandato i loro figli ai Salesiani per tradizione; sapevano incoraggiare il debuttante se vedevano buona volontà, ma non tolleravano di essere presi in giro: lacrime, ira, risate dovevano essere autentiche.
ORGANIZZAZIONE. Le recite venivano annunciate da pochi manifesti in formato “elefante”: 25, 30, massimo 50; la stampa locale riprendeva a volte la notizia ed il nostro pubblico si recava ad acquistare i biglietti, con giorni di anticipo, presso alcuni negozi del centro; chi attendeva la sera della recita si trovava spesso a dover far la coda davanti alla portineria, dove “Toni portinaro” teneva un banchetto per la vendita, e capitava spesso che parecchie persone non potevano entrare per la ressa. L’8 dicembre 1943 con il dramma “Credo” l’incasso fu di 2100 lire e nella replica del 12 dicembre di 1300; il 24 settembre 1944 con “Il grande silenzio” lire 2466.
I posti di platea erano numerati e funzionava un servizio di sala, mentre il riscaldamento era mantenuto da due stufe in cotto a legna, che bisognava accendere fin dal pomeriggio; invece in palcoscenico si attendeva con impazienza l’inizio della recita perché così, a sipario aperto, un po’ di caldo e fumo della sala arrivava anche da noi. Solo nel retropalco si accendeva per la recita una stufetta malandata che, alimentata a legna “verde” faceva solo ... fumo. Va da sé che le prove si facevano con sciarpa e cappotto a temperatura ambiente.
TRASFERTE. Già, c’erano anche le trasferte nelle località vicine, come ogni compagnia teatrale che si rispetti: a Magrè, a Poleo, a Pieve, solitamente vi si andava a piedi portando ciascuno il suo costume di scena in una valigetta; a Torrebelvicino, a S. Vito, a Piovene e, sempre in tempo di guerra partigiana, anche ad Arsiero ed a Valli del Pasubio, ci si arrivava con mille mezzi, dalla bicicletta propria, il fortunato che ce l’aveva, alla carretta, al camion a gassogeno. Si partiva nelle prime ore del pomeriggio e si tornava, coprifuoco permettendo, sempre troppo tardi per alzarsi arzilli il mattino seguente, che era lavorativo. Alcune domeniche si recitava due volte, spesso in ruoli diversi, ed in trasferta bisognava essere preparati a tutto.
Ad Arsiero ci attardammo oltre il coprifuoco e fummo costretti a chiedere asilo notturno presso le suore della Montanina e qui don Amelio pensò bene di bloccare con il suo letto la porta della stanza, perché al piano di sotto c’erano le ragazze in “ritiri spirituali”. In un’altra occasione fummo fermati, presso Valli del Pasubio, da due partigiani armati che chiedevano un passaggio fino a Torre: furono alloggiati in cabina sotto lo sguardo vigile di don Mario. Restando in argomento militare, venne messa in scena anche una commedia sulla Legione straniera e quindi ambientata nel deserto assolato, anche se poi le foto-ricordo con chepì e maniche arrotolate, fu scattata sulla neve del gennaio 1945.
LA FARSA. Era consuetudine in parecchi teatri della nostra zona che la serata teatrale si chiudesse con la farsa, altrimenti il pubblico non abbandonava la sala, per cui bisognava disporre sempre di un comico. Ricordo il “Gigi” che partiva dall’oratorio di Schio già vestito e truccato: pantaloni a quadri bianchi e neri, gilè malandato, bombetta, naso rosso, faccia imbiancata, labbra rosse rettangolari e, raffinatezza estrema, guanti bianchi; così vestito si recava nelle osterie del paese in cui si recitava a discutere e scroccare “ochete de graspa” ai clienti.
A metà del terzo atto dovevamo andarlo a prelevare. Tra le quinte “entrava in parte” e, all’alzarsi del sipario, così opportunamente “carburato” faceva faville, e il pubblico dimenticava per un attimo i tempi tragici e rideva... Naturalmente i filodrammatici “seri” non volevano aver a che fare con il Gigi, e lo dicevano apertamente.
OPERETTE. Qui non era possibile improvvisare. La loro realizzazione richiedeva tempi lunghi e molto impegno per mettere insieme l’azione teatrale con il canto e con l’orchestrina; si arrivò a più di 50 ragazzi in palcoscenico, a quindici “professori” d’orchestra e – per la prima ed unica volta – un vero “ciuchino”; fu nel febbraio-marzo 43 con “Pinocchio”.
SIPARIO. A ricordare queste cose, in altra età ed in tempi diversi, è facile sorridere, come del gioco delle bambole o dei trenini; gli anni hanno steso una vernice di colore diverso ed a scrostarla non si riuscirà mai a far ritornare intatta l’immagine genuina di allora, se non per coloro che vissero con me i migliori anni della loro infanzia in mezzo alla bufera della guerra ».
ATTORI «PRESENTI» NEL PERIODO OTTOBRE 1943 - FEBBRAIO 1945
Per alcuni le presenze non furono necessariamente continue.
Guido Anselmi, Gigi Barausse, Gianni Berlato, Vittorio Berno, Pietro Bertoncini, Ulderico Bevilacqua, Bruno Borga, Gigi Bortoloso, Gianni Boschetti, G.M. Chiozza, Piergiorgio Corà, Giangaetano Dal Brun, Giorgio Drago, Nino Dal Sasso, Michele Farma, Gastone Fochesato, Lelio Fongaro, Luigi Fantinato, Gasparella, Edo Gavasso, Mario Gavasso, Gior¬gio Ghiotto, Gianni Gonzato, Gianmaria Grandesso, Renato Greselin, Bepi Marcante, Ignazio Marchioro, Luciano Marigo, Roberto Marigo, Gianluigi Marigo, Gianorazio Manea, Antonio Meggiorin, G.B. Milani junior, Carlo Neffari, Gianni Neffari, Antonio Pietribiasi, Giovanni Pilotto, Carlo Pojer, G.M. Pozzolo, Giorgio Rigato, Rino Rigato, Vincenzo Ron¬coni, Nino Rossi, Lino Sartore, Nereo Sartori, Piergiorgio Scalco, Antonio Scaranto, Giorgio Scolaro, Gino Stocchero, Sergio Stocco, Eraldo Sandri, Bruno Vidus, Villa, Marcello Zanon, Berto Zaltron, Toni Zampieri, Mariano Zela, Nino Zerbato.
SCENOGRAFI PER « SAVONAROLA »: Prof. Siro Fongaro, Adriano Pupin.
TESTI TEATRALI ED AUTORI
(data della recita a Schio fra parentesi)
1. « IL MISTERO DELLA BUSTA GIALLA» - commedia (3 ottobre 1943). - 2. « COSTRUIRE »
commedia brillante (10 ottobre). - 3. « LO SPARVIERO » dramma medievale di R. Uguccioni (17 ottobre). - 4. « IL TOPOLINO DEL CASTELLO » - dramma medievale francese in 4 atti di R. Uguccioni (novembre). - 5. « CREDO » - commedia francese di G. Maggio (8-12 dicembre). - 6. « NE LE SPIRE DE I GIALLI» - dramma in costumi orientali di Benini (6 gennaio 1944). - 7. « SAVONAROLA » - 4 atti di G. Boschiratto (30 gennaio; 6-13 febbraio). - 8 « IL CAPOCOMICO TROMBONI » - 3 atti comici di Piovesan (22 feb¬braio) - 9. « EROI » - dramma di guerra di Scalco (5 marzo). - 10. « IL BUGIARDO » - di Goldoni (Pasqua 1944). - 11. « FIORI DI BOSCO » - commedia in 3 atti di C. Zia (30 luglio). - 12 « È LEI IL SIGNOR CIMASA?» - 3 atti burleschi di Avogadri (27 agosto-13 ottobre). - 13. « IL TEMA D’ITALIANO » - commedia in 2 atti di R. Uguccioni (8 settembre). - 14. « IL GRANDE SILENZIO » - commedia in 3 atti di C. Ambrosi (24 settembre). - 15. « LA GLORIOSA CANAGLIA » - dramma in 3 atti di A. Repossi (14 gennaio-25 febbraio 1945). - 16. « È TORNATA LA LUCE » - Commedia in 3 atti di R. Uguccioni (28 gennaio 1945). Attività sospesa nei mesi di marzo e aprile 1945.
DA « IL GAZZETTINO » (Pasqua 1944): « IL BUGIARDO » AI SALESIANI
« La stagione filodrammatica al teatro salesiano è stata quest’anno particolarmente attiva. Sul palcoscenico difatti si sono succedute diverse compagnie e il ricco e variato repertorio ha riscosso l’unanime ammirazione. In occasione della solennità Pasquale, la filosalesiana presenterà un altro lavoro impegnativo. « Il bugiardo » di Goldoni, nella riduzione per soli uomini. Protagonista sarà il giovane Grandesso affiancato da altri bravi, già noti attori. Si annuncia una accurata messa in scena e sfarzo di costumi. Lo spettacolo inizierà alle ore 20. I biglietti per i posti numerati sono in vendita presso la cartoleria Zironda in via Garibaldi ».