Ezzelino Da Romano : la gestione del patrimonio
di Laura Poloni - seconda parte
Era il 1223 quando Ezzelino II decise di ritirarsi nella pace del convento di Oliera da lui fondato. L’improvviso, quanto definitivo ritiro di Ezzelino dall’agone della lotta politica e militare, viene sancito il 5 luglio di quello stesso anno, con la divisione del suo immenso patrimonio tra i due figli, Ezzelino III e Alberico.
La sorte aveva deciso per loro le relative spettanze, scontrandosi, tuttavia, con le più intime aspettative di Ezzelino. A questi, infatti, andava tutta la parte “trevigiana”, da S. Zenone a Spineda, Crespano, Meledo e Godego, con gli altri beni siti a Cismon, Feltre, Belluno e Fonzaso, quando aveva puntato decisamente ad entrare in possesso della parte “vicentina” dei beni paterni che andarono contrariamente, al fratello Alberico: Bassano, Fontaniva, Angarano, Romano, Mussolente, fino a Solagna compresi i poderi nella Valsugana e i beni siti a Vicenza e nel vicentino.
Da questa zona, strategicamente molto più importante, Ezzelino contava di espandersi con maggiore facilità verso Verona, città già da anni contesa dai da Romano agli Estensi data la sua importanza strategica. Ciò che sorprende tuttavia, del testamento di Ezzelino padre, chiamato da allora il Monaco, è sicuramente la quantità e vastità del patrimonio fondiario e immobiliare accumulato dai da Romano nell’arco di poche generazioni, espressione tangibile della loro espansione politica e militare all’interno della Marca Trevigiana.
Beni e diritti ricevuti a titolo di feudo o per lo meno garantiti dall’autorità ecclesiastica. Beni detenuti, quindi, in qualità di vassalli, ma anche in piena proprietà (beni allodiali) o in comproprietà con altre famiglie o con lo stesso episcopio. I beni venivano direttamente gestiti da una schiera di affittuari, coloni, vassalli di provata fedeltà, da masnadieri, che avevano nel castello il loro vitale punto di riferimento.
Era il castello, infatti, il vero fulcro di tutto il territorio circostante. Nel castello si poteva trovare protezione in caso di pericolo o di guerra, nel castello venivano protetti i raccolti e questo in cambio di corvées e servizi che venivano richiesti dal signore. Era stato proprio con Ezzelino il Monaco che i da Romano incominciarono ad acquisire ed esercitare sul territorio anche i diritti di signoria e di comitato (diritto di amministrare la giustizia, di guerra, di armare gli uomini, di erigere fortificazioni, obbligo di obbedienza per chi risiedeva nel territorio, di imporre tasse e di tramandare, infine, il patrimonio). Radicati saldamente nei loro possedimenti, i da Romano potevano ora puntare alle città.
Il potere sulle città
La progressiva affermazione del potere di Ezzelino III nelle principali città della Marca dopo il 1223, risulta scandita da tutta una serie di nuove e crescenti acquisizioni fondiarie e immobiliari. Per assicurarsi un controllo sempre più capillare del territorio, Ezzelino concedeva le terre solo per piccoli appezzamenti, due o tre campi e sempre più raramente a già grandi proprietari, ricevendone in cambio canoni in natura e/o denaro.
Dopo la sua morte nel 1259, si contavano nelle adiacenze di Bassano, almeno 120 appezzamenti affittati per canoni che oscillavano da 6 denari a 20 soldi, più una parte in natura, vino, cereali, focacce. Ad Enego, invece, si ha notizia di sette “casere” che rendevano 12 formaggi mentre gli uomini che potevano lavorare nei vicini boschi del monte Marcesina, pagavano al signore 40 soldi ciascuno.
Ancora, nel territorio tra Rotzo e Roana, i 14 mansi là dislocati, venivano affittati dalle 8 alle 12 lire e davano in natura circa una spalla, una focaccia e quattro formaggi piccoli. A Cartigliano, dove i da Romano avevano beni sin dal 1085, Ezzelino possedeva appezzamenti di terreno dati in parte in feudo e parte in affitto, oltre un mulino e due terzi del castello e delle eventuali multe che venivano imposte.
La vastità dei possedimenti dislocati nei diversi comitati di Vicenza, Verona, Treviso e Belluno, rendeva naturalmente impossibile una gestione diretta da parte di Ezzelino o del fratello, gestione e controllo che venivano infatti delegati a persone di provata fedeltà. Le principali figure preposte a riscuotere le rendite erano il visconte, come per esempio a Breganze, o un gastaldo, come nel caso di Rotzo, o semplicemente un villico, presente invece a Solagna, dove Ezzelino manteneva anche i diritti di comitato e giurisdizione oltre che la possibilità di eleggere i pubblici funzionari.
Sempre a Solagna spettavano al signore, i dazi sulle porte e i diritti di traghetto verso l’altra sponda del fiume Brenta oltre che un terzo dei banni e delle multe. Nella piccola ma strategica “curia”, Ezzelino aveva anche un “palacium” grande e circa 29 case concesse in feudo, oltre un numero cospicuo di appezzamenti.
A Solagna trovava sede una delle curie cui faceva capo l’amministrazione del potente “tiranno”. Le curie erano poste in centri strategici, come lo sbocco di una valle o il corso di un fiume, con un “palatium” dove venivano custoditi gli archivi e dove si svolgeva l’attività amministrativa e giudiziaria. Bassano e Mussolente erano le altre due più importanti curie del vicentino. Tuttavia la terra con le rendite o i diritti ad essa collegati, si dimostrerà ben presto insufficiente per far fronte alle crescenti necessità finanziarie di un potere che andava con gli anni assumendo sempre più le caratteristiche di un vero e proprio dominio regionale.
Era indispensabile per Ezzelino, assicurarsi sempre nuove e sicure fonti di denaro contante. Allo scopo dispose una oculata e strategica politica immobiliare. I da Romano, sin dall’XI-XII secolo, possedevano case e palazzi a Treviso, Padova e Vicenza, ma anche in questo settore solo con Ezzelino III il patrimonio della famiglia avrà il suo massimo incremento. Specie dopo l’avvenuto e definitivo controllo delle principali città della Marca tra il 1236 e il 1237, la politica di acquisizione di case, palazzi e botteghe, si fa costante e spregiudicata.
Solo a Vicenza Ezzelino possedeva più case dello stesso Comune, mentre a Bassano ben la metà dei suoi beni, alla fine, era rappresentato da case. Non sempre le vendite al potente signore erano spontanee o remunerative. Spesso le case venivano acquistate da Ezzelino a sottoprezzo e nel caso degli avversari politici, o presunti tali, ricorreva semplicemente ad un esproprio forzato.
A questo proposito, il cronista padovano Rolandino, fervente antiezzeliniano pur avendo svolto durante il ventennale dominio del “tiranno” la sua funzione notarile, afferma che fra le principali cause dell’arresto di molti presunti avversari, altro non c’era che la possibilità da parte di Ezzelino di incamerare i loro beni che venivano ceduti al tiranno nella vana speranza di avere in cambio salva la vita.
Diversi atteggiamenti
Anche per Verona, Vicenza e Treviso, Rolandino parla esplicitamente di estorsioni e vendite forzate effettuate dietro le minacce del temuto signore. Eppure, se in più di qualche caso di violenza si può effettivamente parlare, resta che a Vicenza, per esempio, nessuno degli atti di vendita riguardanti Ezzelino, venne annullato o invalidato dopo la sua morte, contrariamente a quanto si registra invece a Treviso. Inoltre, i venditori nel caso specifico della città berica, erano stati quasi sempre dei fervidi sostenitori o collaboratori del regime ezzeliniano, come i da Vivaro, i Loschi, i da Breganze, i Galli e non degli avversari. Per quanto riguarda poi gli eventuali, certo probabili acquisti a sottoprezzo, c’è da rilevare che nella città, per far fronte appunto agli ingenti acquisti, Ezzelino lasciò un debito di ben 30.000 lire!
L’acquisto del potere
Ma quali erano i veri motivi che spingevano Ezzelino a questi incessanti e sempre crescenti acquisti immobiliari e territoriali? Certamente non personali, almeno non nel senso di un arricchimento fine a se stesso. Le cronache parlano di un uomo dalle grandi virtù militari, di un uomo sì crudele fino all’inverosimile, ma privo di particolari vizi quali l’amore per il lusso o il denaro.
Non si ha infatti notizia di furti da parte del da Romano, di denaro pubblico, una pratica che non doveva certo costituire una rarità fra quanti erano chiamati a ricoprire le più alte cariche pubbliche del tempo. Prova ne è che nel 1244 lo stesso Ezzelino costringerà il podestà di Padova Galvano Lancia, a restituire le somme che indebitamente aveva sottratto alle casse del Comune.
Nessuno dei castelli, poi, sottratti ai suoi avversari politici, entrò a far parte del suo personale patrimonio, pur riscuotendone le rendite che venivano tuttavia prontamente dirottate nelle sempre esangui casse del fisco. In realtà ben altre e più urgenti ragioni, che non l’arricchimento personale, spingevano Ezzelino, che resterà sempre ed innanzitutto un guerriero, ad una siffatta politica di investimenti. Vediamo più in dettaglio.
I beni fondiari
Con l’acquisto o la forzata conquista di vasti territori, Ezzelino si garantiva primariamente non soltanto il controllo di zone strategicamente importanti per i traffici commerciali e militari, ma anche una grande disponibilità di uomini da poter reclutare in caso di guerra, circostanza questa, pressoché costante nei vent’anni del suo regime. Uomini che altrimenti potevano essere impiegati in un apparato burocratico sempre più articolato e ramificato nel territorio.
Funzionari, giudici e notai, costituivano il nucleo del suo efficientissimo servizio di Cancelleria, accanto a un fedelissimo esercito di corrieri ai quali Ezzelino affidava la trasmissione scritta dei suoi ordini ricevendo in cambio risposte ugualmente scritte. Una politica sempre più basata sul terrore e sulla repressione, richiedeva la collaborazione di uomini di sicura e comprovata fedeltà, una fedeltà che molto spesso, in quei tempi, veniva comprata a suon di quattrini e con il conferimento di benefici terre e poteri.
E l’acquisto della fedeltà, si rendeva tanto più indispensabile e vitale per gli uomini del proprio esercito, costantemente impegnati nel presidio e controllo delle città e del territorio, oltre che nelle incessanti guerre. Proprio le spese belliche e militari costituivano per le finanze di Ezzelino, la principale voce di spesa.
Da pagare non c’erano infatti solo gli uomini, - per farlo ricorrerà anche a cospicui prestiti come quello di 20.000 lire con il Comune di Cremona per poter pagare il presidio di Verona ma anche tutta una serie di lavori come la costruzione di castelli, fortificazioni, prigioni e palazzi nel contado e nelle città.
I beni immobiliari
Anche l’accumulo incessante di beni immobiliari, rispondeva a molteplici ragioni di ordine finanziario e strategico del tutto analoghe, in fondo, a quelle che spingevano Ezzelino a continue acquisizioni territoriali: reperimento di fondi e controllo del territorio, in questo caso, di quello urbano.
Le case o i palazzi acquistati, venivano infatti dati in affitto, assicurandosi in tal modo, con il pagamento dei canoni, puntuali e sicure entrate di denaro contante. Più case, più denaro, naturalmente, ma non solo. Questo sistema, infatti, implicava non solo un conseguente legame per centinaia di persone con le loro famiglie al “tiranno”, ma anche la possibilità per Ezzelino, di poter collocare nelle città persone e famiglie a lui gradite o comunque non sospette, alle quali vengono con facilità concesse le abitazioni.
Nella sola Bassano, per esempio, questa condizione interessava ben 520 nuclei familiari, senza contare le 185 case dei da Romano, disseminate nel borgo e nei borghetti adiacenti con canoni di affitto che andavano dai tre denari fino ai venti soldi, oltre varie integrazioni in natura. Le case, nel caso specifico di Bassano, venivano preferibilmente concesse a notai, medici o artigiani, esponenti di quel ceto medio sul quale Ezzelino contava per consolidare il suo potere.
Una presenza, quella dei da Romano, ben presente a Bassano anche con una “domus magna” dove risiedeva spesso Alberico, e con una “domus nova” nella piazza del borgo, oltre che con una “domus longa e murata” dove veniva conservato e custodito il legname per la costruzione delle macchine belliche. Il circuito abitativo si chiudeva con il “Palatium” vicino alla porta del castello.
Dopo le rendite, in denaro e natura, legate ai vastissimi possedimenti fondiari ed immobiliari, con un numero eccezionale di diritti su castelli, porte e corsi d’acqua, ad Ezzelino restavano ancora, quali ulteriori fonti d’entrate, i beni comunali e le rendite ecclesiastiche. La confisca e la conseguente vendita all’asta dei beni dei Comuni, rispondeva, anche in questo caso, ad una ben precisa politica e non solo finanziaria.
In questo modo, infatti, il territorio comunale subiva una progressiva privatizzazione, con la possibilità, da parte di Ezzelino, di collocare nel medesimo, famiglie a lui fedeli, assicurandosene così il controllo a scapito dello stesso Comune. Per quanto riguarda invece le rendite ecclesiastiche, il da Romano punterà tuttavia la sua attenzione con una loro oculata quanto spregiudicata confisca, solo negli ultimi anni del suo ormai sanguinario regime, segno evidente di una insanabile crisi finanziaria e preludio all’imminente crollo anche politico e militare.
Maghi, astrologi e poeti alla corte degli Ezzelini
Castelli, “ville” e borghi non erano solo oggetto di feroci e sanguinose contese tra le potenti famiglie della marca trevigiana del XIII secolo. Tra le mura merlate delle proprie fortezze, i signori potevano infatti vivere e gustare i brevi quanto fugaci momenti di svago, nell’attesa della successiva battaglia. E’ difficile poter credere che nel medesimo scenario di guerre, rapine e continue scorrerie, si muovessero dame, e giullari accompagnati dal suono dei musici e dalle parole di più o meno valenti poeti.
Eppure, presso le corti degli Estensi, dei conti di San Bonifacio, dei Camposampiero e dei da Romano, tanto per citare solo alcune delle più famose e potenti famiglie, trovavano ospitalità, rifugio e protezione, un pacifico esercito di giullari, menestrelli, giocolieri, trovatori, pronti a dilettare, divertire e intrattenere i membri e il signore della corte, similmente a quanto accadeva in tutte le altre grandi o piccole corti italiane o europee.
Feste, gare, tornei e banchetti, concorrevano a creare quell’atmosfera “giocosa” e cortese” per la quale era anche famosa nel Medio Evo la Marca Trevigiana.
“Quando io venni dall’Ungheria, messer Ezzelino rideva perché io ero matto per i saluti e le strette di mano”.
Aveva tutte le ragioni il poeta trovatore Guilhem Raimon di voler immortalare il sorriso di un uomo come Ezzelino III, diversamente noto per la cieca ferocia e per essere l’autore o il mandante dei più efferati e deprecabili crimini, fama che Ezzelino doveva condividere con il fratello Alberico, stando ad alcune cronache, vero e proprio campione di ferocia e lussuria!
Eppure, Guilhem Raimon, era solo uno dei tanti trovatori che ricevettero ospitalità e protezione dai due temutissimi fratelli. Alberico, in particolare, dopo aver sottratto Treviso nel 1239 al diretto dominio del fratello, aveva fatto della sua corte un vero e proprio centro di raccolta e diffusione della migliore lirica trobadorica. E’ proprio a Treviso, presso la corte di Alberico, che troverà stabile dimora fino alla sua morte, uno dei massimi esponenti di questa produzione poetica, Uc de Saint Circ.
Sua probabilmente, la prima raccolta di rime provenzali giunta ai nostri giorni e dedicata al suo signore, Alberico, con l’eloquente titolo di “Liber Alberici”. Alberico, che fra una guerra e l’altra, in un clima costante di sospetti, congiure e faide cittadine, trova egli stesso il tempo di comporre alcune liriche “cortesi”, come quella dedicata a una certa e altrimenti sconosciuta Maria de Mons (Monza?).
Presso la stessa corte, almeno dal 1227, era anche presente il più famoso dei rimatori cortesi della Marca, il mantovano Sordello da Goito, immortalato da Dante tra le anime purganti della sua Commedia. Ospite della corte estense e dei conti di S. Bonifacio, Sordello era approdato alla corte trevigiana dei da Romano, portando seco l’altrettanto famosa sorella di Alberico ed Ezzelino, Cunizza, dopo averla sottratta, per amore o su commissione dei due potenti fratelli, al di lei marito, il conte Rizzardo di S. Bonifacio.
Accanto alla produzione poetica non mancavano certamente i giochi e gli svaghi di ogni genere, dai balli, alle giostre, alle corse dei cavalli, ai tornei, come i famosi “Tornei di Dame” o i “Castelli e corti d’Amore”.
Famoso quello tenutosi proprio a Treviso il 19 maggio del 1214, se non altro per aver costituito la circostanza dalla quale scaturì una guerra tra Venezia e Padova, città presenti alla festa con i loro giovani e irrequieti rappresentanti venuti presto alle mani. L’oggetto della festa era rappresentato da un castello artificiale ricoperto di stoffe preziose, porpore, ermellini, dove prendevano posto dame e fanciulle con sul capo ricche corone d’oro, topazi, smeraldi e perle. Le corone dovevano difendere le dame dall’assalto dei giovani che a colpi di noci, mele, datteri, rose e altri fiori e spezie profumate, tentavano di conquistare il castello (e le dame).
Dal resoconto della festa, che doveva probabilmente ripetersi con una certa periodicità, emerge soprattutto la ricchezza, lo sfarzo e, perché no, lo spreco, di una enorme quantità di stoffe e pietre preziose, oltre che di frutta pregiata e fiori di ogni genere, segno di una ricchezza ed abbondanza eccezionali.
E che le feste potessero trasformarsi in pericolose circostanze, lo sapeva benissimo lo stesso padre di Ezzelino ed Alberico, Ezzelino il Monaco, quando, durante una “corte bandita” tenutasi a Venezia nel 1206, rischiò di rimanere assassinato per mano di alcuni sicari del marchese Azzo d’Este, intervenuto anch’egli alla festa.
Le “corti bandite” altro non erano che delle feste intercittadine reclamizzate tramite un bando o un pubblico invito. E’ ancora il cronista e notaio padovano, Rolandino, a riferirci di questa festa, ponendo in bocca ad Ezzelino III, in quell’anno appena dodicenne, le seguenti parole: “Si tenne per sollazzo una curia a Venezia, alla quale intervenne Azo marchese con altri della marca, nobili e potenti. Desiderando mio padre onorare di sua presenza detta curia, prese undici cavalieri, ed egli fu il dodicesimo; tutti ebbero uguali vesti, che si distinguevano solo in questo: che la montatura di mio padre fu di ermellino e quella degli altri di preziosi vai di Schiavonia”.
La corte a Padova
Un altro clima, tuttavia, doveva caratterizzare la corte dello stesso Ezzelino III circa trent’anni dopo questa insidiosa quanto sfarzosa festa veneziana. Poco incline ai divertimenti mondani, preferendovi sicuramente l’attività bellica e militare, Ezzelino aveva posto il suo quartier generale a Padova, da quando Treviso, era caduta sotto il completo e personale dominio del fratello. La città patavina era stata conquistata da Ezzelino, con l’aiuto delle truppe imperiali, il 25 febbraio del 1237, ma i da Romano vi avevano, sin dai tempi di Ezzelino il Monaco, il loro palazzo nella contrada di S. Lucia.
Non poteva certo bastare al nuovo signore! Eccolo allora far costruire il suo nuovo castello con annesse terribili prigioni, accanto alla chiesa di San Tomaso, per mano del tristemente famoso architetto milanese Zilio. Dalla nuova fortezza, Ezzelino controllava e amministrava la vita cittadina, mentre nelle annesse prigioni cresceva, giorno dopo giorno, il numero di uomini, donne e bambini, imprigionati e torturati.
Eppure, anche alla corte di Ezzelino, non mancavano giocolieri, buffoni e novellatori, poeti e uomini di talento e letteratura come riferito da un altro famoso cronista quale il Verci. Si dice, anzi, che si facesse raccontare delle novelle dai buffoni specialmente nelle notti invernali e nelle ore più oziose.
Tuttavia, a differenza del fratello, gli interessi di Ezzelino, andavano verso l’alchimia e l’astrologia. Rolandino lo dice circondato da Saraceni (Arabi) ed Ebrei, depositari, non a caso, della più antica tradizione astrologica ed alchemica. E dall’Oriente proveniva sicuramente un certo Paolo Saraceno “ ... con lunghissima barba venuto di Baldach de confini con l’Oriente ... “.
Del nutrito gruppo di astrologi, che seguivano pare Ezzelino ovunque andasse, facevano parte anche personaggi locali, come un Gaverardo Doenicano e addirittura un canonico padovano, certo Salione. Alla grande passione di Ezzelino per l’astrologia, è da ricondurre anche la presenza, presso la sua corte, di Guido Bonatti autore di un trattato di astronomia e di Gherardo Sabbioneta, autore di una “Theorica planetarum” che resta a tutt’oggi il più antico trattato del genere pervenutoci.
L’astrologo di maggior fiducia, sembra essere stato comunque il famoso Salione Buzzaccarini, “magister” e probabile segretario personale dello stesso Ezzelino al quale aveva predetto, forse malauguratamente, una sicura vittoria a Cassano d’Adda, dove invece il “tiranno” troverà, contrariamente, la morte nel 1259.
Il seguito dei fedelissimi
Accanto agli astrologi, giullari e novellatori, il nucleo della corte di Ezzelino, doveva essere rappresentato anche da quel nutrito esercito di giudici, notai, funzionari di cui si avvaleva il signore nella sua amministrazione.
Ma il nocciolo “duro”, il cuore del suo entourage, era senza dubbio rappresentato dai suoi fidati milites e masnadieri con rispettive famiglie.
Ben presto inviso e temuto dalle grandi famiglie magnatizie padovane, letteralmente perseguitate e decimate da una crescente attività repressiva, Ezzelino doveva certo preferire essere circondato, da persone fidate e al di sopra di ogni sospetto. Tali, in particolare, gli uomini di masnada, legati al signore da vincoli vassallatici e da un giuramento di assoluta fedeltà.
Il loro ostentato sfarzo di ricchezza, era ben noto a quei tempi, tanto da essere chiamati “signori”. Del resto, tanto il cronista vicentino Maurisio, quanto il padovano Rolandino, entrambi testimoni oculari degli anni del dominio ezzeliniano, ricordano la grande passione e l’amore per le vesti preziose e per la vita mondana del seguito dei da Romano.
Una “borghesia”, sostanzialmente colta quella di cui si circondava Ezzelino, anche se non particolarmente raffinata, con una spiccata inclinazione a far propri gli usi e costumi di una antica classe nobiliare, feudale e guerriera, ormai destinata al tramonto.
Le masnade dei da Romano
Da Firenze, il primo aprile del 1265, Cunizza da Romano scioglieva dal giuramento di fedeltà gli uomini delle masnade dei due fratelli, Alberico ed Ezzelino III, all’epoca ormai scomparsi. C’era voluto un atto solenne, a ben cinque anni dalla morte di Alberico, per liberare gli ultimi, irriducibili fedelissimi dei due “tiranni” della Marca Trevigiana.
Ma chi erano questi uomini di masnada, fedeli al loro rispettivo signore anche dopo la sua morte? Il probabile significato del termine “masnadieri”, di gente cioè nata nei mansi o comunque di gente e famiglie obbligate a coltivare un podere (manso), non rende da solo, i caratteri e l’importanza avuta da questi uomini nella politica dei due ultimi, potenti fratelli.
Una politica quella di Ezzelino in particolare, basata su di un vasto patrimonio fondiario e un efficientissimo esercito di milites e mercenari, ma che necessariamente doveva e poteva anche contare su di un ristretto gruppo di fedeli, legati ad Ezzelino da speciali vincoli di ordine primariamente economico, ma non solo. Tali erano innanzitutto, i masnadieri.
Un vero e proprio esercito personale del signore, che con i da Romano, tuttavia, assunse una ben determinata strutturazione. Se la necessità e l’utilità di poter contare su di un ristretto ma fedele gruppo di masnadieri, costituiva una circostanza comune e diffusa presso i più potenti signori feudali dell’epoca, vescovi compresi, di fatto, solo con Ezzelino e in certa misura con Alberico, questi uomini diventarono anche un elemento attivo sul piano politico e militare nel processo di affermazione della potenza dei loro signori.
Una categoria sociale
Con i da Romano, infatti, i masnadieri divennero una vera e propria categoria sociale, amministrativa e militare di uomini “semiliberi”. Il loro “status”, originariamente servile, si distingueva, infatti da quello dei servi veri e propri, per tutta una serie di obblighi come le prestazioni militari, dai quali i servi erano invece esclusi.
Non potevano, tuttavia, considerarsi degli uomini totalmente liberi, per un giuramento di piena ed incondizionata fedeltà che li legava per tutta la vita al signore, l’unico, eventualmente, in grado di scioglierlo.
Uno strettissimo rapporto legava Alberico ed Ezzelino, ai loro uomini di masnada.
Rispetto a questo il giuramento di fedeltà e sottomissione, costituiva solo l’aspetto solenne e formale di un patto fondato sullo scambio di reciproci favori e riconoscimenti, ma anche su di uno specialissimo rapporto personale. La terra rappresentava sicuramente il primo, tangibile segno di questo patto.
Numerosi uomini di masnada, vennero infatti investiti di vasti possedimenti terrieri da parte dei da Romano. Fin dall’XI secolo, ai tempi di Ezzelino il Balbo, si contavano già numerosi feudi di masnada nella zona asolana e del cenedese. Una prassi, quella dell’investitura di terre a uomini di masnada, che garantiva al signore da un lato la possibilità di gestire, anche se indirettamente, queste terre, e dall’altro di assicurarsi tramite questo vincolo, la piena disponibilità di un certo numero di uomini in caso di guerra e il pieno controllo del territorio tramite uomini di comprovata fedeltà.
I masnadieri, legati al loro signore e alla stessa terra, ne seguivano spesso le fatali sorti. E’ il caso degli uomini di masnada di Ezzelino II il Monaco, che lascia in eredità con le terre ai due figli Alberico e Ezzelino. O quando, diversamente, nella cessione di Marostica a Vicenza nel 1218, riesce ad escluderli dalla cessione del borgo. E con la terra, le cariche, gli onori e i benefici. Saranno proprio Ezzelino e Alberico ad impiegare uomini di masnada nella loro amministrazione, una circostanza pressoché eccezionale che non trova infatti riscontro in nessun altro contesto politico dell’epoca.
La rivolta di Bassano
Il caso di Bassano, centro nevralgico del potere albericiano prima ed ezzeliniano poi, è in questo senso estremamente significativo. Uomini di masnada o loro parenti, ricoprono infatti le più alte cariche comunali di marici (procuratori) e di giurati, quando non sono notai o giudici del Comune bassanese.
Ed è proprio a Bassano che nel 1229 insorgono contro Alberico e i suoi masnadieri, dei cittadini chiamati significativamente “liberi”. Il pronto intervento dell’esercito di Ezzelino chiamato in soccorso dal fratello, vanifica il tentativo di rivolta e il borgo viene militarmente occupato dalle sue truppe.
Non sono chiari i motivi della fallita rivolta contro i masnadieri del da Romano. Certo, la loro capillare presenza nelle istituzioni comunali e il loro accresciuto potere, dovevano alla fine vincolare e condizionare eccessivamente l’attività stessa del Comune in termini favorevoli per il loro signore Alberico, naturalmente, mettendo in pericolo la stessa autonomia del Comune che si tentò di difendere ed affermare in un estremo tentativo di ribellione.
Grande ricchezza
L’eccezionale posizione raggiunta dagli uomini di masnada con Ezzelino ed Alberico da Romano, si traduceva anche visivamente in una loro ostentata ricchezza, frutto di tutta una serie di ricompense e benefici. Tra questi, la possibilità di pagare le rendite solo in natura anziché in denaro, caso più unico che raro in una economia bellica, come quella di Ezzelino, costantemente deficitaria di denaro contante.
La loro condizione, si manifestava anche negli usi e nei costumi che tendevano a ricalcare quelli dei più ricchi e nobili signori. Le cronache ce li descrivono vestiti di ermellino mentre accolgono, esultanti, il loro signore Alberico nella piazza di Bassano. Ricchi e potenti, ma pur sempre in realtà uomini semiliberi, i masnadieri apparivano agli occhi della gente, come dei veri e propri signori, tanto da essere scambiati per dei nobili venendo chiamati con l’appellativo di “domini”.
Impiegati nella gestione delle terre, tramite un rapporto di tipo vassallatico e nella struttura amministrativa dei centri strategici del potere ezzeliniano, gli uomini di masnada mantengono tuttavia, anche una funzione propriamente militare.
Guardia del corpo del loro signore, i masnadieri costituivano, all’occorrenza, un piccolo esercito di validi combattenti, pronti a morire per il loro capo che seguivano ovunque nei suoi repentini spostamenti. In un’epoca di scontri e di guerre continue tra fazioni ed eserciti cittadini, gli uomini di masnada assicuravano, specie ad Ezzelino, una forza militare intercittadina, non legata ad alcuna specifica realtà urbana e quindi al di sopra di qualsiasi particolare interesse di fazione. I masnadieri rispondevano esclusivamente al loro signore e da questi e solo da questi, prendevano ordini e disposizioni. Solo il loro signore poteva scioglierli dal vincolo di un’assoluta obbedienza di cui si facevano carico all’atto del giuramento. Chi avesse osato romperlo in diversa circostanza, era pubblicamente ritenuto un traditore.
Una fedeltà totale
Questa cieca e totale fedeltà, non poteva certo essere, tuttavia, il frutto esclusivo di pur cospicui guadagni e benefici che i masnadieri ricevevano in cambio dei loro servigi e della loro completa sottomissione. Facilmente sarebbe venuta meno di fronte ad un più generoso potente. Legare la propria sorte e con essa quella della propria famiglia alla volontà del signore in modo così esclusivo e pieno, rispondeva infatti anche ad una ben precisa etica di fedeltà che si traduceva in molti casi, in un forte legame affettivo; di ammirazione e di rispetto personale verso il proprio signore.
Non si spiegherebbe altrimenti una fedeltà come quella dei masnadieri di Alberico, protrattasi ben oltre la sua morte. E proprio alle estreme e crudelissime circostanze in cui trovò la morte proprio Alberico, risale l’ultima testimonianza sui suoi uomini di masnada. L’episodio ci è raccontato dal cronista e notaio patavino Rolandino, testimone oculare dell’epoca ezzeliniana e della sua stessa fine.
L’episodio finale
Agosto 1260. Alberico, dopo la morte del fratello Ezzelino l’anno prima a Cassano è rimasto solo a fronteggiare un vastissimo fronte di forze nemiche. Rifugiatosi nel possente castello di S. Zenone, tenta disperatamente di respingere l’ultimo, violento attacco.
Abbandonato dai più e tradito dai mercenari tedeschi, Alberico trova il suo ultimo rifugio nella torre del castello, ormai accompagnato dai soli membri della sua famiglia e dai pochi uomini di masnada. La situazione è ormai disperata. In trappola, senza alcuna possibilità di scampo, Alberico si rivolge proprio a questi ultimi con le seguenti parole, nella vana speranza di salvare almeno la vita dei suoi e degli stessi masnadieri.
“So che è meglio che io muoia da solo piuttosto che anche voi tutti assieme a me. Pertanto catturatemi e consegnate me e la mia famiglia ai miei nemici ... “. “Ecco allora che i servi ebbero il dominio sul loro padrone”.
Gli uomini di masnada, così affrancati ed autorizzati dal loro signore, prendono Alberico e lo consegnano all’esercito nemico assieme al tesoro e alla torre del castello, ricevendo in cambio salva la vita. Alberico e la sua famiglia, contro ogni speranza, vengono invece sterminati senza pietà.
L’episodio non solo riafferma chiaramente i rapporti gerarchici fra il dominus e i suoi masnadieri, ma comprova ulteriormente la presenza di quel particolare legame che univa, in questo caso Alberico, ai suoi masnadieri.
Questi, nel momento estremo, non lo avevano abbandonato trovandosi accanto ai soli familiari; pronti a morire con lui e per lui se necessario. Solo l’estremo, magnanimo gesto di Alberico, li costringe ad abbandonare il campo, rendendo loro il triste onore di consegnarlo vivo al nemico vittorioso, segno di quello specialissimo legame che li aveva tenuti legati in tante altre e più fortunate circostanze.
Le artiglierie di Ezzelino
Ezzelino fu un grande tiranno, certamente un signore feudale duro e sanguinario, forse non più della media, visti i tempi, ma deve anche essere ricordato per il suo ruolo militare, per essere stato l’artefice e il condottiero di un esercito altamente professionale, che poteva contare su alcune centinaia di “quadri”, di ufficiali e soldati allenati alle battaglie e su alcune altre centinaia di collaboratori militari, quali carpentieri, fabbri, uomini di fatica, ecc. che rappresentarono una sorta di “Genio Militare” del dominio ezzeliniano.
L’artiglieria, lo sappiamo, di quei tempi non era certo formata da bocche da fuoco, ma soprattutto da macchine di legno, tirate da buoi, che funzionavano come dei grandi cucchiai su cui venivano caricati grossi macigni di pietra. Il cucchiaio tirato da funi veniva poi sganciato e il carico volava sopra il bersaglio, normalmente un tratto di mura di qualche castello o città oppure i tetti e le facciate delle case, provocando grandi rovine. Erano i proiettili e l’artiglieria del medioevo.
Gli Ezzelini furono all’avanguardia per quei tempi e nel territorio della Marca non furono certo secondi a nessuno nell’uso delle temibili petriere o trabucchi e mangani.
Nel 1213 l’esercito padovano assediò la rocca d’Este, aiutato da contingenti vicentini che erano arrivati sul posto con le loro macchine da guerra, al comando di Ezzelino II da Romano. Presente c’era pure Ezzelino junior, che sarebbe poi divenuto il Tiranno della Marca Trevigiana.
“Questi - racconta il Rolandino testimone oculare del tempo - quantunque ancora fanciullo, già mostrava un sottile ingegno nel costruire, insieme con i coetanei, macchine per lanciare pietre entro la rocca”.
Ezzelino junior aveva allora diciannove anni e una carriera di potere davanti a sé. Ma la tradizione di possedere trabucchi e mangani i da Romano ce l’avevano da tempo.
Da un documento del 1189 si evince che gli uomini di Solagna, territorio compreso nel dominio dei da Romano, dovevano rispettare il divieto di tirare “nec cum mangano nec cum trabuchello, aut cum prederia”.
La proibizione coinvolgeva anche i da Romano che erano dunque possessori di macchine da guerra, le più aggiornate. In quel tempo infatti si era fatto un certo progresso nell’ammodernare le vecchie tecniche militari della classicità. Le petriere erano macchine da guerra romane, il congegno a torsione per il lancio non era cosa nuova, ma l’età medievale, forse per il continuo prodursi di guerre, fu una età di sviluppo tecnologico senza precedenti in campo militare.
I mangani infatti sono opera medievale, e soprattutto il trabucco era un’opera di nuova concezione: “era una grande fionda che funzionava mediante la spinta di un contrappeso di piombo o di sabbia” (A. Settia: Le artiglierie di Ezzelino).
“E’ probabile - dice il prof. Settia nel suo profilo di Ezzelino - che tra le macchine presenti a Este vi fossero dei trabucchi, che erano, come si è visto dal documento di Solagna, già noti nel Vicentino dal 1189. I trabucchi verranno poi impiegati dai Padovani nel 1215 in un assedio che andò male alla torre di Baiba. Peraltro nell’assedio di Este i cronisti raccontano dell’uccisione del conte di Padova raggiunto sotto le mura della città da una pietra lanciata da una torterella, una versione minore ma non meno efficace del mangano. In uso per molti anni resteranno le vecchie petriere e baliste accanto ai nuovi mangani e trabucchi. Congegni di nuovo tipo convivevano quindi accanto a congegni di vecchio stampo. Infatti insieme ai trabucchi continuano a rimanere in uso le vecchie macchine, la vecchia petriera e torterella, la balista, in grado di lanciare grossi verrettoni.
“Il tiro della macchina a contrappeso fisso è prevalentemente curvo e di gittata maggiore rispetto a quello, teso e più ridotto, dei congegni muniti di contrappeso mobile; accanto ad essi vi era inoltre un ordigno manovrato con corde a trazione umana (forse da identificarsi con il mangano), di più rapido e pronto impiego, il quale consentiva una maggiore velocità di lancio” (A. Settia, op.cit.).
Restando sempre all’esempio del famoso assedio alla rocca di Este vi fu in quell’occasione un grande uso di macchine d’assedio e da tiro. Venne messo in atto uno schieramento spettacolare - raccontano i cronisti coevi - di belfredi (ossia di torri mobili), di petriere e di ben quattordici “hedificia trabuccantia”.
Più oltre, nel 1245, sempre il nostro Ezzelino prende d’assedio il castello di Noale “cum bledis et aliis instrumentis”. La bleda (detta pure biffa o briccola) era allora un perfezionamento del trabucco, munito di due contrappesi.
Nel 1246 Ezzelino invia cinquecento fanti padovani con trabucchi a prendere Campreto. Poco dopo la presa di Mussolente viene affidata a reparti dotati di numerosi trabucchi e mangani. Tutto ciò - come osserva il prof. Settia - lascia intendere che le macchine viaggiassero debitamente smontate assieme ai reparti operativi e venivano poi assemblate sul posto, davanti alle mura da smantellare o alla città da terrorizzare per ottenerne la resa.
Ne consegue che l’organizzazione doveva essere complessa (era necessario avere un buon numero di fanti o uomini di fatica - si pensi che ci voleva un centinaio di uomini per mettere in tensione un trabucco) e doveva comprendere non solo il parco macchine ma anche un congruo numero di ingegneri militari e mano d’opera specializzata nella costruzione e nell’uso dei micidiali congegni.
Importante era poi il supporto logistico, il munizionamento ed il trasporto. I proiettili erano una vera calamità, producevano danni molto seri, non alle persone, quello era il rischio minore, ma alle cose che erano il vero obiettivo.
Neanche le mura erano importanti per gli smantellatori di Ezzelino, infatti il bombardamento era fatto a tappeto, nulla doveva salvarsi, si doveva provocare il disagio psicologico dell’avversario per costringerlo alla resa. Il rimbombo dei colpi per settimane o per mesi doveva piegare gli assediati.
La rocca di Este fu totalmente distrutta, compreso il dongione, e non ci si stupisca poiché le macchine di Ezzelino sparavano pietre di almeno 180 chili! La sola minaccia quindi di usare i trabucchi poteva piegare la resistenza di una guarnigione e indurla alla resa quasi senza combattere. Solo la posizione elevata di qualche fortezza poteva annullare il vantaggio tecnologico delle macchine, inventate da uomini di ingegno, tra i quali a sorpresa troviamo pure un frate minore laico, “magister ingegnerius” di Ezzelino, un super tecnico dell’epoca.
Ezzelino e la progenie
Riconosciuto pressoché unanimemente quale feroce guerriero e spietato tiranno, ad Ezzelino III da Romano la cronicistica ha concesso veramente ben poco di gratificante. Per non parlare delle numerose leggende e credenze popolari che lo volevano niente meno che figlio del demonio, o demonio egli stesso. Eppure ad Ezzelino non mancò, seppur a denti stretti, il riconoscimento delle sue doti militari e della sua scarsa propensione ai piaceri della vita mondana quali il gioco, il denaro, il lusso o le Le donne.
A differenza del fratello Alberico, campione di lussuria tanto da dover rinchiudere in casa dame e fanciulle al suo passaggio - siamo naturalmente nella leggenda - Ezzelino non sembra essersi distinto per alcun particolare interesse verso il gentil sesso che in qualche cronista si tramuta in un vero e proprio odio per le donne. Preferiva, si disse, baciare le soglie delle città conquistate.
Odio per le donne?
Il gioco era fatto. In un personaggio considerato il diavolo in terra per ferocia e crudeltà, anche un possibile aspetto positivo, e tale riconosciuto, non poteva non destare atroci sospetti sulla sua reale natura, oltre che sulla sua ortodossia. Non bastarono i quattro matrimoni che pur Ezzelino aveva successivamente contratto. Restava il fatto che da nessuna di queste unioni nacque un figlio. Non era questo un problema da poco, per secoli in cui la procreazione era l’aspetto fondamentale di ogni matrimonio e la prova tangibile dell’avvenuto adempimento dei rispettivi doveri coniugali implicitamente richiesti nel sacro vincolo del matrimonio.
Non sono così casuali, in questo senso, le parole con le quali il pontefice Innocenza IV apostrofa Ezzelino in un documento del 1248: “Tu (Ezzelino) che neghi la realtà della natura e ti opponi ai naturali connubi... “.
Erano i tempi. Tanto veniva considerato un peccato la lussuria, ugualmente deprecabile e condannabile era il solo sospetto di rifiutare il dovere di procreare nell’ambito del matrimonio.
Ezzelino nega la natura umana
Nelle parole del papa, che in quello stesso anno scomunicava Ezzelino quale seguace dell’altrettanto scomunicato imperatore Federico II di Svevia, si celava tuttavia, anche una ben più grave accusa, quella di “negare la natura umana”. E con le parole del pontefice, quelle dei cronisti che accusavano Ezzelino di “... separare i mariti dalle mogli ... “ e di voler proibire la propagazione umana.
Il fatto che Ezzelino non avesse avuto figli, era dunque l’estrema e definitiva riprova di una natura diabolica che come tale si opponeva a quella umana mirando, niente meno, che alla definitiva soppressione del genere umano.
Il rifiuto della progenie e con esso del vincolo di sangue e in sostanza dello stesso matrimonio, appariva agli occhi della Chiesa, come il rifiuto da parte di Ezzelino, della stessa struttura familiare quale irrinunciabile e sacro fondamento della società civile e religiosa. Rifiutare questo, significava rifiutare ed opporsi all’ordine voluto e stabilito da Dio per l’intera umanità e del quale la chiesa era in terra il principale, esclusivo garante.
L’accusa di eresia, anche se mai formalizzata ufficialmente in questi termini, diventava a questo punto per Ezzelino inevitabile. Il rifiuto del genere umano e con esso, quale definitiva prova, del naturale rapporto volto alla procreazione, erano infatti alcuni degli aspetti che definivano, nella percezione comune del tempo, l’eretico, ed in particolare gli esponenti di una ben determinata setta quale quella dei Catari.
Adesione al Catarismo?
Capillarmente diffusi e radicati nelle principali città della Marca Trevigiana - Vicenza era una delle cinque sedi “nazionali” della loro chiesa - i Catari, e con loro gli esponenti di altre sette ereticali come i Patarini, beneficiarono effettivamente sotto Ezzelino, di una larga libertà e di una sicura protezione dalle maglie dell’Inquisizione.
Non sussiste, tuttavia, alcuna prova di una piena e personale adesione di Ezzelino al Catarismo che trovava nel rifiuto della progenie e del vincolo sacramentale del matrimonio, proprio uno dei suoi principali elementi caratterizzanti, condizione obbligatoria specialmente tra i “perfetti”, i veri amministratori del culto cataro.
A riprova del fatto che Ezzelino non aderì mai personalmente al Catarismo, non c’è soltanto una personalità scevra da ogni interesse religioso o dogmatico, ma anche il fatto che il “tiranno” non venne scomunicato quale eretico fino 1254, ad appena cioè cinque anni dalla sua morte. Il papa, inoltre, dalla prima scomunica del 1248 quale seguace di Federico II, quella propriamente per eresia del 1254, tentò di persuadere Ezzelino a presentarsi al suo cospetto per chiarire la sua posizione in materia di fede.
Per il suo eventuale viaggio a Roma, il pontefice era anche disposto a rilasciargli un salvacondotto e la possibilità, dopo i reiterati dinieghi di Ezzelino in tal senso, di scegliere egli stesso la sede che riteneva più opportuna per l’incontro.
Accusato di orrende atrocità
Tanta disponibilità non sì giustifica se Ezzelino fosse stato veramente riconosciuto quale aderente all’eresia catara, venendo riconosciuto “amico di eretici” e “una delle volpi che devastano la vigna del Signore ... “.
La condanna per eresia del 1254, poi, non fa il benché minimo accenno a questa eventualità, chiamando in causa direttamente, invece, la stessa natura di Ezzelino: “... assetato di sangue umano ... “ e accusato di “accecare giovani innocenti, di evirare con orrendi tagli fanciulli e fanciulle ... “ oltre che di perseguitare negli uomini non tanto i singoli individui, quanto la natura umana”.
Ci risiamo. Ezzelino non viene riconosciuto quale eretico per ragioni di ordine propriamente religioso o dogmatico, quanto per la sua sfrenata ferocia contro il genere umano. Che poi Ezzelino si interessasse anche di astrologia, magia e negromanzia tanto da essere accusato di idolatria, non poteva che aggravare ulteriormente la sua situazione.
Così l’alleanza con il pluri-scomunicato imperatore Federico II e la conseguente politica filo-imperiale. Protettore di astrologi, eretici e ghibellini, Ezzelino rappresentava il concentrato di tutto ciò che per la Chiesa era temuto e condannato. Se a questo si aggiunge un politica basata sul terrore e sulle più spietate epurazioni, è comprensibile come fosse inevitabile per il pontefice, fulminare Ezzelino con la scomunica.
I matrimoni della politica
Se l’assenza di progenie non costituì dunque il reale e diretto motivo del provvedimento ufficiale di scomunica - altri e ben più complessi erano gli elementi che portarono a condannare Ezzelino quale eretico - purtuttavia essa costituiva l’ennesima aggravante in tal senso.
Resta, in ogni caso, l’interrogativo. Perché mai Ezzelino non si preoccupò di assicurarsi una discendenza e con essa la possibilità di poter contare sui membri della propria famiglia? Oltretutto i figli avrebbero dato la certezza che il patrimonio e il potere accumulati in tanti anni di sanguinose guerre e di strategiche alleanze, sarebbe alla sua morte restato nell’ambito della propria casata. In questa prospettiva si erano mossi il padre, Ezzelino II il Monaco, sposatosi ben quattro volte e il fratello Alberico con i suoi due matrimoni.
Per entrambi le unioni portarono una numerosissima prole di almeno otto figli ciascuno tra maschi e femmine.
Anche Ezzelino, come accennato, arrivò a sposarsi per ben quattro volte. La prima nel 1221. Matrimonio combinato dal padre quello con Zilia o Gisla, sorella del conte Rizzardo di S. Bonifacio che sposò a sua volta la sorella di Ezzelino III, Cunizza.
Matrimoni incrociati voluti con l’unico scopo di assicurare alla propria casata, attraverso il rapporto parentale, per lo meno l’amicizia dei potenti conti veronesi. Presto però ripudiata - il rapido mutamento delle circostanze politiche richiedevano una altrettanto rapida ricerca di nuove alleanze -, di Gisla non se ne sa più nulla. Si sa invece del secondo matrimonio contratto da Ezzelino con Selvaggia, la figlia naturale dell’imperatore Federico II.
Anche in questo caso l’amore doveva c’entrare ben poco, prevalendo ancora la “ragion di stato” sui sentimenti. Le nozze, celebrate tuttavia con grande sfarzo nella chiesa di S. Zeno in Verona il 22 maggio del 1238, sancivano infatti quell’alleanza politico-militare tra Ezzelino e l’imperatore che aveva già portato alla conquista delle principali città della Marca tra il 1236 e il 1237.
Neppure di Selvaggia si conosce la sorte. Si disse che la fece morire per gelosia o semplicemente per poter convolare a nuove nozze con Isotta Lancia.
Imparentata con la casa sveva - la zia o forse la sorella, Bianca Lancia, era stata l’amante di Federico II al quale diede il figlio Manfredi - Isotta non ebbe tuttavia sorte migliore delle precedenti consorti venendo ben presto anch’essa ripudiata.
Si arriva così al quarto ed ultimo matrimonio di Ezzelino con Beatrice dei conti di Castelnuovo il 16 settembre del 1249.
Alla donna, Ezzelino si era promesso sposo circa un mese prima, in occasione di una festa tenutasi nel palazzo del patriarca di Aquileia a Padova per dimostrare la sua amicizia al di lei padre, il conte Buontraverso.
Tutto, come sempre, era calcolato. Questi, infatti, era a sua volta amico del marchese d’Este da sempre acerrimo nemico dei da Romano e difensore delle prerogative papali nella Marca Trevigiana. Papa che proprio in quei giorni ripubblicava la scomunica contro Ezzelino.
Il Rolandino, notoriamente cronista antiezzeliniano, ci dice tuttavia che Ezzelino fosse della donna veramente innamorato, rilevando come nel tiranno riuscissero a convivere, amore e crudeltà. Sarà, ma nel 1256 Ezzelino non ci pensa due volte a far uccidere il suocero sospettato di aver congiurato contro di lui, malgrado, si disse, le ripetute suppliche della moglie. Le ragioni politiche erano state ancora una volta per Ezzelino prioritarie.
Una scelta consapevole?
Queste le donne sposate da Ezzelino III dalle quali il “tiranno” non ebbe dunque alcun figlio. Natura, destino o piuttosto un scelta ben precisa e motivata quella di Ezzelino di non aver figli?
Quest’ultima possibilità sembrerebbe quella attualmente più credibile, dal momento che Ezzelino, si racconta, un figlio lo abbia anche avuto. Informato probabilmente dallo stesso imperatore che durante un convito a Padova si sarebbe cercato di ucciderlo, Ezzelino fa arrestare rapidamente numerosi congiurati. Siamo nel 1246 e fra gli sventurati che verranno tutti decapitati il 10 novembre di quello stesso anno, figurano anche i fratelli Pietro e Giordano Bonici.
Dei due, avrà salva la vita solo Pietro, dopo che la madre Gisla aveva svelato ad Ezzelino che quello era in realtà suo figlio. I cronisti raccontano che nel 1218 Ezzelino II il Monaco, durante una malattia, sia stato ospite a Padova nella casa di Zilio dei Bonici, marito di Gisla.
Accanto al padre c’era anche Ezzelino, all’epoca ventiquattrenne. Non è da escludere, concludono, che in quell’occasione fra i due sia intercorsa una relazione dalla quale nacque appunto Pietro, risparmiato poi dal padre, ma ugualmente punito quale congiurato con il carcere a vita nelle prigioni di Angarano.
A parte questa circostanza, non è dato sapere fino a che punto corrispondente al vero, sta di fatto che Ezzelino a differenza del padre e del suo stesso fratello, non si curò minimamente di assicurare continuità alla propria stirpe.
I figli, specie nelle grandi famiglie feudali, erano parte integrante del patrimonio familiare. La famiglia, in questo ambito, costituiva da sempre il nucleo centrale del potere di un signore, basato essenzialmente su rapporti personali e vantaggiosi matrimoni combinati allo scopo di procurarsi ed assicurarsi alleanze e nuovi patrimoni che con le nozze venivano portati in dote dalla sposa.
Il peso della famiglia
La famiglia, specie dopo il riconoscimento dell’ereditarietà dei feudi, rappresentava anche la possibilità di assicurare il patrimonio e il potere che ne derivava, all’ambito esclusivo della propria “domus”, assicurando così la sua stessa sopravvivenza. La stirpe, la casata, diventa lo strumento essenziale per l’affermazione politica grazie ad una fitta rete di rapporti personali, parentali e di amicizie che implicavano e richiedevano, in quanto tali, la massima fedeltà. Una fedeltà e una solidarietà, tuttavia, che restavano indiscusse fintantoché veniva mantenuta l’unità stessa della famiglia.
Impresa, quest’ultima, divenuta pressoché impossibile ai tempi di Ezzelino III. L’ascesa delle grandi famiglie, la loro conseguente espansione ed affermazione anche nei centri urbani, significarono infatti, anche la perdita di quell’antica unità familiare. Tanti e complessi erano gli interessi e le parti in causa, che non divenne difficile trovare schierati su diverse ed avversarie posizioni, padri, figli, cugini e vecchi amici.
La città con i suoi partiti, le fazioni e le clientele, aveva obbligato anche i membri di una stessa famiglia, a schierarsi, scegliere e combattere per l’una o per l’altra parte che non necessariamente coincideva, quanto ad interessi, con la propria famiglia di sangue.
Ezzelino sembra aver compreso pienamente tutto questo e la stessa labilità di un rapporto fiduciario basato esclusivamente sulle relazioni parentali. Aveva visto con quanta facilità il figlio di Federico II si era opposto al padre e come il suo stesso fratello si fosse schierato contro di lui per tutelare e perseguire i propri interessi. Il suo stesso matrimonio con la sorella del conte Rizzardo di San Bonifacio, aveva dimostrato tutta la sua inutilità sul piano politico dal momento che il conte veronese restò sempre uno dei più convinti oppositori di Ezzelino accanto al marchese d’Este.
Una lezione terribile
Ezzelino non può che prendere atto delle nuove e mutate condizioni e comportarsi di conseguenza in relazione anche alle personali aspirazioni. I figli, oltre a non costituire una sicurezza quanto a fiducia e lealtà, dovevano apparire ad Ezzelino anche un pericoloso elemento disgregatore dello stesso patrimonio.
Le eredità portavano più spesso con sé lotte fratricide che altro, con un conseguente indebolimento della stessa casata, magari a vantaggio di altre.
Quella di non aver figli, appare in quest’ottica, una scelta ben precisa da parte di Ezzelino.
Per l’affermazione del proprio potere, il da Romano punta decisamente su altri e ben più sicuri livelli, che non su quello ormai precario ed inaffidabile dei rapporti familiari. Un forte ed organizzato esercito, oltre a un fedelissimo pugno di masnadieri, erano per Ezzelino degli strumenti ben più affidabili ed efficaci per una sicura e rapida affermazione personale.
I figli, i parenti stessi, rappresentavano rispetto a questo fine solo una fonte di ulteriori e continui problemi, una seria minaccia alla stessa integrità del proprio patrimonio e del personale potere.
Ezzelino non combatte contro tutti e tutto per la gloria della sua casata. Egli “lavora in proprio” ed innanzitutto per il proprio prestigio e per la propria sopravvivenza. Il potere che gli garantiva questo, restò sempre per Ezzelino un qualcosa di esclusivamente personale pur muovendosi, all’occorrenza, nei più generali confini dell’impero federiciano.
Anche in questo ambito, Ezzelino persegue innanzitutto la realizzazione di un vasto potere unitario ed individuale dove le pressioni e i problemi contingenti sembrano aver definitivamente allontanato la preoccupazione a chi lasciare tutto ciò che faticosamente andava conquistando, terre e potere, dopo la sua morte.
Non poteva essere questa la principale preoccupazione di un “tiranno” che aveva voluto legare indissolubilmente le sorti e il destino della propria potenza alla sua sola persona. Una potenza, quindi, destinata a dissolversi inevitabilmente con la morte del suo stesso artefice. Forse, era proprio quello che aveva voluto lo stesso Ezzelino rinunciando consapevolmente ad ogni discendenza.
Laura Poloni
[Continua alla Parte Terza]