QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Maggio 1978 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
Volume IV
(da pag. 184 a pag. 186)
LA «PENA DI MORTE»
di E. Trivellato
« E più grande è il disordine, più austeri e repressivi diventano le norme ed i doveri, d’altronde poco osservati ». Georges Gurvitch
Il Codice Penale italiano oggi in vigore, pur con le modificazioni che seguirono, è stato approvato il 19 ottobre 1930 (R.D. n. 1398) e reca la firma di Vittorio Emanuele III, di Benito Mussolini e del Guardiasigilli Rocco. A tale Codice si era giunti In conseguenza di una Legge del 24 settembre 1925 (n. 2260), la quale delegava al governo del Re la facoltà di emendare quello precedente.
Sicché si arrivò all’approvazione del testo definitivo dopo cinque anni di elaborazione – dal 1925 al 1930 – cioè proprio nel periodo di « consolidamento » del regime fascista. Si pone allora un quesito non trascurabile: in quale misura il Fascismo, come governo del momento e per di più bisognoso di strumenti idonei alla conservazione del potere, riuscì ad influire sulla stesura e sul testo definitivo del Codice Penale sia a livello di giuristi preposti e quindi con pressioni e condizionamenti, sia cercando di spostare a suo favore i rapporti fra i diritti dello Stato e i diritti del cittadino? Ai giuristi, in primis, spetta il compito di un’analisi storica comparativa tra il vecchio codice penale ed il nuovo, ma sembra ragionevole pensare che un’influenza ci fu, e notevole.
Due affermazioni di Mussolini, fra le tante, esprimono con chiarezza le sue idee in proposito.
La prima – apparsa a Milano sul Popolo d’Italia del 6 aprile 1920 – appartiene al periodo rivoluzionario ed è la seguente: « Io sono per l’individuo, e il mio bersaglio è lo Stato. Abbasso lo Stato in tutte le sue forme ed incarnazioni! Lo Stato di ieri, di oggi e di domani. Lo Stato borghese e lo Stato socialista. Nel grigiore di oggi e nell’incertezza del domani, l’unica fede è la religione – oggi assurda ma eternamente convincente – dell’anarchia ».
Nove anni dopo, arrivato stabilmente al governo del paese ed investito quindi di responsabilità politiche, Mussolini così diceva a Palazzo Venezia il 14 settembre 1929: « Siamo i primi ad avere affermato, di fronte all’individualismo demoliberale, che l’individuo non esiste se non in quanto è nello Stato e subordinato alle necessità dello Stato e che, man mano che la civiltà assume forme sempre più complesse, la libertà dell’individuo sempre più si restringe. La libertà, di cui parlano le democrazie, non è che un’illusione verbale, offerta intermittentemente agli ingenui ».
Questo eloquio, non privo di una sua filosofia, si ebbe nel settembre 1929 ed un anno e un mese dopo veniva approvato il testo definitivo del nuovo Codice Penale, che entrò in vigore il l° luglio 1931.
Come avviene quasi di regola, il nuovo Codice fagocitò buona parte delle varie leggi e decreti precedenti, che erano stati emanati dal Fascismo nell’intervallo dal 1925 al 1930 e, tra le più importanti per la difesa dello Stato, era senza dubbio la Legge del 25 novembre 1926 (n. 2008), che non solo istituiva il Tribunale Speciale (vedi Inchiesta IV.) ma applicava anche la PENA DI MORTE per alcuni reati politici (attentati al Re ed al Capo del Governo). A questo punto si nota un fatto interessante e cioè che il Tribunale Speciale rimase regolamentato dalla sua legge istitutiva, come strumento di regime, mentre la Pena di morte entrò nel Codice Penale italiano con un ampliamento del suo ambito di applicazione.
Tra i vari delitti contro la personalità dello Stato, per i quali era prevista la Pena di morte, si notano:
Art. 242 - Il cittadino che porta le armi contro lo Stato italiano è punito con l’ergastolo. Se esercita un comando superiore o una funzione direttiva è punito con la morte.
Art. 247 - Chiunque, in tempo di guerra, tiene intelligenze con lo straniero per favorire le operazioni militari del nemico a danno dello Stato italiano, o per nuocere altrimenti alle operazioni militari (...), se raggiunge l’intento, è punito con la morte.
Art. 253 - Distruzione e sabotaggio di opere militari.
Se consideriamo, nel periodo della Resistenza, l’attività delle formazioni partigiane, le Missioni militari alleate, i sabotaggi agli impianti industriali ed alle opere militari, sembra evidente che tali reati erano passibili di pena di morte in base ai soli articoli del Codice Penale allora vigente. Infatti, dopo il 25 luglio 1943, con la caduta del Fascismo, venne soppresso il Tribunale Speciale con un Regio Decreto Legge del 29 luglio (n. 668) ma, ritenuto lo stato di necessità per cause di guerra, « la cognizione dei reati già spettante al tribunale predetto» venne devoluta ai Tribunali militari.
Invece la Pena di morte, essendo inserita nel Codice Penale, restò in vigore nell’Italia occupata dai Tedeschi fino alla Liberazione mentre nell’Italia del Sud venne abolita il 10 agosto 1944 con un Decreto Legislativo Luogotenenziale (n. 244). La Costituzione Italiana ne confermò l’abolizione nel1’art. 27: « Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra ».
Con i Codici Penali Militari, di pace e di guerra, le cose andarono ancor più lentamente. Vi era stata una Legge del 25 novembre 1926 (n. 2153), contemporanea quindi a quella istitutiva del Tribunale Speciale e della Pena di morte, che delegava al governo del Re la facoltà di provvedere alla riforma della legislazione penale militare. Ma i giureconsulti non furono molto solleciti perché il testo dei due Codici uscì quindici anni dopo, in piena guerra. Nel frattempo, durante questo lungo intervallo, Mussolini provvide a far emanare 15 decreti, leggi o bandi. Tra i più tempestivi fu il « Bando del Duce del Fascismo, Primo Maresciallo dell’Impero, Comandante delle truppe operanti su tutte le fronti - 20 giugno 1940.
XVIII. « Ordinamento e procedura dei Tribunali militari di guerra ».
Il testo definitivo dei due Codici Penali Militari uscì invece come il Regio Decreto n. 303 del 20 febbraio 1941 mentre, come si è detto, la delega alla riforma risaliva al 1926. Il Codice Penale vale per tutti i cittadini, quello Militare si applica ai cittadini che, in un dato periodo, siano « militari » in servizio alle armi e a quelli considerati tali (art. 1).
Durante lo stato di guerra entra in vigore la Legge penale militare di guerra e relativo Codice, che rimane valido non solo nei luoghi in stato di guerra ma anche per i reati commessi in altri luoghi, qualora possano recare nocumento alla condotta della guerra (art. 4). Interessante è poi l’art. 10, il quale prevede che « la legge penale militare di guerra si applica, in tempo di pace, anche quando un reparto delle forze armate dello Stato sia impegnato in operazioni militari per motivi d’ordine pubblico ».
Il libro Secondo del C.P.M. di guerra non si perde in preamboli nel trattare dei reati e delle pene militari in generale, ma comincia subito in questo modo: « Art. 25 - Luogo di esecuzione della pena di morte. - Durante lo stato di guerra, la pena di morte è eseguita nel luogo determinato dal comando dell’unità presso cui è costituito il tribunale che pronunciò la sentenza; salvo che la legge disponga altrimenti ».
Il libro Terzo del C.P.M. di guerra tratta i reati militari più in particolare e vi dedica 182 articoli, nei quali la pena di morte è presente Con una buona frequenza. Vi sono reati contro la fedeltà e la difesa militare: tradimento, spionaggio militare, diffusione di notizie militari, disfattismo, sedizione, violazione di ordinanze. Vi sono reati contro il servizio di guerra: doveri dei comandanti, resa, codardia, abbandono del posto, ubriachezza, diserzione, danneggiamenti militari.
Vi sono infine reati contro le leggi e gli usi della guerra: atti illeciti di guerra per nuocere al nemico o contro privati, violazione di doveri verso infermi, feriti, personale sanitario, reati contro i prigionieri di guerra e gli ostaggi, reati in corso di requisizioni o per abuso delle prede belliche.
In conclusione – nel periodo dall’8 settembre 1943 alla fine della guerra – erano in vigore il Codice Penale ed il Codice Penale Militare di guerra, ambedue con relativa pena di morte per parecchi tipi di reato. Come se ciò non bastasse furono emanati numerosi « Bandi militari »(C.P.M. di guerra art. 17, 18, 19,20) con valore di legge, sia da parte della Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.) che dei Comandi germanici di occupazione, dal momento che il comandante Wolff era responsabile delle operazioni per il mantenimento dell’ordine pubblico. Per dare un’idea della situazione allucinante che si era creata in Alta Italia non è fuori luogo riportare due soli paragrafi dell’ordine emanato da Kesselring verso i primi di agosto del 1944 (cfr. F.W. Deakin, op. cit., pp. 962, 963):
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3) Se in un distretto ci sono delle bande in maggior numero, allora in ogni singolo caso una certa percentuale della popolazione maschile del luogo è da arrestare e in casi di violenza da fucilare.
4) Se si spara contro soldati tedeschi ecc. da paesi; allora il paese è da bruciare. Gli attentatori oppure i capibanda sono da impiccare pubblicamente.