QUADERNI DELLA RESISTENZA 
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Luglio 1978 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
 
 
Volume V
(da pag. 262 a pag. 270)


SUOR LUISA ARLOTTI

di Gian Paolo Resentera
 
 

 

 

 

Madre Luisa Arlotti, canossiana, entra con pienezza di meriti nella storia della Resistenza-scledense, e tuttavia senza venir meno alla sua vocazione, sublimandola anzi, secondo che richiede il motto del suo ordine: carità nell’umiltà.


Era giunta a Schio a 24 anni, il 18 maggio del 1928, inviata all’Asilo Rossi, che trovava in condizioni di grande precarietà. I disagi rimasero fino all’estate del ‘35, allorquando l’asilo, per accogliere anche i bambini del Comune di Schio, subì notevoli lavori di ampliamento, tanto che il 2 dicembre si poté dare inizio all’anno scolastico con 370 iscritti: e a dirigere la scuola la superiora indicò proprio madre Luisa Arlotti.


Dopo nuovi e ancor più consistenti lavori di restauro e ampliamento dello stabile, avvenuti sotto la direzione dell’ing. Rinaldo Canfori, si entra negli anni della guerra, sicché anche l’asilo deve adattarsi ad altri servizi, come quello di trasformarsi durante l’estate in mensa ufficiali. Per quanto restie, le suore sono costrette ad accettare la situazione, essendo sì legate per obbedienza all’ordine, ma dipendenti amministrativamente dalla società Lanerossi, proprietaria dello stabile.


Dopo l’8 settembre 1943, la situazione si fa ancora più critica, non soltanto per le ristrettezze economiche, ma perché la guerra assume, come si sa, caratteri di vera lotta civile. La comunità dell’asilo cerca tuttavia il più possibile di mantenere l’isolamento, onde offrire ai bambini un’oasi di serenità in giorni tanto drammatici. Nemmeno un asilo poteva però in quei tempi pretendere di essere rispettato dalla guerra.


E così, il 22 giugno del 1944, verso le nove, si presentano a suor Arlotti l’ing. Riva e l’impiegato Viviani della direzione dello stabilimento per chiedere che, dato il suo diploma d’infermiera, accetti di dare ospitalità a due partigiani feriti nel rastrellamento di qualche giorno prima avvenuto a Vallortigara.


La suora, come si può capire, mostra notevoli perplessità, data l’irregolarità della richiesta e la necessità d’impegnarsi, per ragioni di sicurezza, a non far parola, oltre al fatto che, proprio a lato dello stabile, si apriva la porta del rifugio antiaereo, scavato sotto la collina del Castello, al quale arrivava naturalmente gente di ogni tendenza.


Tuttavia i due insistevano e la suora, rendendosi conto di quanto la situazione fosse critica, si vide costretta ad accettare. Chiese soltanto che il trasporto dei feriti avvenisse sul finire del pomeriggio, quando le suore, terminata la giornata di lavoro, sarebbero state in cappella a pregare.


A quell’ora dunque i due feriti, condotti da Domenico Baron e da Gildo Broccardo sopra un camioncino scoperto, nascosti sotto paglia e cartoni, arrivano nei pressi dell’asilo all’ingresso del rifugio antiaereo di fianco al teatro Jacquard, dove erano già pronte le barelle. Da li vengono trasportati da cinque partigiani attraverso il rifugio, fatti entrare nell’asilo e fatti salire poi all’ultimo piano, in una stanza affacciata alle scale, che sarà convenientemente mimetizzata. A quest’ultima operazione dà una mano anche la bidella, Lucia Saccardo, che la suora stima sicura.


I due giovani partigiani si presentano agli occhi esperti della suora in condizioni assai gravi. Il Penzo, che appare il meno compromesso, è stato colpito da una decina di colpi: alla testa, ad un braccio, al basso ventre e alla coscia sinistra, dove mostra la ferita peggiore, perché causata da una pallottola esplosiva. Il Dalle Mole, che non ha ripreso conoscenza, ha avuto trapassati il braccio e il polmone sinistro. Per quest’ultimo il direttore sanitario della Lanerossi, dott. Chiesa, diagnostica un «pneumotorace a valvola» e ritiene che non ci sia più nulla da fare. Viene così approntata una fossa nel giardino dell’asilo.


La suora però non si dà per vinta e accetta di far chiamare il dotto Adelmo Lavagnoli, legato alla Resistenza, che ha anche pratica sanatoriale. La direzione del lanificio, da parte sua, incarica delle medicazioni un infermiere dell’ospedale di nome Antonio Destani.


Il Dalle Mole, che è in pericolo costante di soffocamento, viene seguito con grande attenzione: per calmare la tosse gli viene iniettata morfina e per estrarre l’aria dal polmone ferito vengono usate speciali siringhe, prelevate di nascosto dall’ospedale. Così, dopo tre giorni, anche per la sua forte fibra, può essere dichiarato fuori pericolo. La ferita dell’altro, pur meno grave, è invece più lenta a guarire e lo costringerà all’immobilità per una cinquantina di giorni.


In queste ore d’ansia la suora s’interessa anche della loro anima e fa chiamare a confessarli don Alfredo Brancalion dei Salesiani. Come collegamento in questi va e vieni le sono assegnati dal comitato Gildo Broccardo e Antonio Berna. Le cose sono fatte così bene che le consorelle non si accorgono di nulla e la vita dell’asilo continua del tutto regolarmente.


Qualche giorno dopo tuttavia il colpo di scena. Arrivano Riva e Viviani, dicendo che tutto è scoperto a causa di una lettera anonima arrivata al comando delle SS e delle BN, nella quale si affermerebbe che la direttrice dell’asilo è un’antifascista collegata con i ribelli, tanto che attualmente assiste due partigiani feriti.


Come la notizia fosse potuta trapelare non si sa. Cosa certa è che la frase fu pronunciata in una casa di Schio dalla moglie del primario di chirurgia dell’ospedale, giudiziosamente eclissati, e la suora capisce che ogni responsabilità è stata scaricata su di lui, notoriamente legato al regime. La situazione è drammatica: i feriti sono intrasportabili, i dirigenti si sono sulle sue spalle. Nel frattempo giunge il dotto Chiesa e anch’egli afferma che si sa tutto, che ha ricevuto appena ora una telefonata in tal senso proprio dal primario. Le ore passano nell’angoscia.


La suora, che non si fida più di nessuno, fa chiudere il cancello dell’asilo, che prima restava invece accostato per permettere all’infermiere di passare. Così, alle nove di sera, quando quest’ultimo si presenta per le medicazioni, ella non lo fa entrare e alle domande risponde che non c’è più nessuno, per cui gli conviene farsi pagare le prestazioni dalla Lanerossi.


L’infermiere, a conoscenza delle reali condizioni dei feriti, manifesta naturalmente incredulità, ma la suora taglia corto e, per rendere più credibile la notizia, inventa che essi sono stati trasportati con un carretto, nascosti sotto foglie e rifiuti. E il Destani se ne va. Le poche persone a conoscenza del fatto vivono ore di grande trepidazione, ma non c’è che da attendere.


Difatti, la sera del 28 giugno, vigilia della festa di .S. Pietro, patrono della città, mentre le suore sono in cappella, si presentano all’asilo i comandanti delle SS e della Milizia, accompagnati dagli amministratori della Lanerossi, in tutto una decina di persone. Madre Arlotti, che alla bidella aveva dato da tempo l’incarico di suonare il campanello di chiamata in un certo modo, se ci fosse pericolo, viene messa in allarme finché è di sopra con i feriti.


Con notevole dose di autocontrollo li invita a prepararsi al peggio, epperò a confidare nella misericordia di Dio. Poi scende e viene presentata al dotto Costa, presidente generale della società da poco insediato. Costui si scusa di dover fare la sua conoscenza in circostanze del genere, ma le rammenta anche che in momenti !anto straordinari si deve più che mai stare con le autorità, non fosse altro in considerazione del fatto che i vari stabilimenti offrono lavoro a migliaia di operai della zona.


Vien quindi fatta leggere alla suora la lettera anonima e le si chiede se conferma o smentisce. Per tutta risposta e senza batter ciglio, ella dichiara che la casa è aperta e che non c’è da far altro che andare a vedere; e che della lettera oltre tutto è a conoscenza già da due giorni. Migliore risposta non si poteva dare: con due giorni di ritardo, addio sorpresa, la visita si rivelava, più che inutile, controproducente! E se ne andarono tutti, infatti, senza effettuare alcun sopralluogo.


Se la morte era stata allontanata, la situazione non era però cambiata per nulla: due feriti gravi in casa, il pericolo che la voce si spargesse ed anche le consorelle venissero coinvolte. Per questo suor Arlotti chiede ora con insistenza alla Lanerossi che s’impegni a trasportar via i feriti quanto prima. Intanto per le medicazioni si rende disponibile un sarto di Poleo, certo Giuseppe Signore.


Il 30 giugno i due feriti sono finalmente traslocati: alle quattro di mattina, su un carretto tirato da Bruno De Pron e dal Berna. Se non che, alla vista dei due tedeschi di guardia al portone dello stabilimento, il primo si sente male e cade a terra. Nel trambusto che segue, l’altro ha però la presenza di spirito di tirar dentro in fretta il carretto nello stabilimento e i due feriti vengono successivamente sistemati all’ultimo piano, in una stanza proprio sopra il portone, rimanendovi una decina di giorni.


Dopo i quali, il Dalle Mole, che per quanto debole è ormai guarito, esce da solo con una tuta della ditta, tirando un carretto da meccanico. Scende la via Pasubio e, dopo aver lasciato il passo ad una pattuglia di tedeschi, sale per via Garibaldi e svolta a sinistra per la vecchia « Feracavai », dove abbandona il carretto in un portico. In cima alla via trova un partigiano in attesa, che deve accompagnarlo a Poleo. Di lì sarà fatto andare in Vallortigara e poi al rifugio « Lancia », dove resterà a riprender forze per un mese, fatto passare per un dipendente della Lanerossi.


Il Penzo parte lo stesso giorno per Malo. Non potendo reggersi in piedi, viene adagiato, vestito anche lui di una tuta, nel furgone di un camioncino. Anche per lui un momento di paura, allorché incrociano un camion di fascisti che a gesti comandano di mettersi da un lato della strada. Si pensa al peggio e ci si prepara in qualche modo, ma i fascisti passano via. Si saprà poi che andavano ad un rastrellamento in una contrada più sopra. Il Penzo resta in contrà Pisa di Malo una ventina di giorni, curato da un infermiere e da ragazze del luogo.


È sul finire di luglio che viene riportato all’ Asilo Rossi. Evidentemente il comitato e i dirigenti considerano il posto ancora il più sicuro, certi come sono della suora, che ha mostrato tanto coraggio. E infatti, qualche giorno dopo, viene accomapagnato un altro ferito. Si tratta di un francese (di cui si ricorda soltanto il nome, Pierre), tenente pilota di 26 anni, abbattuto a Cremona e ferito alle gambe, fuggito dal carcere di Verona durante un bombardamento notturno, rifugiatosi tra i partigiani delle montagne veronesi e affidato in seguito da costoro ai nostri combattenti. Il dottor Lavagnoli ebbe a visitarlo una sola volta, dando disposizioni alla suora che lo prese in consegna. Il Penzo lo ricorda come un malato molto esigente, che non si accontentava mai, specie quanto al bere e al fumare.


Dalle varie testimonianze si ha notizia del ricovero anche di Oscar Dal Maso, « Tarzan », che preoccupava i compagni per la febbre altissima, causata, si saprà poi, da un ascesso in gola, che la suora curò con la consueta perizia e sollecitudine. Il Penzo fece appena in tempo a vedere il compagno, in quanto, essendo ormai considerato guarito, venne ben presto fatto ritornare in montagna. Sulla data c’è dell’incertezza. Il Penzo in ogni caso ricorda di essere uscito dall’asilo la vigilia della distruzione della contrada Cortiana di Valli del Pasubio.


Dunque all’asilo, intorno ad ottobre, sono ospitati Pierre il francese e « Tarzan ». L’ultimo ad essere ricoverato è un partigiano di nome « Joseph » (Joseph Kropfitsch Furtner), che resterà ucciso a Raga bassa l’8 aprile 1945 e sulle cui vicende è in corso un’inchiesta di prossima pubblicazione.


Non è ben chiaro nemmeno quando le cose precipitarono definitivamente. Dei vari movimenti, oltre alla bidella di cui abbiamo detto, era a conoscenza per ovvi motivi anche la cuoca. Comunque sia, madre Adotti fu ad un certo punto costretta a dire qualcosa alle consorelle e ciò suscitò fermento e preoccupazione nella comunità.


La superiora non poté far altro che giudicare la cosa quanto mai inopportuna, sia in considerazione del fatto di essere stata tenuta all’oscuro di tutto, sia dei pericoli nei quali era stato coinvolto l’istituto. Non solo era stata disattesa la regola, ma la decisione, per quanto maturata in una contingenza di tutta eccezionalità, appariva ardita e discutibile, non ultimo in considerazione anche della missione caritativa ed educativa dell’ordine, il quale, come tale, avrebbe dovuto star al di fuori delle questioni politiche.


Certo è che in tale frangente noi troviamo assenti piuttosto coloro che rappresentarono, obiettivamente, la causa prima di tutta la vicenda e cioè i dirigenti della Lanerossi: Riva, Gavazzi, Costa, con i quali il Comitato aveva stipulato la convenzione per l’assistenza ai feriti. Che si fosse fatta forte pressione sulla suora, considerandola una dipendente della società, è del resto testimoniato non soltanto dall’interessata. Quando poi nacquero le divergenze con i superiori, la Lanerossi si tirò da parte, scaricando ogni responsabilità sulla suora, quasi che tutto fosse nato per sua instancabile iniziativa.


Fatto sta che i superiori di Verona vennero a sapere della cosa. In questo intervallo, che dovette certo provocare angustie e incomprensioni da una parte e dall’altra, madre Luisa riesce a far ospitare il francese prima in casa della bidella Lucia Saccardo, dove egli resta per circa un mese, poi, ma per alcuni giorni soltanto, in casa di « Bepin Sacardèlo» all’imboccatura della via « Feracavai » (dove erano stati dirottati anche due inglesi perché feriti molto lievemente), infine, a cavallo tra novembre e dicembre, in un’altra casa, facendo credere alla famiglia – che è di tendenze fasciste, ma con la quale la suora è in buoni rapporti, avendone in custodia i bambini all’asilo – trattarsi di un parente espatriato. Il che appare verosimile, in quanto ella aveva effettivamente parenti in Belgio.


Per quanto potesse sembrare una mossa inopportuna, dato che poteva destare sospetti, la provinciale di Verona, intorno alla metà di dicembre credette di dover trasferire suor Arlotti a Venezia, al convento di S. Alvise. Ecco che allora ella fu costretta a darsi da fare per liberar la famiglia del rischio del francese; e, tramite mons. Tagliaferro e Amedeo Mazzon, che fece da intermediario, ottenne assicurazione di ospitalità dal superiore dei Gesuiti di Venezia, padre Castellani.


Il servizio di trasportare il francese a Venezia venne assicurato dall’autotrasportatore De Longhi, il quale faceva periodicamente la spola per il sale e i tabacchi. Viene allora concertato che il francese debba partite col De Longhi la notte del 21, accompagnato da colui che gli aveva dato ospitalità. E in effetti cosi avviene.


Quando però, alle prime ore del giorno dopo, la suora, in partenza per Venezia col camion di Gentile Piazza, si ferma davanti alla casa per sapere se tutto è andato bene, si affaccia la moglie a dire che il francese non intende più partire, ma che essi sono disposti ad ospitarlo ancora. La cosa non appare normale, ma il tempo stringe. La suora giunge a Venezia a S. Alvise come previsto ed è dalla superiora mandata subito per sicurezza alla Giudecca, all’istituto dell’Infanzia Abbandonata.


Dell’agitazione e del trambusto di quei giorni rimane appena questa scarsa nota nella « Cronistoria dell’Asilo »: « 22 dicembre 1944. Stamane è partita per Venezia Madre Luisa Arlotti: cause urgenti hanno determinato un trasferimento immediato ».


Se la storia finisse qui, allora il gesto di carità e di abnegazione della suora resterebbe soltanto nella memoria dei beneficati. Invece vi è un secondo colpo di scena.


Il l° gennaio ’45, dopo esser stati a S. Alvise, si presentano verso le quattro del pomeriggio alla Giudecca due individui in borghese, che chiedono di parlare con suor Luisa Arlotti. Evidentemente i fascisti erano venuti in qualche modo a conoscenza del suo cambiamento di sede.


La suora, che non sospetta nulla, scende in parlatorio. I due, uno dei quali è tedesco, sono invece Iì per prelevarla. Così, alle dieci di sera, arrivati a Schio, l’accompagnano alla sede delle BN in via Carducci, adiacente a casa Granotto. La mattina del 2 gennaio si ha il primo interrogatorio. La suora insiste sul fatto che, possedendo regolare diploma di crocerossina, era tenuta non solo ad assistere feriti di qualunque nazionalità, ma anche a mantenere il segreto. Il comandante allora fa entrare tre persone che dovrebbero ben consigliarla a parlare. La meraviglia è grande, perché le compaiono davanti proprio il francese e i due sposi che gli avevano offerto ospitalità.


Le supposizioni qui possono essere molte; probabilmente Pierre, che a detta di molti si comportò sempre in modo leggero e ambiguo, si sarà fatto prendere ed avrà parlato, coinvolgendo così non solo coloro che lo ospitavano ma anche la suora, nonché Linda e Lucia Saccardo.


Madre Arlotti rimase, minacciata di gravissime sanzioni ma rispettata, alle carceri di Corobbo fino al 22 febbraio, giorno in cui, in camion scoperto insieme con il francese, i due coniugi coinvolti nella vicenda ed alcuni partigiani, fu trasferita a Vicenza, all’odierno palazzo della Questura. In tal sede resta una ventina ai giorni, più volte interrogata, e passa momenti di grave difficoltà. A salvarla è il vescovo, mons. Carlo Zinato, avvisato da suor Demetria Strapazzon del¬le Dorotee, superiora delle suore addette alle carceri di S. Biagio, dove appunto il vescovo riesce a farla trasferire.


Confessore delle carceri era don Eugenio Dal Grande, insegnante del seminario, che dal 25 gennaio aveva preso il posto di mons. Giuseppe Sette, allontanato perché accusato di aver favorito rapporti epistolari tra i reclusi e il movimento partigiano. Il sacerdote, oltre che eseguire le mansioni specifiche del ministero (conversazioni, confessioni, messa domenicale) aveva l’incarico da parte del vescovo di controllare discretamente la situazione.


A questo proposito egli ricorda di aver avuto qualche colloquio con un prigioniero inglese, sicuramente dell’Intelligence Service. Una volta, per esempio, fu da lui pregato di riportargli le ultime cinque parole del consueto discorso fatto a Radio Londra dal col. Stephens. Prigionieri in quel torno di tempo erano tenuti anche alcuni sacerdoti; ospiti del settore delle donne, dove era tenuta la suora, erano anche la moglie e le figlie di Torquato Fraccon.


Di Madre Arlotti mons. Dal Grande oggi ricorda la grande pietà, la disponibilità ad aiutare tutti, il coraggio che durante i bombardamenti la faceva rimanere tranquilla. Ricorda, ad esempio, che durante un’incursione aerea, mentre egli pregava con i detenuti ammassati nei sotterranei, la suora era corsa alla cappella e al ritorno portava con sè il Santissimo, custodito da lei devotamente per tutta la durata del bombardamento. Gesto che, dati i tempi, rivelava, oltre che la fede, anche notevole intraprendenza.


In carcere madre Luisa rimase fino al 1° aprile, data in cui, per intervento ancora del vescovo e con la giustificazione di una grave flebite diagnosticata dal prof. Pototsching, egli pure incarcerato, venne fatta trasferire, agli arresti domiciliari, presso la comunità delle suore del seminario, in quel tempo sede anche del vescovado. Il vescovo s’impegnava a risponderne personalmente alle autorità tedesche. Lì rimase fino alla liberazione.


Della riconoscenza del movimento partigiano è testimonianza la lettera che il sindaco Domenico Baron scrisse al vescovo il 9 maggio 1945.


Resterebbe da dire qualcosa sulle relazioni coi superiori, per quanto in questa sede abbiano modesta rilevanza. In ogni modo, già nella visita al carcere, fatta nella prima domenica di Pasqua, il vescovo ebbe per lei parole piuttosto forti, benchè di passata e alla presenza dei tedeschi e delle donne adunate in cappella. Anche successivamente, in seminario, egli, quantunque si mostrasse benevolo, sembrò rivelare nei suoi confronti una certa rigidità, per cui un vero chiarimento ci fu soltanto alla fine.

Quanto alle relazioni col proprio ordine, ci sembra di poter affermare che, nonostante particolari benevole attenzioni da parte delle superiore, ella non riuscì a superare l’impressione che intorno a lei spirasse aria di diffidenza. E lei da parte sua forse mal accettava questa situazione. Chi la conosce sottolinea infatti il suo carattere energico e dinamico. Così, dal seminario di Vicenza partì il 1° giugno 1945 per la casa madre di Verona e da lì passò poi a S. Pietro in Elda (Modena), dove restò fino al ‘50. Madre Zambelli, provinciale e poi anche generale dell’ordine, la volle con sé a Roma, dove infatti dimorò per quattro anni e da dove passò a Cremona e successivamente a Cosenza. Oggi, da quasi dieci anni, è ospite della Casa Charitas di Schio.


Nel trentennale della liberazione fu insignita del titolo di cavaliere della Repubblica per meriti resistenziali.


Oltre alle persone che hanno gentilmente offerto le loro testimonianze, ringrazio suor Palma Rigotti, attuale superiora della comunità dell’Asilo Rossi, la quale mi ha permesso la lettura del manoscritto in cui è raccolta la storia dell’asilo.