QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Novembre 1980 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
 
 
Volume XII
[da pag. 609 a pag. 617]

MIGRAZIONI IN ASIAGO


di E. Trivellato

 

 


Nella primavera del 1944  singole persone o gruppi di Schio e della Val Leogra si recarono – chi a piedi attraverso i monti e chi con il trenino del Costo – sullAltopiano di Asiago per recuperare armi e munizioni provenienti in parte dallo sbandamento dell’8 settembre 1943 ed in parte dai primi aviolanci degli Alleati.

 

 

Non è facile un chiarimento della situazione reale delle pattuglie partigiane in Asiago nella primavera del 1944, in quanto vi si trovavano gli elementi stanziali (1), quelli che per essere del luogo o per elezione erano intenzionati a restare stabilmente sull’Altopiano, ma anche molte pattuglie di elementi foresti attratti provvisoriamente sul luogo dal miraggio di recuperare armi e materiali.

 

 

Dalle testimonianze e dai memoriali si riceve l’impressione che ne sia derivata una gran confusione, non solo nella spartizione ma anche negli orientamenti e nei modi di fare guerriglia; si viene a sapere che vi furono sparatorie accidentali fra partigani stanziali e foresti, che nacquero incomprensioni, che sorsero divergenze politiche, che furono improvvisate azioni di qualche pattuglia un po’ troppo indipendente, che ci scapparono dei morti per incidenti d’arma, che il vettovagliamento e la sussistenza non erano stati approntati in maniera confacente alla situazione.

 

 

Vi furono inoltre i primi approcci fra capi-pattuglia e comandanti (spesso con ruolo non ben definito) i quali erano di estrazione, mentalità, idee politiche e comportamenti molto diversi. Di questo breve periodo asiaghese primaverile si è scritto nel bene e nel male, ma, a mio parere, proprio per la fluidità della situazione, con punti di vista che necessitano di verifica. Senza creare ulteriore confusione di idee, ho ritenuto comunque interessante riportare qui di seguito alcune testimonianze di gente della Val Leogra. Molte altre notizie sull’argomento dovrebbero venire raccolte in una storia della Resistenza in Valdastico, i cui partigiani, per motivi anche geografici, ebbero costanti rapporti con l’altopiano di Asiago.

 

 


Note (1)

 

Dall’unione degli elementi stanziali (nativi o residenti sull’altopiano di Asiago) con altri saliti sull’altopiano da Vicenza, Thiene ed altre zone del Vicentino ed aventi affinità di idee e di intenti venne progressivamente a definirsi un insieme di pattuglie che portarono al GRUPPO BRIGATE “SETTE COMUNI”.

Il Gruppo ha una sua storia di Resistenza armata e civile e quindi si rinvia a quanti su di esso hanno scritto (Giulio Vescovi ed altri). In questa sede, per brevità di spazio, riporto alcuni “APPUNTI DI CRONISTORIA PARTIGIANA” stilati molto in sintesi da “Ancos” (?) subito dopo la Liberazione (cfr. IL PATRIOTA – n.ro 5 – Vicenza, 29 luglio 1945):

 

“La preparazione fu intesa fin dall’autunno 1943. Difatti l’11 ottobre di quell’anno, a mezzo di Franco Ferrari, arrivano ad Asiago da Rocchette, sotto mentite spoglie, tre Inglesi fuggiti da un campo di prigionieri, e che si uniscono ad altri due preziosi interpreti le cui matricole sono irreperibili in seguito alla morte del patriota Rigoni Ernesto Cçccolo. Vengono ricoverati in una galleria di monte Durcanotto ed alimentati dagli abitanti della contrada Bosco.
Il 3 novembre seguente un gruppo di cosiddetti ribelli si porta a Marcesina per cercare del materiale da una presunta “caduta aerea” in realtà mai avvenuta, sebbene il Comando G.C. di Foza avesse assicurato un tentativo del genere.
Un marinaio da Padova viene nel penultimo di dicembre salvato, perché ricercato come renitente. In casa Rigoni e – nel torno – altri quattro studenti, pure padovani e perseguitati, trovano sicuro asilo presso la famiglia Rigoni Boemo, mentre il capitano Piero Costa, per essere stato avvertito dal maresciallo Molinas (purtroppo poi impiccato a Padova) delle ricerche poliziesche a suo carico, riesce ad eclissarsi.

Le redini del movimento sono assunte con ogni rischio dall’esperto capitano Dal Sasso, allorchè nel 14 gennaio 1944 il tenente Costa venne arrestato e incarcerato a Vicenza, ove rimane per 105 giorni, e Rigoni Giobatta (Titti) è costretto a sparire dalla circolazione per l’alta montagna. Il casuale ferimento di Mario da Campiello, inferto da Brocca, sconcerta un po’ gli amici dei compagni. (NdA – Il tessuto resistenziale sull’Altopiano in questo periodo della sua genesi fu sicuramente più esteso, complesso ed articolato specie nei rapporti fra elementi di montagna e di pianura. Ai fini delle nostre migrazioni sono interessanti i mesi di marzo, aprile, maggio 1944, i quali vengono sintetizzati negli Appunti come segue.

LANCI E SABOTAGGI – 19 marzo 1944 – A cura del Comitato di liberazione di Padova (cap. Marini, F.lli Rocco, Ing. Chilesotti) viene eseguito un altro buon lancio in Valle di Nos, ma per mancanza di mezzi di trasporto nella eccessiva sosta, il materiale subì ruberie e danni.
21 marzo – Con ottimo risultato segue una terza pioggia di rifornimento aereo, 27 marzo – Durante la notte i distributori Scaggiari e Carli consegnano armi, anche pesanti, alle squadre attive di Camporovere (cap. Vescovi Giovanni) e di Foza (ten. Oro Bruno); altre sono affidate al Cap. Dal Sasso, imperterrito malgrado le persecuzioni contro la propria famiglia ed i suoi beni.
Vengono scelti come staffette per i lanci Rigoni Giacomo (brigadiere Nappa) e per gli ordini cifrati e corrieri Rigoni Caterina (Fiamma).
29 marzo. Arriva in località convenuta, cioè presso l’acquedotto della Rèndola, con audacissimo viaggio che sfida ogni controllo e posto di blocco, un camion del C.L.N. di Padova per caricare parabellum, celati da Rigoni Giobatta (Nanni) in propria abitazione.
Esso incontra un ferito al ventre, nella compagnia di Ivan, e che, soccorso dal dott. Cavazzani e da Pietro Scaggiari, viene trasportato all’Istituto di Mezzaselva sotto le cure del Prof. dott. Campiglio.
S’era casualmente colpito da solo in località Giardini, mentre il Caneva millanta di avergli lui sparato.
1° aprile – Rientra, ferito nel fuggire dalla prigione ad un occhio, Pierino Scaggiari (Regolo), che – ben truccato – è spedito a Bassano e, per la guarigione a Villa Berica.
Vien costituita un’apposita ed allenata squadra, con sede permanente in alta montagna, per i lanci. La compagnia di Ivan si batte leoninamente sul Grappa.
18 maggio – Riescono a rientrare da Vicenza Pietro Costa e Antonio Giuriolo, tra l’indesrivibile giubilo dei soci; nella seconda decade del mese seguono altri due lanci buoni, intorno a cui lavora l’adeguata squadra predetta, comandata da Dino e composta di Camporovesi con alcuni da Asiago quali collegatori.
29 maggio – Una nostra pattuglia che portava viveri da Canove viene sorpresa alla Scaletta in Valdassa, ma con decisione di tiro si salva, dopo aver ucciso cinque rastrellatori.
31 maggio – Catturati in Valdassa, vengono fucilati alle ore 7,45 nel cimitero di Asiago, dinanzi alle fosse già scavate e senza alcun giudizio neppure sommario, Pretto Francesco di Giobatta da Pedescala (cl. 1923, residente a Rotzo), e il sofferente di malcaduto Anselmi Pietro (24 anni, da Treschè Conca). La popolazione resta allibita.
5 giugno 1944 – Nonostante la cattiva sorte toccata alla Brigata “Teo Caremi” una quarantina di decisi giovani dell’Altopiano, con alla testa “Giulio” (sottoten. Rodeghiero Alfredo) riescono alla resistenza e si aggrappano più a nord quasi introvabili, come sedegnose aquile.
20 giugno – Il cap. Dal Sasso, che subisce ogni angheria e sfida ogni ricerca, malgrado l’incendio della propria casa in Morar, continua la lotta, assumendo il Comando del Btg.ne “SETTE COMUNI” per la riorganizzazione ed azione”.

 

I. - LA MIGRAZIONE DI “BIXIO”

 


Primo Righele (Bixio) di S.Caterina del Tretto (cfr. pg. 135), amico di Giovanni Garbin (Marte) di Schio – Poleo, così racconta:

 

“Nella primavera del 1944 Marte si trovava in ottimi rapporti con i badogliani dell’Altopiano di Asiago e ricordo che gli avevano promesso di mandargli delle armi al Colletto di Velo (purtroppo arrivammo sul posto troppo tardi perché impegnati nel disarmo ai Grisellini dei Carabinieri di Piovene).
Dello spostamento sull’Altopiano si cominciò a parlare verso la fine di aprile 1944 e, come può confermare anche Pietro Bonollo, le disposizioni giunsero dal C.L.N. di Padova tramite quello di Schio.
Marte, e dello stesso parere era anche Turco, si dimostrò contrario a concentrarsi sull’Altopiano, ma venne ugualmente a discuterne con me per organizzare l’esodo; quando gli feci notare che era appena stato fucilato mio padre, Marte disse che purtroppo l’ordine di Padova era quello e bisognava attenersi alle loro disposizioni.
Intanto cominciavano ad affluire nuove reclute ed avevamo alzato una tenda comando al Costo del Varo come posto di smistamento; Bonollo scriveva a macchina gli elenchi ed assegnava i nomi di battaglia. Si formarono delle pattuglie che stazionavano a S.Caterina prima di partire per l’Altopiano.
Intanto in quel periodo avvenne lo scontro ai Corobolli, dove Marte e Turco restarono feriti. Io partii verso fine maggio con un gruppo di una quarantina e con molte reclute (ricordo Tom, Nettuno, Venere, Luganega). Attraverso il bosco del Tretto ed il Colletto di Velo piccolo, tenendoci verso Priaforà, siamo scesi a Velo d’Astico ed a Barcarola, dove ci aspettava il “Moro” di Treschè Conca come staffetta.
Al mattino eravamo al Ponte della Valdassa e verso Conca siamo entrati in un rifugio in roccia, dove i partigiani della “/ Comuni” ci diedero da mangiare. Dopo 7-8 ore siamo partiti per il Ghertele e poi verso Porta Borcole nelle Malghette. Il giorno dopo con metà uomini ci siamo portati al campo di lancio a Porta Manassi, dove c’era l’ordine di non sparare nemmeno ad una lepre.
Avevamo un nostro settore, assegnatoci come Battaglione “APOLLONI”. Con me c’erano Tom, Macario, Bille, un russo, forse anche Libertà.
Nel pomeriggio, durante uno spostamento, un gruppo di badogliani ci hanno sparato addosso con il Bren, credendo che fossimo dei fascisti in perlustrazione; in seguito, chiarite le cose, si sono scusati e ci hanno offerto gentilmente da mangiare e da bere.
In quel periodo abbiamo ricevuto almeno due lanci, ma a fine maggio avvenne il rastrellamento e lo scontro a fuoco a Porta Manassi ed al Ghertele, dove furono catturati Luigi Dal Santo da Santorso e Luigi Organo da Poleo (poi fucilati a Bolzano).
A sera siamo partiti per Campedello e Cogollo, dove Tom andò con metà uomini verso la Birreria di Piovene, mentre io con l’altra metà mi diressi al Bosco di Velo. All’alba siamo passati proprio vicino all’accampamento fascista di Velo e qui le due giovani sentinelle hanno buttato giù le armi scappando e gridando: “Ci sono i ribelli aarmati fino ai denti!!”
Alcuni di noi volevano attaccare, ma io non lo ritenni prudente. Cosicchè siamo arrivati a S.Caterina con una barba incolta da 25 giorni ed un aspetto spaventevole; nel rastrellamento avevamo perduto i materiali, ma in compenso eravamo ben forniti di armi e soprattutto del Bren”.

 

 


II. - LA MIGRAZIONE DEL “TAR”

 

 


Tra i primi a salire sull’Altopiano fu senza dubbio Ferruccio Manea (Tar). Il Tar, con il fratello Ismene ed altri, si trasferì più volte in Asiago. Le vicende di questi spostamenti sono già state pubblicate nel periodico “Il Mille” (gennaio e maggio 1966) in un memoriale a puntate dello stesso Manea.

 

In sintesi il Tar aveva fatto una puntata in aprile 1944, quando restò ucciso in un incidente d’arma il turritano Tarcisio Conzato (7 aprile). Poi, nella prima decade di maggio, il Tar ripartì da Raga per il Monte Enna con i suoi uomini, tra i quali ricorda i maladensi Pelo, Pacifico, Scarpa, Furia, Tom, Salata; attraverso il Colletto di Velo scesero in Val d’Astico e poi risalirono sull’Altopiano, dove – per rifornirsi di viveri – tesero un’imboscata alle salmerie fasciste che da Asiago rifornivano i reparti di Cesuna.

 

Dopo un incontro con Leone Franchini (Franco) di Padova, con un certo Gianni, con Orfeo Vangelista (Aramina), con Attilio Andreetto (Sergio), il gruppo maladense si spostò verso il Ghertele nella zona dei lanci; nella rotabile vicino al rifugio Barricata attaccarono con successo cinque camions con tedeschi e fascisti.

 

In quei giorni era avvenuto un lancio e nella spartizione nacque un violento alterco fra il Tar ed i suoi da una parte e Franco ed Aramin dall’altra, verso i quali il Tar conserva ancora un certo risentimento perché i due si atteggiavano un po’ troppo a comandanti in capo.

 

Per altre fonti ho l’impressione che la zona fosse surriscaldata parecchio da contrasti di competenza; anche sul piano operativo (attacchi, scontri, rastrellamenti) si notano partecipazioni a più mani, contemporanee o subentranti, con difficoltà di individuare i ruoli e le responsabilità.

 

Sicchè ognuno, di quel periodo, ha l’agio di raccontare la sua versione e di esprimere il suo punto di vista.

 

Il Tar infatti scrive: “Molti ricorderanno quando, dopo esserci armati fino ai denti, lasciammo il Ghertele indignati verso il comportamento di coloro che in qualità di comandanti ci avevano rifiutato un pugno di zucchero; dopo il mio ritorno in Raga feci il mio rapporto a Valerio Caroti (Giulio) ed anche oggi mi domando il perché Nello Boscagli (Alberto) mi pregò diverse volte affinché lo ritirassi”.

 

Dal Ghertele il Tar, anche in previsione di un rastrellamento, si spostò verso Conca Bassa, dove conobbe Marco, Spiridione e Barba. Si nascosero in grotte per alcune settimane, senza coperte ed affamati. 

 

Tra i molti incidenti e scontri, va ricordato l’attacco al trenino di Asiago al Colle della Pendola, concordato con Antonio Frigo (Tango) di Canove), e con Federico Covolo (Brocca) pure dell’Altopiano ed effettuato, oltre al Tar, con il fratello Ismene, Carlo Marchioro (Buffalo), Guerrino Panozzo (Renga), i due fratelli Saugo (James e Bill) ed altri.

 

Con la speranza di catturare un noto comandante fascista di Asiago, il gruppo aveva costituito un posto di blocco stradale a Ponte Campiello, ma, sopraggiunto l’imbrunire senza risultato, decisero allora di assaltare il trenino al Colle della Pendola, presumendo che il comandante fascista fosse sul treno.

 

Così scrive il Tar: “Già era buio e noi desperados eravamo acquattati…..finalmente l’arrivo del treno, scatta l’attacco e come fantasmi si piomba sul convoglio sperando di trovare il capitano fra i passeggeri. Nelle fasi drammatiche dell’attacco Tango, che vuole entrare nel vagone, si trova contrastato da un fascista che in posizione favorevole sta per avere la meglio; qualcuno di noi allora spara al fascista e salva il compagno. Finalmente il treno si ferma…..e comincia poi a retrocedere….urla di spavento, perché se non si riesce a fermarlo, saremmo finiti con un bel salto fino a Cogollo. Con cigolii e scossoni finalmente si ferma e la gente si trovò incastrata anche sotto i sedili. Nella lotta abbiamo un nostro ferito, ma siamo riusciti a recuperare 5-6 pistole, un paio di mitra, diverse bombe a mano, 5 armi lunghe e vestiario” (cfr. il racconto di Bruno Zanin di Schio, ferito nell’attacco).

 

 


III. - IL TRENINO DEL COSTO

 

Un ruolo importante per il recupero di armi ebbe il vecchio trenino che da Schio, attraverso Piovene e Cogollo, saliva a cremagliera lungo il Costo fino ad Asiago.

 

Antonio Nardello (Thomas) di Pieve racconta infatti:

“Una spedizione in Asiago per il recupero di armi ebbe luogo dal 15 marzo al 4 aprile 1944. Siamo partiti da Torrebelvicino in 12 persone, salendo a Schio a SS.Trinità, sul trenino che andava a Rocchette e di qui con quello del Costo; si dormiva nelle malghe e ricordo che una sera vi fu una sparatoria con i fascisti, i quali però non si fidarono di entrare nel bosco fitto.
A turno, sempre con il trenino, si portavano giù le armi e le sipe, evitando la stazione di Schio dove c’era un controllo; da SS.Trinità si passava attraverso i campi fino a fondo Torre”.

 

 

Meno liscio fu invece il viaggio di Gaetano Pegoraro, la cui testimonianza è la seguente:

 

“A pochi giorni dall’avvenuta cattura del gruppo del Festaro (17 ottobre 1943), venni incluso nel Comitato Militare costituitosi a Schio – proprio in seguito a quell’accadimento – per far fronte al senso di sbandamento che si era creato nell’organizzazione clandestina e per ricostituire l’unità colpita.
I membri del Comitato: Baron Domenico, Veghini Fulvio, Broccardo Gildo, Sella Luigi, Pegoraro Gaetano (Guido 2°) si riunivano in Via Riboli a casa del Sig. Bergozza.
In quel momento erano necessarie nuove armi che sapevamo recuperabili sull’Altopiano di Asiago dallo stock abbandonato l’8 settembre dalla compagnia di guastatori lassù operante.
Queste armi costituivano un armamento individuale modernissimo, che veniva distribuito esclusivamente a reparti speciali dell’esercito, destinati a compiere colpi di mano, azioni di guerriglia ecc.
Io, e dietro mia richiesta Sella Luigi (Rino), fummo incaricati di prendere collegamento con i fratelli Sgaggiari di Asiago, onde eseguire concretamente il recupero. Al medesimo scopo fu inoltre stanziata dal C.M. la somma di L. 3.500, che il compagno Veghini Fulvio provvide a mettere a nostra disposizione.
Il 20 novembre dunque, servendoci del trenino della Veneta, il Sella ed io abbiamo raggiunto Asiago. Preso contatto senza inconvenienti già in mattinata con gli Sgaggiari, ci accordammo in un secondo appuntamento pomeridiano sulla consegna di sette mitra, vari moschetti e relative munizioni. Il ritiro del materiale sarebbe avvenuto nei giorni seguenti mediante l’uso dell’automobile di Bruno Zanon, da noi preventivamente impegnato. (A causa dell’arresto mio e del Sella, avvenuto la sera stessa, si procrastinò il recupero delle armi a dopo la mia liberazione dal Forte S.Mattia di Verona).
In quel giorno ci fu ad Asiago una distribuzione di manifestini a mano di residenti locali, ragion per cui il gruppo di alpini alle dipendenze del Serg. Caneva, ed il distaccamento di tedeschi ivi dislocati, si trovavano mobilitati alla ricerca degli autori della distribuzione.

Inconsapevoli di quanto stava accadendo, pur notando l’insolito movimento di tedeschi e fascisti, io ed il Sella prendemmo posto sul treno (in sedili discosti per misura prudenziale) sicuri di far ritorno a Schio. Attendevo la partenza e già per la verità vi era un certo ritardo rispetto all’orario prefissato, quando vidi entrare nel vagone il Serg. Caneva e un M.llo SS. I due si diressero decisamente verso Sella ed un signore sedutogli di fronte, ed intimarono loro di seguirli alla caserma dei Carabinieri poco discosta dalla stazione. Circa dieci minuti più tardi i due sottufficiali fecero ritorno al treno, rimasto sempre nel frattempo sorvegliato all’esterno da militari tedeschi, e mi prelevarono.
In quel breve lasso di tempo avevo, per fortuna, nascosto la pistola sotto un termosifone dello scompartimento.
Accompagnato a mia volta alla caserma dei Carabinieri fui sottoposto ad interrogatorio ed accusato di essere, con il Sella, responsabile della distribuzione dei manifestini. Addosso non ci fu trovato nulla di compromettente, tuttavia ci trattennero, come sospetti, in camera di sicurezza.
I Carabinieri – in particolare il Brigadiere del posto – si comportarono inappuntabilmente nei nostri confronti servendoci, fra l’altro, la cena nella loro mensa.
Il mattino successivo, prelevati dal Serg. Caneva e dal M.llo tedesco, fummo tradotti a Vicenza e consegnati alla Feldgendarmeria. Trasferiti al carcere di S.Biagio e successivamente al Forte S.Mattia di Verona a disposizione delle SS. Ripetutamente interrogati e rilasciati a metà febbraio del 1944”. Gaetano Pegoraro.

 

 


IV. - IL RACCONTO DI BRUNO ZANIN

 

BRUNO ZANIN. Di Giuseppe (panettiere) e di Pozzato Caterina. Nato a Schio il 26.6.1922, residente in via Pasini 54. Di leva nel Genio trasmettitori, all’8 settembre 1943 si trovava a Roma con Giovanni Miglioranza di Sanvito (cfr. pg. 464) e con Giovanni Zambon di Torrebelvicino.

 

Rientrato in famiglia a Schio, restò renitente. Il suo lungo racconto è interessante per i collegamenti con l’ambiente della Resistenza e per gli aspetti particolari della sua drammatica vicenda.

 


“Nel febbraio del 1944 mi recai da Gastone Sterchele per sentire notizie sulla possibilità di aggregarmi alle formazioni partigiane, in costituzione nella zona, ma egli mi consigliò di attendere – forse perché al momento la situazione era di disagio per la stagione invernale e per le difficoltà di rifornimento.
Allora ci siamo consigliati fra amici e si decise di presentarci al Distretto, in attesa anche degli sviluppi della situazione.
Fui assegnato in Aviazione, alle Casernette di Vicenza.
Ogniqualvolta era possibile, tornavo a Schio assieme al mio amico Giuseppe Sartori, tintore al Ponte sul Leogra e così potei mettermi in contatto con Giambattista Milani (Vice Segretario Comunale).
Proprio al ritorno da Schio, una mattina – rientrando alle Casermette – sentimmo parlare di trasferimento e così decidemmo subito di scappare. Saltai per primo il muro di cinta ma purtroppo un ufficiale che girava l’angolo della strada mi vide e venne verso di me; gli andai incontro, consentendo così al mio amico Sartori di poter fuggire; infatti, egli raggiunse Schio a piedi e rimase nascosto e renitente fino alla Liberazione.
Finii in prigione e, dopo tre giorni, essendo la Compagnia in partenza, mi fecero salire sul treno per Recoaro dove i nostri Ufficiali ci consegnarono ai tedeschi.
Alla prima “libera uscita” (una domenica) tornai a Schio, mi recai da Milani il quale mi mandò a casa di Gerardo Perandini in via Gorzone a prendere istruzioni.
Il lunedì mattina seppi che alcuni tedeschi – guidati da un fascista – erano stati a cercarmi al Sojo (dove abitavo un tempo); mi recai subito in portineria del Lanificio Conte dove era impiegato Perandini e gli dissi che dovevo andar via al più presto; mi rispose: “Trovati da solo in Stazione oggi alle ore 16.30”. Rimasi nascosto durante quelle ore in casa di mio fratello Piero, abitante in via Giano Reghelin, assieme a Germano Cortiana, anche egli renitente.

All’ora stabilita, in stazione trovai Perandini e, poco dopo, giunse anche Valerio Caroti che mi disse di salire sul treno di Asiago e che, giunto a Rocchette, vicino alla locomotiva, avrei trovato un ferroviere alto e con i baffi, per darmi nuove istruzioni.

Questi infatti mi disse di scendere a Treschè Conca dove avrei visto una donna con due valigie, alla quale avrei dovuto chiedere se aveva uova da vendere. Questa (Maria) mi accompagnò a casa sua, dove – poco dopo – arrivò “Spiridione” (Panozzo) che mi condusse in alcune caverne di Conca Bassa dove si trovavano alcuni prigionieri alleati.
Dopo un paio di giorni mi aggregarono ad una pattuglia comandata dal “Brocca”; a quel tempo c’erano già stati dei lanci, ma c’era scarsità di viveri e spesso era la popolazione della zona che ci sfamava.
Conobbi anche “MIRO” (Romano Marchi) e ricordo che mi ispirava fiducia per la chiarezza di idee, di organizzazione e di efficienza. Per la prima volta sentii da lui e da qualche altro (forse Aramin?) discorsi di orientamento politico che – considerando i tempi – mi lasciavano perplesso.
Il Brocca accennava intanto ad una costituenda Divisione Ortigara e si recava spesso ad Asiago a prendere ordini. 
Sinceramente, devo dire che – avendo potuto scegliere – sarei rimasto per molti motivi con Spiridione. La mia carriera partigiana si concluse invece il 19.4.1944. Avevamo già fatto in precedenza diversi appostamenti stradali per poter catturare alcuni fascisti di Asiago; quel giorno, il Brocca disse che ne avremmo potuto trovare sul treno del Costo.
Data la fragilità della nostra nascente organizzazione, ero contrario a questa azione, che avrebbe sicuramente richiamato l’attenzione dei tedeschi. Fermato il treno, io salii su un vagone e uno dei fratelli Saugo su di un altro (gli altri nomi, a tanti anni di distanza non li ricordo).
Era piuttosto buio: intravidi due persone in divisa: ingiunsi loro, con la pistola puntata, di scendere dal treno con le mani alzate. Fatto qualche passo indietro, mi sentii avvinghiare al collo: cercai di divincolarmi mentre anche uno di quelli che avevo di fronte mi assaliva. Sentii un gran calore alla testa e svenni. Ero stato colpito da una pallottola alla gola e da una di rimbalzo – entrata nel cervello con altre schegge – nella zona parietale sinistra.

Non so quanto tempo rimasi svenuto ma riprendendo lentamente conoscenza, ebbi la sensazione di essere ancora sul treno che era in movimento; ma non riuscivo a vedere niente ma mi resi conto di essere solo (forse perché creduto morto) in uno di quei piccoli scompartimenti. Pensai subito di fuggire e, annaspando, cercai un finestrino, lo apersi e mi lasciai andare di peso fuori dal treno.

Cercai di risalire qualche metro sulla scarpata boscosa per nascondermi meglio; aveva cominciato a piovere, ero intirizzito per il freddo e con i vestiti bagnati. Mi resi conto di essere ferito alla testa perché toccandomi con la mano sentivo il sangue che fuoriusciva. Finalmente arrivò l’alba: non sapevo dov’ero e cominciai a scendere dal bosco: vidi la strada e mi resi conto di essere vicino a Campiello e, lentamente camminai fino a Treschè Conca.
Andai all’osteria Al Sole dove mi conoscevano bene e, per non comprometterli, dissi che mi sarei rifugiato in una malga distante circa tre Km.; chiesi che informassero i miei compagni, e loro mi diedero una coperta. Arrivai alla malga stremato che era già giorno e – salita una scaletta – mi coricai nel piccolo fienile.

Non so dopo quanto tempo giunse “Miro” e pensai subito che fosse venuto per finirmi, perché, dopo la cattura di un partigiano ferito e trasportato in Asiago si era convenuto, di comune accordo, che un ferito grave in mano ai fascisti poteva costituire un pericolo per tutti.
Invece “Miro” mi disse che alla sera sarebbe tornato per portarmi via. Era forse il primo pomeriggio quando sentii forti grida e comandi in tedesco; mi fecero scendere – c’erano anche dei fascisti – e, con il mitra puntato alla schiena, mi fecero risalire la montagna; volevano che li portassi dov’erano nascosti i partigiani. Continuavo a cadere, così decisero di farmi ritornare a Conca: mi accompagnarono due tedeschi e almeno questi non mi sollecitavano con la canna del mitra a rialzarmi alla svelta ad ogni mia caduta.
Dopo due-tre ore di sosta all’OSTERIA DELLE OCHE una ambulanza mi portò all’ospedale militare tedesco di Caldogno.

Qui fui portato in sala operatoria e poi in una stanzetta, con due tedeschi sempre di guardia per circa 40 giorni.
Ricordo che venne un prete tedesco per armi l’estrema unzione e alla fine mi disse: “Ha detto dottore che tu domani o dopodomani morire”. A questo punto, gli dissi chi ero e dove abitavo. Passati un paio di giorni, sentivo che cominciavo a riprendermi; cominciai allora a pensare ad una versione che non coinvolgendo nessuno (alla notizia della mia cattura sparirono da Schio sia Milani che Perandini, temendo di essere arrestati) mi consentisse, nel caso fossi sopravvissuto, di salvarmi.
Dopo una decina di giorni subii il primo interrogatorio, ma avevo avuto il tempo di prepararmi.
Dissi che quella domenica ero venuto da Recoaro a Schio per vedere la famiglia e che al ritorno – essendo stata bombardata la stazione di Vicenza – mi ero avviato a piedi verso Monte Magrè dove dei partigiani mi avevano bloccato, forniti gli abiti civili che indossavo e costretto a seguirli. Dissi che avevo sentito che aspettavano ordini per passare in Jugoslavia e unirsi ai partigiani di Tito; mi avevano portato con loro sull’altopiano di Asiago e lì mi trovai ferito alla testa e abbandonato.

Trascorsi altri 20 giorni sempre a letto e piantonato; quindi fui prelevato e portato alla Caserma Sasso di Vicenza, sede delle SS, dove subii un altro pesante interrogatorio, e finalmente avviato al Forte S.Leonardo di Verona. 
Lì si trovavano anche Grigolato di Resecco (ferito ad una mano) e Antonio Comparin delle Aste (ferito alla testa).
Avendo ancora la ferita aperta avrei potuto andare in infermeria, ma preferii rimanere in cella, dove potevo parlare con qualcuno; eravamo stipati come sardine – circa 60 prigionieri per 40 posti letto su castelli – con l’aria irespirabile.
Ogni mattina eravamo costretti a scendere velocemente le strette scale a chiocciola che portavano in un piccolo cortile rotondo, per prendere aria.
Al centro del cortile c’era un pozzo e mentre tutti i prigionieri (circa 250) erano costretti a correre per “FINFE” al comando del Maresciallo Mayer e del carceriere Clef, i feriti e qualche vecchio potevano camminare, mani dietro alla schiena, attorno al pozzo.
Era qui che i quasi 50 condannati a morte, rinchiusi nelle celle a pianterreno, si aggrappavano alle sbarre delle strette finestre per chiederci notizie sull’avanzata degli alleati; altra nostra speranza era la deportazione in Germania. Si vide poi che entrambe le speranze erano mal riposte.
Ogni giorno, qualcuno della cella veniva chimato all’interrogatorio: i più tartassati erano quelli che erano stati presi dopo essere stati paracadutati in quella parte dell’Italia occupata.
Purtroppo i tedeschi ne catturavano molti, perché qualcuno aveva parlato e così riuscivano a decifrare i messaggi che Radio Londra dava per questi lanci.
Tornavano dagli interrogatori con il viso tumefatto e qualche dente rotto; avevano poche speranze di salvarsi. 
Un giorno, attraverso le feritorie della cella ne ho visti due che stavano per essere portati a Forte Procolo, dove venivano eseguite le condanne a morte.

Anch’io un mattino venni chiamato per l’interrogatorio; ci caricavano su una macchina in 4-5, e ci portavano al Comando SS vicino ai Portoni della Brà. In una stanza a pianterreno, sorvegliati da una SS, ci mettevano, faccia al muro, uno per parte e dovevamo rimanere per due o tre ore immobili in attesa di essere chiamati all’interrogatorio.
Nel frattempo le due mie sorelle Maria e Gianna, venute da Milano, seppero che la Signorina Eccli di Vicenza (negozio di Liquigas a Schio) era riuscita – tramite un interprete e un maresciallo tedesco – a fare uscire il fratello che era stato catturato mi sembra verso Crespadoro.
Le mie sorelle vennero così a conoscere il maresciallo e l’interprete e, per farmi liberare, portarono da Milano impermeabili e giacche a vento di nylon, che erano allora una novità.

Il maresciallo tedesco riuscì ad avere nelle sue mani la pratica “BRUNO ZANIN”, mi fece un ultimo interrogatorio, mi minacciò che una seconda eventuale cattura sarebbe stata oer me fatale, diede infine il visto per l’uscita e l’ordine di presentarmi ad un Corpo di Aviazione ad Arzignano.
Presumo che non sia emerso il collegamento fra la mia cattura in malga, senza armi, e la mia presenza sul trenino del Costo con la pistola in pugno.
Avevo sempre febbre e dolori al capo e quindi, a furia di marcar visita, venni ricoverato in due ospedali militari tedeschi ed infine congedato con l’esenzione da qualsiasi servizio di lavoro.

Mi trasferii così a Milano presso le mie sorelle e qui, dopo varie peregrinazioni in diversi ospedali civili, venni operato, nel mese di novembre 1944 all’ospedale di Bellano (lago di Como) dal Prof. Fasiani. Appena in tempo, in quanto le schegge ossee ritenute nel cervello avevano iniziato un’infezione.

La convalescenza fu lunga e disagiata, anche per i continui bombardamenti, comunque restai a Milano sino alla Liberazione”.