QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Maggio 1978 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.


Volume IV
(da pag. 211 a pag. 216)

LO SGANCIAMENTO NEI RASTRELLAMENTI
(ovvero voce del verbo « petotare »)


di Valerio Caroti

 

 

 

Luigi Meneghello nei « Piccoli Maestri » ci dà del rastrellamento un’immagine letterariamente preziosa ed efficace attraverso la lente delle proprie personali emozioni. In tal caso, per un medesimo rastrellamento, dovremmo avere centinaia di racconti e di immagini una per ciascuno dei personaggi che ha vissuto il fatto e questo è impossibile. Perciò riduciamo il tutto in due frasi, poco letterarie, estremamente prosaiche, ma altrettanto espressive e sintetiche, scaturite durante una corsetta « ad hoc » tra Bruno Brescia e il sottoscritto.


L’ambiente non era dei migliori per fare le battute, perché gli « altri » sparavano da cattivi, ma Bruno Brescia non perdeva mai il senso dell’umorismo neanche nei momenti più brutti. Bruno Brescia ghignando col fiatone grosso: « Giulio! semo proprio l’esercito che petòta! ». Giulio col fiatone meno grosso perché più magro, ma sempre col fiatone: «Bruno! meio petotare ancò ma podere sbarare anca doman! ».


Da quel giorno il verbo « petotare » entrò nel linguaggio corrente di tutte le formazioni della vallata racchiudendo nel suo concetto la filosofia e la tattica durante i rastrellamenti.


Allarme: « Tusi, petotare! ». Consuntivo: « Gavemo petotà da mati, ma ghe la gavemo fata e quelo el gà petotà più forte de tuti ».


Se le cose non erano andate male, ci scappavano delle risate. Si rideva di quello che aveva corso di più perché quasi sempre spuntava con la faccia insanguinata e il vestito sbrindellato dai rovi; si commentava chi aveva saltato meglio le « masiere » o le siepi e via dicendo. Per certo, qualche primato olimpionico in occasione di rastrellamenti, è stato largamente battuto ed è stato un vero peccato non aver potuto prendere tempi e misure.


Non bisogna stupirsi di quelle risate, fatto logico e naturale perché, in caso diverso, a quei ragazzi sarebbero saltati i nervi. Infatti voltando la pagina, si trova la tragedia: se uno veniva preso, la sorte migliore era per lui di venir subito fucilato, o meglio ancora, era essere uccisi in combattimento. La morte successiva significava una raffinata anticamera di torture che facevano desiderare la morte.


Oggetto della presente indagine è la tipica operazione che conducevano i nazi¬fascisti in zona montagnosa e collinosa contro i partigiani. È necessario in ogni caso, chiarire il concetto di rastrellamento specie per i quasi giovani e per i giovani.


È fin troppo ovvio che rastrellamento deriva da rastrello e dal verbo rastrellare e cioè pulire il terreno con l’apposito attrezzo a denti, da corpi estranei quali ad esempio le foglie sulla ghiaia del giardino, i sassi dalla terra dell’orto e via dicendo. In termini militari, il rastrellamento era una operazione bellica, solitamente vasta e complessa, con cui si tendeva a distruggere o quantomeno a sgominare e a disarticolare le formazioni partigiane che si ritenevano presenti in una data zona, incidendo anche sulle basi di supporto delle formazioni stesse, in modo che in quella zona sparissero di scena i partigiani.


Per queste sue peculiari caratteristiche, il rastrellamento si distingueva da altri tipi di operazioni condotte dai nazi-fascisti contro la Resistenza, quali gli attacchi e le operazioni di rappresaglia.


Gli attacchi erano improvvisi e con un obiettivo unico frutto certo di qualche spiata; le operazioni di rappresaglia avevano il solo scopo di spargere il terrore tagliando l’erba, come si suol dire, sotto i piedi dei partigiani mediante distruzione di contrade e uccisioni di civili.


Il rastrellamento, come disegno tattico, poteva essere « concentrico » e questo era il più impegnativo per le forze partigiane, perché condotto su vasta zona con un enorme dispiegamento di uomini e mezzi: esempio classico quello di Posina effettuato da una organica divisione corazzata SS e da un reggimento di alpenjagher.


Oppure poteva essere « a raggera » con più colonne divergenti che tendevano, dopo un certo percorso a convergere a due a due abbozzando la manovra di accerchiamento di singoli spazi più o meno ampi. Anche questo tipo di rastrellamento interessava di solito una zona notevolmente vasta e richiedeva un forte impiego di truppe anche se di varia provenienza e un cospicuo uso di mezzi; esempio di questo tipo di rastrellamento è stato quello del 17-18 giugno 1944. Vi era infine un terzo tipo di rastrellamento, quello « unidirezionale » condotto su un fronte più o meno vasto a seconda della entità delle forze impiegate: quest’ultimo era il meno pericoloso. Naturalmente questi tipi di operazione subivano di volta in volta delle varianti. I Partigiani si trovarono a fronteggiare, e nella nostra zona con una certa continuità, queste emergenze.


Alcuni fattori, che agivano congiuntamente, determinavano nelle varie formazioni, la scelta di una condotta piuttosto di un’altra: tipo di formazione partigiana, frequenza dei rastrellamenti, conformazione e natura del terreno, viabilità del medesimo e stagione.


Di solito i grossi raggruppamenti partigiani si verificavano in valli o su altopiani che restavano in tutto o parzialmente in angolo morto rispetto alle direttrici strategiche tedesche. In tali casi il rastrellamento avveniva di rado, c’erano lunghi periodi di quiete tanto che le forze partigiane tendevano ad assumere fatalmente una organizzazione tipo esercito con consistenti reparti riuniti. Ma quando capitava il rastrellamento erano affari molto seri: il più delle volte, perché lo sganciamento non era agevole, si accendeva un combattimento di forte intensità e anche se i partigiani impiegavano qualche arma pesante, lo scontro era impari e portava a delle conseguenze funeste.


Ma l’analisi di queste situazioni e di questi comportamenti, esula dal nostro studio perché implicherebbe dei giudizi e nessun interessato può ergersi a giudice; solo lo storico di domani potrà, se del caso, fare delle valutazioni. Ma vi è di più: nella economia generale della Resistenza, intesa come fenomeno di popolo, la morte in combattimento o per fucilazione di cospicui gruppi di partigiani, spesso frutto di errori tattici, ha svolto una funzione altamente stimolante e simbolica per cui la Resistenza stessa si è arricchita di nuovi fermenti.


Dalle nostre parti la struttura delle formazioni era diversa.


Occorre premettere che tra le formazioni guerrigliere di montagna e i territoriali (o patrioti) dei centri abitati pedemontani e della periferia scledense, esisteva una saldatura perfetta, per cui i partigiani potevano agire anche in pianura (assai spesso) e occultarsi facilmente con l’aiuto dei secondi.


Identica saldatura esisteva con la gente delle contrade di montagna e di collina. Questo tipo di simbiosi consentiva inoltre allarmi e segnalazioni tempestive e ciò a tacere delle informazioni che provenivano dalla parte avversaria per mezzo di amici sconosciuti.


I fattori favorevoli alla guerriglia erano:


1) una zona montagnosa e collinare molto movimentata e rotta in valli, valloni, vallette comprendendosi in ciò sia le valli nostrane, sia le finitime valli trentine come ad es. la Val Terragnolo;
2) i boschi, che in talune parti si spingevano in alto, in prevalenza cedui ma fitti e rigogliosi dalla primavera a oltre metà autunno con un sottobosco in molti luoghi quasi impenetrabile;
3) innumerevoli anfratti e recessi praticabili solo da esperti alpinisti.


I fattori sfavorevoli erano:

1) l’ubicazione geografica della zona che, percorsa al suo interno da due direttrici importanti, Val Leogra -Vallarsa e Val d’Astico, costituiva una specie di cuneo tra la Val d’Adige e l’alta Valsugana venendo con ciò a trovarsi in un nodo primario per il flusso tedesco in Italia. Era logico che i tedeschi ponessero particolare cura e attenzione a questa plaga manifestando la loro sollecitudine con una serie ininterrotta di rastrellamenti a causa anche della « irrequietezza » dei partigiani locali.
2) Una fitta rete di strade, retaggio della prima guerra mondiale, copriva (e copre tuttora) come una ragnatela, l’intera zona. Dette rotabili consentivano il percorso agli automezzi e ai blindati nemici, senza contare le numerose mulattiere che agevolavano le marce. Perciò a causa di queste opere militari, hanno sudato due generazioni: i nostri padri nel costruirle e noi nel correre.


In siffatte condizioni, le formazioni partigiane dovevano essere estremamente articolate: c’erano brigate, battaglioni, distaccamenti, perché la consistenza numerica dei guerriglieri era ragguardevole, ma sul piano tattico e della sussistenza, la formazione fondamentale consisteva nella pattuglia di 10-12 uomini molto mobile.


La pattuglia doveva avere i collegamenti sempre buoni con il comando di distaccamento (e questo a sua volta con il comando superiore), però doveva essere autosufficiente, capace di autonome decisioni in qualunque necessità. La pattuglia, infatti, costituì il tessuto portante della guerriglia. Le pattuglie stavano molto distanziate tra loro e solo sporadicamente si riunivano nel distaccamento.

Ciò avveniva in casi eccezionali in vista di qualche operazione che richiedeva un maggior numero di uomini. Mai, nel modo più assoluto, un battaglione si trovò riunito e tanto meno la brigata: più volte si dette il caso che un battaglione o l’intera brigata agissero in un solo contesto: ma l’azione, anche se simultanea, avveniva tramite singole pattuglie o, al massimo, con singoli distaccamenti su obiettivi diversificati e distanti tra loro.


Con formazioni così articolate venivano impiegati vantaggiosamente, durante i rastrellamenti, metodi che diversamente non potevano essere usati, e gli organici si ricomponevano con relativa rapidità cessato il rastrellamento.


Ciascuna pattuglia, appena giunto il preavviso o l’allarme, o anche in caso di improvviso sopraggiungere del nemico, sapeva cosa fare. Essa era sempre internata nei boschi, o in baite e case al limitare dei boschi: non doveva stare nelle conche anche se nascoste, né nei valloni e tanto meno su una cima: la pattuglia doveva raggiungere una cresta che gli consentisse di vedere da tutte le parti.


Individuata la direzione del rastrellamento, la pattuglia si ritirava davanti ai rastrella tori mai per valloni o per dossi, ma sempre a mezza costa o sotto cresta finché il rastrellamento si esauriva. Nel caso di rastrellamento concentrico, la pattuglia dopo avere individuato lo schieramento nemico, valutate le direttrici degli assalitori, si scindeva, se necessario, in due o tre nuclei e questi, andando incontro ai rastrellatori, sempre per mezza costa o per luoghi impervi, filtravano al di là dei reparti nemici.


Per quanto fitto e massiccio potesse essere lo schieramento avversario non era mai tale da coprire una zona e c’erano sempre spazi, per cui la manovra di filtrare al di là riusciva pressoché sempre.


Il fatto stesso che le pattuglie fossero disseminate su vasto terreno con larghe distanze, e che fossero altresì mobili, rendeva ai rastrellatori assai problematica la scelta delle direttrici su cui muovere e il rastrellamento, per quanto grande e complesso in uomini e mezzi, era destinato in partenza a conseguire, il più delle volte, un insuccesso totale o quantomeno a raggiungere risultati irrisori. Se questi criteri di condotta non fossero stati mediamente seguiti, non ci si potrebbe spiegare come il tessuto organizzativo delle formazioni si sia mantenuto indenne, anzi con una crescita continua, nonostante gli ininterrotti rastrellamenti che hanno avuto luogo a partire dall’aprile del ’44.


La manovra della ritirata davanti al rastrellamento o la manovra del filtraggio sono state le manovre per eccellenza. Ma si poteva dare il caso, peraltro raro, che queste manovre in determinate circostanze, non fossero possibili. Soccorreva allora un terzo tipo di condotta tattica: la dispersione.


Ogni bosco, ogni montagna hanno luoghi impenetrabili e assolutamente impervi: la pattuglia si scindeva ancora di più e i singoli gruppetti disperdendosi si occultavano in questi siti; fattore essenziale della riuscita era che il nemico in alcun modo riuscisse a scoprire a distanza ravvicinata il gruppetto in movimento. In molte di queste occasioni i partigiani si son visti passare i rastrellatori a pochi metri. I tedeschi seguivano sì sentieri e sentierini, ma non amavano troppo il fitto e l’impervio, limitandosi a buttare delle bombe a mano o a sparare raffiche a casaccio. Perfino nel corso del grandissimo rastrellamento di Posina, quando i nazisti con incredibile dovizia di mezzi spararono migliaia e migliaia di granate nei boschi e sui dirupi e pettinavano sistematicamente i valloncelli con mitragliatrici e con mitragliere da 20 mm., questa tattica ebbe un successo insignificante: le artiglierie batterono dirupi inutili e le mitragliatrici pettinarono valloni vuoti.


Nel 1944 l’inverno giunse precoce: al 20 di novembre la neve aveva fatto la sua apparizione fin verso i 700/800 metri e i boschi avevano perduto quasi tutto il fogliame.


L’adattamento alla diversa situazione, era stato preceduto da una manovra utilissima consistente nella immissione graduale nella Todt di tutti i partigiani non compromessi perché non conosciuti.


I Tedeschi si erano impegnati alacremente a fare lavori di fortificazione, e per quel frenetico lavoro tutti erano buoni purché capaci di adoperare piccone e carriola. I tedeschi sospettarono qualcosa, ma chiusero tutti e due gli occhi perché, in fin dei conti, erano tutti fucili in meno a sparare contro di loro. Inoltre verso la metà dicembre, i tedeschi non avevano più fiato per fare rastrellamenti di una certa consistenza e non potevano fidarsi troppo delle truppe indiane e meno ancora delle brigate nere più inclini alla ferocia e alla rappresaglia che al coraggio.

Con qualche buon vecchio maresciallo tedesco, stufo della guerra e pensoso della sua famiglia, furono addirittura allacciati cordiali e interessanti rapporti. Ci fu, insomma, tra il comando partigiano e i tedeschi un reciproco interesse. Non si trattò di qualche decina di partigiani, bensì di qualche centinaio sempre organizzati in pattuglie, sempre mobilitabili in ogni istante e con il deposito di armi ben occultato a portata di mano. Il comando partigiano da parte sua, ebbe così dei problemi minori di organizzazione anche se pur sempre enormi. Infatti in montagna e nelle colline erano rimaste varie centinaia di uomini.


Fu mantenuto il sistema delle pattuglie assai distanziate tra loro anche se non più mobili ma con basi fisse. Nelle zone alte se la neve dava fastidio ai partigiani, ne dava ancora di più ai tedeschi i quali non amavano affatto muoversi con reparti consistenti laddove la neve inibiva o limitava grandemente i movimenti.


Pertanto quelle pattuglie, pur soffrendo fame e freddo, rimasero relativamente tranquille. Per le pattuglie più in basso fu escogitato il sistema dei nascondigli completamente mimetizzati. Ogni pattuglia aveva uno o due nascondigli (detti bunker) nei luoghi più impensati, ma quasi sempre agganciati a un abitato o ad una contrada di gente fidata per confondere le orme in caso di neve.


Qualche nascondiglio, peraltro, venne a trovarsi in luoghi inaccessibili quasi da incubo. Ne ricordo in particolare uno: si trovava in un vallone incassata tra pareti a picco e sul fondo correva il torrente. Il nascondiglio, consistente in una caverna dalla stretta imboccatura e con una uscita tortuosa e più stretta su altro luogo difficile, si apriva circa a 20 metri di altezza sulla parete rocciosa. Il vallone era in ombra, pieno di ghiaccio e neve ma sul torrente non c’era neve perché correva l’acqua. Dentro stavano una ventina di partigiani: uscivano quando era necessario di notte, pochi per volta. Si calavano sul terreno con una scala a corda che veniva poi ritirata, camminavano con gli stivali nell’acqua per non lasciare tracce.


Quando rientravano, la scala a corda veniva calata e poi ritirata e da nessun luogo pieno di precipizi, la caverna poteva essere veduta. Il nascondiglio o i nascondigli di una pattuglia non erano noti ai componenti della pattuglia vicina, inoltre di giorno i partigiani stavano nascosti, di notte giravano.


Di notte, durante l’inverno, in collina e in montagna i tedeschi non si azzardavano a circolare. Durante l’estate avevano addestrato qualche gruppo di SS ucraine che nel buio si acquattavano entro i boschi e che ci procurarono qualche perdita: ma d’estate i partigiani giravano prevalentemente di giorno.


Così furono superati i due ultimi grandi rastrellamenti del 1944: quello del primo e quello del sei dicembre nei quali i tedeschi impiegarono per l’ultima volta, parecchie migliaia di uomini. Cadde qualche partigiano perché sorpreso fuori o perché imprudente. Infatti non fu scoperto un solo nascondiglio e per confondere l’olfatto dei cani, nei dintorni dei nascondigli veniva sistematicamente sparso, in modo invisibile, un materiale comunissimo ma di sicura efficacia.


Durante l’inverno i Tedeschi fecero ancora qualche puntata in forze modeste assieme a reparti di brigate nere, ma con scarsa convinzione e con risultati ancora più scarsi, e non poterono mai incidere sulla capacità operativa delle formazioni che mantennero la loro compattezza e la loro agilità; i partigiani rimasti alla macchia, i partigiani infiltrati nella Todt e i bravi patrioti (detti anche territoriali) facevano un tutt’uno organizzato. Ma ai più e ai giovani è ignota la somma di sacrifici, di sofferenze e di drammi che ha costituito lo sfondo del semplice schema organizzativo delineato in questo articolo.


Solo ascoltando i racconti scarni di coloro che vissero l’esperienza dei rastrellamenti o della guerriglia, è possibile cogliere, in parte, la dimensione veritiera di quei fatti.


A questo punto può essere posta la domanda del perché, se i criteri di sganciamento e di occultamento erano così ben congegnati, le formazioni partigiane della nostra zona abbiano avuto tanti morti. La risposta è facile. I partigiani morti in rastrellamento o a seguito di rastrellamento sono stati relativamente pochi rispetto al numero complessivo. Si è avuto uno stillicidio, ma mai una ecatombe; nemmeno l’unico episodio di una certa gravità sul piano tattico che fu Malga Zonta, può essere considerato una ecatombe nel vero senso della parola; esaminato obiettivamente il fatto nel grande contesto che fu il rastrellamento di Posina, l’episodio di Malga Zonta, lungi dal deprimere gli animi, ha rianimato i combattenti.


In secondo luogo i partigiani, anche se estremamente frazionati in pattuglie mobilissime, erano parecchie centinaia ed è inevitabile che qualcuno incappasse nel nemico tenendo presente l’ininterrotta serie di rastrellamenti.


In terzo luogo e qui tocchiamo degli aspetti intimi, ogni persona ha un momento di « baùco » (come si dice in veneto) in cui allenta la circospezione rimanendo travolta dall’imprevisto. Infine, ogni uomo per quanto sia rotto ai rischi, ha il suo attimo di paura. Chi dice il contrario, è un bugiardo, perché la paura è un sentimento primordiale e istintivo come l’amore, l’ira, la gioia ecc.


La paura è nemica del razionale che doveva guidare la condotta durante il rastrellamento e pertanto qualche partigiano, preso dal panico, cadeva nell’errore irreparabile. I partigiani erano dei ragazzi che avevano fatto una scelta coraggiosa, .ma non per questo erano degli eroi a oltranza come per troppo tempo una retorica falsa ma soprattutto ingiusta, li ha descritti togliendo a loro, con ciò, dei meriti e come tutti i ragazzi della loro età, talvolta avevano anche paura.


Al di là dello schema tattico che si è dimostrato valido, c’è tutta una storia da scrivere, una storia di ragazzi e di uomini con i loro drammi personali fatti di una alternanza di angoscia, di lucida determinazione, di pacato coraggio, di astuzia, di speranze deluse, di paure, di altruismo spinto al sacrificio della vita, di miserie, di gioie per le vittorie o per la salvezza del compagno, di dolore per i caduti e perché no, anche di combattimenti disperati, di torture feroci, di ire incontenibili e di corse a perdifiato con la compagnia di una fame lacerante.


Solo in questa dimensione schiettamente umana, i fatti hanno un senso reale e acquistano autentico valore.

Maggio 1978

Valerio Caroti