QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Novembre 1978 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
Volume VI
(da pag. 289 a pag. 292)
NOTE DI DIARIO
Premessa redazionale
Alcune «storie individuali» non rientrano nelle vicende militari o partigiane della seconda guerra mondiale ma fanno parte dei suoi aspetti civili meno brillanti ed epici e per questo di solito trascurati dagli studiosi o raccontati molto in generale. Eppure alcuni racconti di storia minore consentono a volte di ricostruire il clima del tempo con uguale validità rispetto ai grandi avvenimenti. Per queste considerazioni si è dato in precedenza un piccolo spazio al diario di un filodrammatico ed in questo Quaderno vengono riportate le «note di diario» di uno scledense ritornato a Schio dopo 1’8 settembre 1943 e che, pur non avendo partecipato alla guerra partigiana, ha saputo cogliere e raccontare, attraverso le sue vicende, alcuni tratti importanti del clima e dei drammi del tempo.
NOTE DI DIARIO
di Giovanni Meneghini
GIOVANNI MENEGHINI. Nato a Schio nel 1915, disegnatore tecnico, figlio di Giovanni e di Loprieno Maria.
«La mia vicenda è marginale allo svolgersi della Resistenza e ne può fornire solo dati di contorno.
Il 14 maggio 1943 avvenne il primo bombardamento aereo di Civitavecchia, dove mi trovavo in qualità di istruttore per i corsi dei telescriventisti, presso la Scuola Centrale del Genio. Avevo il grado di Sergente maggiore e stavo compiendo degli studi per eventualmente dare un esame liceale. Dopo il bombardamento si scese tutti in città per iniziare una operazione di soccorso e nei giorni seguenti ci si accampò nel bosco del poligono.
Mandai a casa tutti i miei libri alla notizia che la Scuola veniva trasferita a Macerata. Là al 25 luglio apprendemmo della destituzione di Mussolini. Ricordo che il 26 successe una cosa curiosa: partecipai ad una appostazione fuori città, che aveva lo scopo di arrestare l’ingresso di truppe tedesche. Oggi sappiamo che l’operazione Alarico (cioè l’occupazione dell’Italia da parte Germanica) era entrata in fase operativa pacifica dopo il convegno di Feltre del 19 luglio ’43 ma l’ordine O.P. 44 (cioè la reazione ad eventuali attacchi da qualunque parte provenienti) del Comando Italiano è stata studiata alla fine di agosto o ai primi di settembre, legato agli accordi preliminari dell’armistizio badogliano. Come e con che ordine, della truppa armata poté venir opposta ai tedeschi in quella data?
Comunque tedeschi non se ne videro ma il 27 la truppa della Scuola venne consegnata per 3 giorni entro il famoso sferisterio di Macerata, armi e bagagli, con picchetto antiparacadutisti. In quel tempo i giornali uscivano con lunghe colonne in bianco per censura, tuttavia si sapeva dello sbarco anglo-americano in Sicilia, dopo la capitolazione delle armate italo-tedesche in Africa. Si sapeva della formazione del nuovo governo democratico ma si sapeva anche che la sua preoccupazione era politica e non militare. Ciò preoccupava noi non poco.
Una novità per la Scuola furono due spettacoli che vennero dati in cortile da due compagnie di avanspettacolo. Il primo’ spettacolo ebbe luogo il 17 luglio e l’altro verso la metà di agosto. Ricordo un balletto di sei ballerine fra le quali ce n’era una che piangeva sconsolatamente e che, scossa dai singulti, ripeteva meccanicamente i passi di danza. Nessuno intervenne a sospendere il numero. Disgustoso. In quel tempo aveva ben ragione di piangere.
L’otto settembre, al diffondersi dell’annuncio dell’armistizio, fu chiaro a tutti che la matassa stava sbrogliandosi, per quanto non fosse altrettanto chiaro come i tedeschi avrebbero potuto adattarvisi; purtroppo lo sapemmo presto nel vuoto di provvedimenti che seguirono.
Nel tardo pomeriggio del 15 settembre si seppe che il giorno dopo una colonna della «Panzer» tedesca sarebbe venuta a Macerata per occupare le caserme nelle quali i militari italiani si sarebbero dovuti trovare, inquadrati e disarmati, nel cortile; questo fu anche l’ordine del Comandante della Scuola, ordine che cosa mai vista, sollevò vive proteste della truppa; scioltasi l’adunata tra gli spari delle pistole degli ufficiali, per ordine del Comandante, e calata la sera, cominciò l’esodo dei militari della Scuola, in assenza di qualsiasi ufficiale.
Mia moglie si trovava a Macerata ed io avevo il permesso di pernottamento fuori caserma, per cui il mattino seguente rimasi in dubbio sul da farsi. Ad una certa ora vidi avanzare la colonna tedesca; seppi poi che avevano trovato in caserma solo qualche soldato che si era attardato. Nei giorni seguenti, in un caffè, ci si trovò vestiti in borghese, fra alcuni della Scuola, per raccogliere notizie.
Pochi ufficiali circolavano in borghese, la truppa era scomparsa, eccetto alcuni militari accolti in case private. Fascisti in giro non se ne vedevano e i tedeschi non uscivano che in autocarro. Il 20 Settembre apparvero sui muri dei manifesti firmati da Kesselring che richiamavano gli sbandati, pena la morte se venivano trovati renitenti e armati. Allora il giorno dopo, con la moglie, altri della scuola e qualche ufficiale, ci siamo trovati alla stazione ferroviaria in partenza per il nord. Il mio viaggio durò due giorni, sfuggendo abbastanza facilmente alle ronde tedesche che si trovavano nelle stazioni. Controllavano i treni per il sud.
Arrivai in casa dei miei suoceri a S. Pellegrino (Bergamo) e il 27 settembre ripartii per Schio, solo, pensando esistesse in alta Italia qualche reparto dell’esercito ancora efficiente e con compiti adatti al momento. Invece a Schio appresi della deportazione dei militari. Allora per avere notizie sulla dislocazione di forze militari italiane mi recai al Comando dei Carabinieri e qui trovai un maresciallo, piccolo, anziano, che non seppe darmi alcuna indicazione, se non quella di attendere gli eventi.
Attesi, nascosto in casa, ma la situazione peggiorava con il sorgere della R.S.I. Pensai di ritornarmene a S. Pellegrino ma prima volli andar trovare il Prof. Alfredo Ortelli, che mi era stato detto stesse eseguendo un affresco in S. Pietro. Lo incontrai e vidi che aveva eseguita tutta la parte a sinistra dell’affresco. Conosciuta la mia situazione Ortelli mi disse: «Ti nascondo qui all’ombra del Signore». Un anno dopo vidi che mi aveva effigiato nell’affresco, appoggiato a una riga di legno sulla quale mi ero appoggiato fin che parlavo a lui che si trovava sull’impalcatura.
Ritornai a S. Pellegrino il 19 ottobre ed ebbi tempo allora di fare il bilancio della mia vita militare.
Ero andato volontario nell’arma del Genio nel settembre del 1933, soprattutto per avere un’occupazione in un periodo nel quale le ditte licenziavano per l’arrivo da noi della famosa crisi americana. Proprio allora il Generale Baistrocchi, ex deputato fascista, aveva sostituito il Generale Gazzera al Ministero della Guerra e aveva introdotto la politica nell’esercito; ne nacque uno scontento negli ufficiali di carriera e la vita di caserma ne risentì. lo qualche mese prima avevo lasciato la vita di collegio e l’impatto fu demoralizzante.
Infatti feci i miei 18 mesi, al posto dei 24 che avrei dovuto fare, e poi chiesi il proscioglimento della ferma. Invece dopo pochi mesi fui richiamato per la guerra d’Abissinia. La Divisione fascista “1° Febbraio”, alla quale vennero aggregate tutte le specialità dell’esercito, rimase di riserva a costruire strade. Finita la guerra in Africa ebbi altri richiami per istruzione e per manovre fino al 1940, anno nel quale venni spedito sul fronte francese con la Divisione “Acqui”.
Prima della mia ultima partenza ero andato a salutare il mio capo ufficio Ing. Lanaro e il capo reparto Sig. Bramati. Essi assieme mi avevano incoraggiato dicendomi che sarebbe stata una guerra lampo e che a fianco della Germania non c’era da temere. Io, ricordando la prima guerra mondiale, espressi i miei dubbi e dichiarai che sarebbe preferibile essere a fianco dell’Inghilterra. Avevo già avuto modo di conoscere la consistenza della forza del nostro esercito, nelle caserme e in Africa.
Smobilitato dalla “Acqui” venni inviato alla Scuola Centrale del Genio per il fatto che sapevo scrivere a macchina col sistema delle dieci dita: mosca bianca della mia compagnia. Fui istruttore di vari corsi a Casale Monferrato e poi fui chiamato alla Scuola Centrale, dove rimasi appunto fino all’8 settembre 1943.
Totale fra una cosa e l’altra: 74 mesi con le stellette al bavero, e 10 anni della vita irrecuperabili. Mi trovavo a carico dei suoceri senza carta annonaria, senza soldi e in attesa di un figlio. A S. Pellegrino rimasi nascosto tutto l’inverno durante il quale, pur sapendo che altri sbandati si trovavano nei pressi, non sorse alcun collegamento fra noi e non apparì alcuna ombra di esercito italiano. Ricevetti una lettera da casa nella quale fra le altre cose mi si diceva che “i signori Neri” erano stati due volte a cercarmi. Mio padre li aveva informati che non aveva più avuto mie notizie dopo l’8 settembre; lo tenevano d’occhio perché non aveva mai avuto tessere, cosa per la quale negli anni precedenti non era stato favorito in questioni familiari.
Con il nuovo anno, il 1944, usci una disposizione che invitava gli sbandati a ritornare al loro lavoro, entro una certa data, con la garanzia che nei loro riguardi non sarebbe stato preso alcun provvedimento punitivo. Pensando alla mia precaria situazione, pur con molto sospetto ma anche con qualche speranza, il 16 gennaio venni a Schio e mi presentai al direttore amministrativo della Fonderia, sig. Widmer, per chiedergli se ci si poteva fidare dell’invito.
Lui mi conosceva. Ricordo che dopo la guerra d’Africa, un giorno, mi aveva chiamato in direzione per farmi vedere una magnifica pubblicazione illustrante i fasti e le battaglie della divisione “1° Febbraio”; fu sbalordito quando gli dissi che la divisione non era mai stata impegnata in azioni di guerra ma a costruire delle strade: la pubblicazione finì come combustibile in fonderia. Nel 1944, alla mia richiesta di un parere, s’interessò della cosa e mi incoraggiò a tornare a Schio, ma con la raccomandazione di riprendere subito il lavoro. Il 23 gennaio ritornai a S. Pellegrino e il 27 di nuovo a Schio, con la moglie, giusto in tempo per passare a casa, il giorno 28, il primo anniversario di matrimonio.
Il 1° febbraio ripresi il lavoro in ditta ed ebbi finalmente le tessere annonarie. Per l’abitazione speravo di avere un appartamento che mio padre teneva in affitto ma, malgrado della mia «urgenza ed improrogabile necessità», il Commissario agli alloggi Dal Pozzolo non volle riconoscermi nella condizione stabilita. Solo più tardi seppi che l’inquilino era un suo figlioccio. Per fortuna una povera famiglia di conoscenti, che doveva recarsi in Germania a lavorare, mi offerse il suo alloggio completamente ammobigliato e là mi traslocai il 1° maggio, approfittando della giornata di sciopero, al quale partecipavo per la prima volta nella mia vita.
Riprendendo il lavoro in ufficio avevo notato fra i colleghi e gli operai una dichiarata avversione ai Tedeschi ed un certo ritegno a parlare liberamente con chi aveva indossato a suo tempo la divisa fascista. Anch’io ricordavo parecchi partecipanti ai campeggi, ai viaggi, alle sfilate del regime. La situazione era ancora in sospeso e le prime notizie sulle formazioni dei «ribelli» venivano commentate prudentemente. Molti operai ed impiegati non avevano fatto un giorno di militare e proprio questi mi sembravano i più informati politicamente.
Per quanto fosse stato rassicurante ciò che mi aveva detto il sig. Widmer, mi aspettavo sempre di sentire lo scatto della trappola. Per ciò mi ero interessato di trovare una soluzione. Vicino, sullo stesso pianerottolo della mia nuova abitazione, abitava un certo sig. Dalle Carbonare che, sentita la mia situazione, promise di darmi una mano; mi presentò infatti a Giuseppe Saggin, che era addentro alla politica clandestina; anche lui mi disse di attendere gli eventi, dubbioso sulla possibilità di essere io utile con la mia specializzazione: in caso di necessità gli facessi sapere qualcosa attraverso il Dalle Carbonare.
In quella casa nacque la mia prima figlia e seguii la sorte della cittadinanza fino al 29 aprile 1945 nel quale si svolse la battaglia per la liberazione di Schio. Già al mattino si sapeva dell’imminente battaglia e i miei vecchi genitori vollero che andassimo da loro. Appena scesi, due partigiani si rifugiarono entro la nostra casa, vi rimasero qualche tempo, poi ripresero l’azione e non li rivedemmo più.
Dopo la liberazione di Schio appresi della liberazione di S. Pellegrino dove, dopo la mia dipartita, si erano installati vari comandi Tedeschi. Durante una ispezione al paese andarono anche nella casa di mio suocero e vi trovarono le mie scarpe militari: allarme e blocco di quanti erano dentro in casa. Il suocero dichiarò che erano di suo figlio che non aveva più visto dopo l’8 settembre ma che sapeva essere stato inviato in Germania, come in effetti era successo. Il comandante la pattuglia volle avere tutti i dati del militare e del comando dal quale era in forza ultimamente. Dopo alquanti giorni quel comandante era ritornato portando al suocero notizie e l’indirizzo di suo figlio. Benedette scarpe!
La contentezza per la liberazione di Schio fu unanime come vivamente sentito il dolore per i troppi caduti nel combattimento.
Anch’io fui considerato in servizio militare fino al 30 aprile, sebbene non mi fosse stato affidato alcun compito dal mio ritorno a casa. Magra soddisfazione considerare d’essere stato impegnato nell’esercito per 12 anni.
Da quel tempo, molti che desideravano far dimenticare a sé e agli altri d’aver servito, con leggerezza o meno, nell’inquadramento fascista non lasciavano occasione per dimostrarsi promotori e sostenitori dei cambiamenti in atto. Qualcuno di questi, che non venni mai sapere chi fosse, mi prese di mira tanto che, qualche tempo dopo, fui convocato e inquisito nientemeno che dall’Ufficio di Epurazione Economica, presieduto allora dal sig. Romeo Lora.
Burla o malignità, non l’ho mai appurato. Mi scoprirono nulla tenente, come confermava il documento dell’Ufficio del Registro, ed inoltre che ero sposato con prole e che non avevo mai indossato divise di sorta, cosa che non avrei nemmeno avuto il tempo di fare per la mia continua permanenza nell’esercito.
Quell’ufficio, che aveva il compito importante di controllare e colpire i profitti del Regime, avrebbe potuto svolgere una azione urgente e indispensabile ma a qualcuno interessava di non farlo funzionare tanto che poco dopo fu chiuso d’autorità e dell’epurazione economica non se ne parlò più. Era cominciata la caccia ai sostegni politici.
Ritornando alla vita in ufficio, avevo stretta amicizia con Giuseppe Ortelli, pittore dilettante, come lo ero anch’io. Da quell’incontro nacque l’idea di promuovere una mostra di pittori. Della proposta se ne riparlò nello studio del pittore Giuseppe Pupin, che allora frequentavo assieme ad altri e che si trovava nella soffitta di una casa in piazza A. Rossi. Dallo scambio delle idee maturò l’istituzione di un Circolo artistico, che fu attuato battezzandolo UNDAS.
Finalmente non si parlava più di guerra e qualche superstite vecchia campana era fuori uso. Intendo quello che, in tempi bellicosi, per dirla col Giusti, «chiama gli altri, ma lei in chiesa non ci va mai.»
Giovanni Meneghini