VICENZA DALLA MORTE DI EZZELINO ALLA SIGNORIA SCALIGERA (1259-1311)

 

 

di Vittorio Bortolaso

(Nuovo Archivio Veneto-1912, nn.23-24)

 

 

GLI ORDINAMENTI DI GIUSTIZIA

Pericolo costante alla stabilità e libertà del governo comunale sono i nobili; e gli avvenimenti dal 1260 al 1311 provano la verità dell’asserto e giustificano la condotta del Comune contro di essi. Chiusi nei loro palazzi di città e nei tanti castelli del distretto, questi magnati cercavano di tirare a sé i cittadini, di legarseli con giuramento; baldanzosi nelle loro fortezze, spesso uscivano con le loro compagnie, con gli aderenti, in lotta contro un’altra famiglia nobile. Alcuni erano guelfi, altri ghibellini; in prevalenza ghibellini però, se non altro per antitesi al governo guelfo di Padova; e ne abbiamo visto il posto nella lotta del 1311.

 

Guelfi o ghibellini, di una famiglia o di un’altra, uniti o discordi, costituivano un serio pericolo per il Comune di fresco uscito dalla dominazione ezzeliniana: un pericolo continuo e grave a Vicenza più che in alcun’altra città, perché in questa tra i nobili numerosi e discordi non c’era alcuno tanto forte da sopravanzare gli altri, per disfarsene o tenerli a sé sottomessi e da aprirsi la via alla signoria approfittando delle lotte interne. Il contrario era accaduto a Treviso con i Caminesi, a Verona con i Della Scala; accadrà presto anche a Padova con i Carrara che, abili e astuti sulle libertà comunali rovinate, avean costruito o costruiranno la loro signoria.

 

A Vicenza non fu così. Indagare ora le conseguenze di una signoria a Vicenza tra la sorgente potenza Scaligera, vicina ai Caminesi e ai Carraresi, mentre da occidente si avvertiva la biscia Viscontea e da oriente la potenza Veneta di terraferma non s’era formata, è tentativo vano ed assurdo.

 

Contro gli attentati d’una possibile signoria si premuniva il Comune con i suoi statuti. Nessun nobile o potente può in qualsiasi modo comperare o procurarsi giurisdizioni, mariganzie, comitati, fodri, tributi “vel alia pertinentia ad iurisdicionesaliquas neca liqua castra destructavel non, necmontesaliquos in quibuspossentconstrui castra”. I compratori e i venditori di simili diritti “ipso facto” ne restano privati. Questo statuto è diretto ad impedire l’ingrandimento soverchio di alcuni nobili, l’accumulamento eccessivo e pericoloso per il Comune di troppi beni nella mano d’uno solo.

 

Naturalmente resta proibito valersi di diritti, di giurisdizioni. Le misure contro i nobili si scorgono anche nelle varie sanzioni inflitte ai trasgressori degli statuti. Contro chi tiene o nasconde i “forbanniti” nel 1264 la multa è varia. Un conte paga 1000 lire di multa, un nobile (cavaliere) 500 ed un cittadino qualunque 200. Nel 1311 la multa è di 500 lire per un castellano, di 300 per un nobile (miles) e di 100 per un privato (pedes).

 

Lo statuto del feudo, determinante la sua natura, tende a diminuire e limitare le pretese feudali, i diritti che facilmente potevano essere avanzati dopo la caduta di Ezzelino.[…]

 

Un nobile che rechi o permetta o faccia commettere danni, ingiurie, offese nel suo territorio è tenuto a risarcire il danno, stimato secondo il giuramento del danneggiato, “si fuerit bone opinionis” a pagare inoltre una multa di 100 lire al Comune e a soddisfare i danni nel termine di quindici giorni. Il nobile è responsabile anche dei danni e delle ingiurie dei famigli e degli abitanti del luogo. Il podestà è obbligato a procedere giudiziariamente contro il nobile che impedisse o comunque ostacolasse a un cittadino il possesso, la immissione in possesso di una terra; ad obbligare il nobile a rifondere i danni al privato e a pagare una multa. Il Comune a sue spese deve far lavorare la terra da cui il proprietario coltivatore fosse lontano “alicuius timore vel contradicione”.

 

Un alt alle fortificazioni

 

Importante è la proibizione della costruzione di castelli, torri, palazzi, fortilizi. […] Nel 1311 si ripete il divieto di “uti in Vicentia et Vicentino districto aliquibus condicionibus vel comitatibus sub pena 1000 Marcharum argenti, quam si solvere non potuit quod decapitetur praeter quam pro Comuni Vincentie”. Il Comune si premunisce contro l’acquisto di nuovi diritti, di dazio, pedaggio, pontatico. Chi esercita o vuol esercitare il diritto di muda, di pedaggio, di fodro, d’alemannia in Vicenza, deve mostrare il diritto acquisito da lungo tempo (trent’anni) o da una lunga consuetudine.[…]

 

Tutte queste disposizioni ora ricordate sono dirette contro i nobili, ma particolarmente alcune. Lo statuto “de comitatibus et iurisdicionibus non utendis”, almeno nelle intenzioni del Comune, era fatto soltanto contro i nobili.

 

Nella controversia del vescovo col Comune del 1289, questi a scolparsi che detto statuto non s’era preso contro la libertà della Chiesa, dichiara “quod predictum statutum sive refformacionem de iurisdicionibus non utendis sive quocumque nomine noncupetur factum et facta est propter potentes et nobiles et magnates Civitatis et districtus Vincenciae. Qui per potentiam nitebantur et volebant uti iurisdicionibus et comitatibus in terris et castris Vicentiae contra Deum et iusticiam”.

 

Colgo delle altre sanzioni, da cui si può raccogliere con quali misure fossero trattati i nobili.

 

Chi impedisce ad un cittadino di presentarsi al podestà incorre in una pena che è di 200 lire per un conte, di 50 per un gastaldo e di 25 per qualunque altro; 10 mila lire di multa, tanto quanto per un comune, sono comminate a chi costruisce o fa costruire qualche castello o lo munisce; “tempore alicuiusrumoris” nessun cittadino deve accorrere alla casa di qualche nobile “velalicuius magni civis”. Il nobile (miles) che faccia promesse ad un estraneo, incorre nella multa di 50 lire, un cittadino comune (pedes) 25 lire soltanto.

 

Non intendo dare troppo peso a questa diversità di provvedimenti, ma, notando questa costante differenza, credo logico inferirne che ai nobili indocili, irrequieti, discordi, occorreva mettere un morso che stringesse di più; purtroppo non valse mai ridurli al dovere.

 

IL COMUNE E LE FRAGLIE

 

Accanto ed insieme al Comune vivono le corporazioni di arti e mestieri: le fraglie.

 

Gli otto gastaldi delle fraglie sono tra gli anziani e partecipano al Consiglio dei quaranta; gli inscritti alle fraglie possono essere citati davanti ai loro gastaldi e possono appellare al rettore; i gastaldi, consenzienti i loro confratelli, possono imporre collette, far bandi sino a 10 soldi per ogni iscritto e hanno diritto in ciò di essere coadiuvati dal podestà. I dottori di legge, di fisica, di grammatica e dialettica, i medici sono esenti dall’esercito e dal piovego (canale pubblico, n.d.c.), non però dalla colletta di S.Corona. I medici poi in caso di guerra devono seguire l’esercito con i ferri del mestiere; per turno, alcuni delle fraglie sono destinati a far la guardia alle porte della città; le fraglie intervengono alle solennità di S.Corona e alla processione della Spina.

 

Nessuno può rappresentare come gastaldo più di un’arte; discutendosi gli interessi di qualche fraglia, collegio, tutti possono intervenire alla discussione, esporre le proprie ragioni, ma al momento della votazione gli interessati se ne allontanano. Le matricole delle fraglie sono corrette dal podestà e dagli anziani.

 

Le fraglie pertanto partecipano alla vita comunale ed il Comune interviene alla sua volta nel loro ordinamento interno.

 

La fraglia dei giudici e dei notai aveva importanza capitale nell’organismo burocratico amministrativo del Comune. Basta scorrere la lunga lista delle cariche, degli uffici coperti dai giudici e dai notai, che avevano il diritto di eleggere nel loro seno gli impiegati ai varii offici, della loro fraglia.

 

La corporazione dei giudici non ebbe tale potenza da divenire padrona della pubblica cosa, come avvenne a Padova verso il 1300.

 

Lo statuto dei notai del 1283 fu approvato dal Consiglio dei 400; nel 1309 una certa compera della fraglia fu letta e divulgata nel Maggior Consiglio. Una disposizione dello statuto dei notai “de tergis et capellisemendistrecentisnotariis” viene cassata dal Consiglio dei 40 e dei 400. Il che mostra come il Comune si immischiasse anche nell’organizzazione interna della fraglia dei notai.

 

Per essere convocato il Capitolo Generale dei Notai, si deve aver il permesso del podestà di Vicenza.

 

I beccari nella vendita della carne devono attenersi alle disposizioni del Comune.

 

I sartori non devono far lega coi mercanti, devono attenersi ai prezzi fissati dallo statuto e devono servirsi delle misure Vicentine. Ai calzolai è concesso di lavorare di giorno e di notte.

 

Nel 1311 lo statuto registra 12 fraglie, cioè: dei giudici, dei notai, dei mercanti, dei cerdoni, dei marzari, dei beccari, dei sartori, dei tavernieri, già esistenti nel 1264 e più quella dei pellipari, dei marangoni o dei mastellari, dei pezzeroli e dei fabbri.

 

IL DOMINIO PADOVANO A VICENZA

 

La prima lontana origine del dominio di Padova su Vicenza va ricercata più in là del 1266, va ricercata nella politica padovana di espansione e di ingrandimento, nelle particolari condizioni storiche di Vicenza ed in alcuni dei Vicentini stessi. Appena morto Ezzelino, desiderava “Comune PadueVicentiam de servituteredimere”.

 

La buona volontà dei Padovani fu ben rimunerata subito dopo, quando partiti i Vicari di Ezzelino, Giovanni Nievo, Aliandro Proti,, Iseppo Loschi, Enrico Creazzo – milites nobiles et prudentes – accorsero a Padova e pregarono il podestà Guidone da Montefoiano ed il Comune ad affrettarsi a Vicenza per difenderla; ed il podestà – vir sapiens et astutus – cavalcò prontamente a Vicenza “et datam sibi civitatem communiter sua eque protectioni commissam assumsit”. I Padovani, consenzienti i Vicentini, posero a podestà Aicardino di Litolfo. Ai 9 ottobre del 1259 il Comune di Padova ricevette Bassano libera per opera sua dalla signoria di Ezzelino, Bassano soggetta e dipendente da Vicenza, sotto la sua protezione e l’aggiudicò a sé. Vicenza dopo molto gridare e protestare, la riebbe solo nel settembre dell’anno seguente, intermediario Bartolomeo da Breganze, facendo dei patti di favore ai Padovani.

 

Si comprende come Padova libera fin dal 1256 cerchi liberare le città vicine; si comprende fino ad un certo punto che Vicenza nel subbuglio e nella confusione susseguiti alla morte di Ezzelino, ricorresse alla maggiore e potente sorella per aiuti; ma non si spiega l’eccessivo zelo di Padova con queste sole considerazioni; Padova mirava, caduto Ezzelino, a sostituirlo nella sua politica? E’ azzardato dirlo nel 1250. Certo la condotta e gli avvenimenti posteriori la resero la prima città della Marca Trevigiana, la città signora di molta parte della Venezia. Presentatasi l’occasione favorevole di immischiarsi negli affari di Vicenza e di Bassano, soggetta a Vicenza, cominciò a farla da padrona.

 

Il pericolo delle fazioni

 

A Vicenza caduto Ezzelino, le parti interne potevano avere il sopravvento e la città poteva tornare sotto la signoria di un’altra famiglia o restar campo e vittima delle lotte di parte; e Vicenza si appigliò alla risoluzione pratica ed immediata, per allora non apportatrice di gravi conseguenze.

 

Queste intenzioni espansioniste e dominatrici si vengono man mano sviluppando. Padova interviene nelle controversie puramente interne tra Bassano e Vicenza; chiama i due contendenti ad un arbitrato a Padova dinanzi al suo podestà Marco Quirini; nelle discordie successive Padova assume le parti della difesa dei Bassanesi contro Vicenza, se ne fa l’ala protettrice e fa capire ai Vicentini di voler far rispettare i patti con i Bassanesi con mezzi diversi dalle lettere e dalle ambasciate.

 

Altra occasione nel 1263 s’era presentata ai Padovani di intervenire in Vicenza. L’occupazione da parte dei fuorusciti Vicentini di Marostica, Meledo, Thiene, Isola; la debolezza del podestà in carica, Jacobino de’ Trotti da Ferrara, avevano costretti i Vicentini a ricorrere nuovamente ai Padovani e a dar loro “civitatem per custodiam tantum”. Rolando Englesco padovano fu il podestà messo da Padova e padovano fu pure il successore Gabriele di Guido del Negro, sebbene eletto dai Vicentini.

 

Nel 1266, sotto la podesteria di Marco Quirini, Vicenza, stretta da Artusio e Rodolfo da Vivaro e Alberto Zoto da Breganze, che s’erano impadroniti di vari castelli nel Vicentino coll’intervento dei Veronesi, accorsi in aiuto dei ribelli e padroni già di Lonigo e d’altre terre Vicentine, “dedit iterum civitatem in custodia Paduanis”.

 

Una corsa per svendere la città ma non tutti ci stanno

 

Ai 20 settembre del 1266 nel Maggior Consiglio fu trattata e discussa la questione; Marzio da Barbarano a nome degli anziani e del Comune propose di consegnare ai Padovani le fortezze di Vicenza e Castel S.Pietro. Pilio notaio, gastaldo della fraglia dei notai, appoggiò la proposta, il castellano di Vello lo seguì; il solo podestà Marco Quirini non volle cedere e protestò in pieno Consiglio fortemente contro simile deliberazione, sostenendo che non avrebbe rinunziato al possesso delle fortezze e della città per tutto il tempo della sua podesteria. Le parole di alcuni degli anziani attestantigli la stima e la soddisfazione per il suo operato, non valsero a smuoverlo e dichiarò nuovamente di non cedere e di considerare come grave offesa l’allontanamento delle sue guardie dalle fortezze e dai castelli di Vicenza.

 

Ciò nonostante, i Vicentini stabilirono di consegnare la città con le sue fortezze e con i suoi castelli al podestà e al Comune di Padova.

 

Della protesta di Marco Quirini non si tenne conto; una commissione di probiviri eletta dagli anziani propose, come indennizzo a Marco Quirini 1500 lire di denari veronesi oltre il salario stabilito, 500 lire da consegnarsi all’atto della partenza e 1000 per la festa della Candelora del 1267, 500 lire ad ognuno de’ suoi giudici; ai “milites” concesse il “frumentum et aliud bladum inimico rum quod eorum occasione pervenerit in Comuni Vicentie”.

 

Marco Quirini alla fine si dichiarò soddisfatto della riparazione; ai 14 ottobre ebbe le 500 lire, ai 26 dicembre dello stesso anno, prima del tempo, ebbe le altre 1000 e promise di non molestar Vicenza, né di avanzare altre pretese. E così l’affare fu aggiustato. Il Quirini partì, Enrichetto di Capodivacca fu il podestà messo da Padova, le fortezze furono occupate da soldati padovani e sempre fino al 1311 i podestà furono padovani e mandati da Padova.

 

In tutta questa faccenda chi vide molto addentro fu il Quirini che sosteneva: “Quod regimen videbatur sibi esse diminutum, detractum et quasi ad nihilum reductum propter condiciones que occurrunt ei presenti pro suis custodiis areptis de fortiliciis civitatis et propter claves portarum civitatis ei areptas”. Ragione giustissima chè si apriva in realtà la via alla signoria padovana.

 

L’intenzione dei Vicentini era di avere i Padovani solo a guardia armata della città, delle fortezze e dei principali castelli; quella di Padova si fermava per allora ad una pura e semplice custodia della città, per arrivare ad un completo dominio. Il che spiega come il patto di custodia nel Medio Evo “non toglieva di per sé stesso la indipendenza del Comune. Chè anzi le terre che ne volevano o ne ottenevano la guardia e custodia, si obbligavano che ciò fosse per mantenimento dello stato, che allora reggea la città contro chiunque offendere o mutare il volesse” (Lampertico, Scritti storici, p.379).

 

Vicenza si trovava costretta a ricorrere a simile espediente: le discordie interne, il pericolo esterno dei fuorusciti e dei Veronesi la gettarono in braccio a Padova; oserei dire che gli interessi economici non vi furono estranei del tutto.

 

All’anno 1265, potesstà Lorenzo Tiepolo, il Comune di Padova stabilisce che il podestà esiga dal Comune di Vicenza il danaro speso in servizio “ComunisVincentie per Comune Padue” e all’anno 1267, podestà Jacopo Rosso, stabilisce che il podestà faccia pervenire al Comune il detto danaro e il valore dello stesso, sotto pena di rimetterci 500 lire del suo salario.

 

Nel 1268 Padova nel Maggior Consiglio propone di occupare Bassano, Fontaniva ed altre terre del Vicentino, fintanto che il Comune di Vicenza non abbia soddisfatta la somma di 11.000 lire, spese da Padova in servizio e per la difesa di Vicenza. Quella somma non potè essere spesa che nel 1266 per i fatti già ricordati.

 

Il Comune di Padova accolse “optimo animo” la custodia di Vicenza anche per garantire a sé il pagamento delle spese. Un complesso di fattori adunque politici, finanziari forse, concorsero alla preparazione del dominio Padovano in Vicenza. Forse non è da escludersi anche l’opera di Padova stessa. Gabriele di Guido del Negro, podestà a Vicenza, “semper fuit inimicus civitatis Vincentie” (Smereglo); anzi il predetto Gabriele con AicardinoCaponegro dei Dalesmanini ed altri amici “operati fuerunt cum D.Rodulpho de Vivario et Alberto Zoto de Braganciis taliter quod ipsi salierunt super castrum de Bragantiis”; ragione per cui i Vicentini, impotenti a sedare la rivolta, ricorsero a Padova. Ci vuol certo non poca malignità per ammetter questo; ma i Padovani possono essere ricorsi a questo!

 

LA NATURA DEL DOMINIO PADOVANO A VICENZA

 

Di qual natura fu il dominio Padovano a Vicenza? La risposta ci vien data dagli statuti di Padova. D’ora innanzi il podestà di Vicenza, i suoi giudici e milites sono di Padova e cittadini padovani. Chi è stato assessore del podestà di Vicenza una volta, non può essere rieletto se non dopo trascorsi cinque anni.

 

Il podestà di Vicenza si elegge in questo modo. Quaranta elettore (dieci per quartiere) vengono rinchiusi nella chiesa del Palazzo con l’obbligo di proporre tre nomi di cittadini padovani, esclusi naturalmente gli elettori, a podestà di Vicenza. I suddetti tre nomi si scrivono in tre cartelli e si pongono nel Maggior Consiglio, dentro un cappello: una correzione del 1277 vuole che i tre nomi siano chiusi in tre palle di cera di egual peso; un fanciullo di 7 anni estrae, presenti i tre candidati, l’una palla dopo l’altra. Il primo estratto è di diritto il primo podestà di Vicenza, il secondo estratto vien dopo, il terzo ultimo. Rinunziando il primo, resta il secondo e dopo il terzo.

 

L’eletto dura in carica un anno, ha uno stipendio di 3000 lire e non può essere rieletto se non dopo 10 anni e fa una conveniente securtà (cauzione) al tesoro del Comune di Padova in pegno del suo buon governo.

 

Nel 1278 queste disposizioni furono in parte modificate: i tre nomi prescelti erano posti in tre urne nella sala del Maggior Consiglio; chi riceveva maggior voti dai consiglieri nella sua urna, quegli era l’eletto, e man mano gli altri. Nessun bandito dal Comune di Padova poteva essere eletto.

 

Nel 1276 lo statuto esige che l’eletto sia miles adobatus (cavaliere ornato).

 

Dovere del podestà eletto era di reggere col suo governo Vicenza e distretto, salvo sopra tutto l’onore, la volontà, l’utilità del podestà e del Comune di Padova, di eseguire tutti gli ordini che a lui fossero fatti dal podestà e dal Comune di Padova riguardo al suo regime, di mantenere “civitatem et districtum in custodia et protectione ac forcia Comunis Padue”; di rendere ragione ed amministrare la giustizia secondo le leggi, i diritti e i buoni costumi per la pace e tranquillità di Vicenza e distretto; di procedere contro i trasgressori della legge e, i delinquenti, per l’onore del Comune di Padova e per il suo buono stato, “salvo tamen plus et minus ad voluntatem potestatis et communis Padue”; di non permettere la compilazione di statuti di sorta in Vicenza “sine speciali mandato et voluntate potestatis et Comunis Padue et consiliorum Padue” e di cancellarne quelli contrari a questi ordinamenti; di non favorire un partito piuttosto che un altro; di procurare che i custodi delle fortezze e dei castelli della città rispondano ed obbediscano soltanto al Comune ed al podestà di Padova e che la elezione del podestà venga fatta sempre nel Maggior Consiglio secondo la forma ricordata; “et (ego potestas Vicentie) omnia et singula supradicta adtendam et observabo plus et minus ad voluntatem potestatis et Comunis Padue et consiliorum Padue bona fide et sine fraude non obstante aliquo statuto Civitatis Vincencie et istud idem sacramentum faciam in civitate Vincencie iurando meum regimen supradicto modo et nullum aliud iuramentum faciam contra istud”.

 

La cauzione “pro attendendo et observando omnia supradicta et quecumqueiungerentur” è di 1000 marche d’argento.

 

Il podestà di Vicenza, i membri del suo seguito non possono contrarre nozze con donne Vicentine, pena la perdita del salario e del doppio del salario e della eleggibilità ad altre cariche; non possono ricevere doni, emolumenti dal Comune o da privati. Il podestà deve fermarsi quindici giorni dopo deposto l’ufficio, per il sindacato; non fare guadagni illeciti nel suo regime e non permettere lucri disonesti ai suoi dipendenti, ai capitani e custodi della città; far osservare scrupolosamente a questi ultimi le disposizioni fissate, attenersi anzi agli ordini del podestà di Padova, pena gravi multe e l’obbligo della restituzione del mal guadagnato al Comune di Vicenza. Gli officiali pure devono fermarsi a Vicenza quindici giorni per il sindacato (cioè devono essere esaminati tutti i loro atti, n.d.c.); il sindacato è doppio, dinanzi al Comune di Padova, con l’obbligo di sottostare alle condanne inflitte, salvo a ricorrere ai mezzi legali di difesa, e dinanzi al Comune di Vicenza; le multe delle condanne inflitte da quest’ultimo sono esatte dal Comune di Padova.

 

Nel 1273 Padova cercò di rinsaldare e consolidare il suo dominio su Vicenza vietando che alcuno in pubblico o in privato nel Consiglio degli anziani, nel Maggior Consiglio, in qualunque luogo tentasse di togliere Vicenza o qualche località e castello del Vicentino “de forcia et manibusComunisPadue”; chi avanzava simili proposte, se cittadino padovano, era decapitato; i beni gli venivano incamerati (occupati) dal Comune, gli eredi erano banditi in perpetuo. Gravissime sanzioni erano pure riservate agli anziani, al podestà che permettessero solo una simile proposta; se era un estraneo veniva trascinato per terra a coda di cavallo; i beni erano confiscati, gli eredi banditi; se Vicentino, “decapitetur incontinenti et sui erede sicut forbanniti de Padua et Vicentia et eius bona in Comune Vincentie deveniant”.

 

Chi sale qualche monte, o castello o fortezza del Vicentino causa revelandi incorre nelle stesse pene; il podestà di Vicenza, se non cerca di vietare ed impedire simili attentati, o se non li denunzia al podestà di Padova, incorre nella stessa sanzione con l’obbligo preciso, al podestà di Padova di far osservare tutti i predetti statuti, pene e bandi contro di lui se non vi si attiene. Pene e bandi sono comminati contro chiunque tenti comunque di proporre, presentare e difendere gli imputati; una vera paura ed ossessione aveva preso i Padovani. Vedevano da per tutto dei nemici che tentavano rapir loro Vicenza, li vedevano a Vicenza, a Padova.

 

La custodia s’era mutata in vero e proprio dominio e non c’era corso di mezzo molto tempo. Padova non lasciò a Vicenza neppure una completa autonomia amministrativa interna; la enumerazione degli statuti lo dimostra chiaramente. Le precauzioni per le elezioni, la cauzione, le pene contro un possibile tentativo di usurpazione o perdita del possesso fanno vedere quale importanza annettesse Padova a Vicenza.

 

E’ il tempo del massimo splendore di Padova; la floridezza ed esuberanza di vita interna hanno biosgno di espandersi anche all’esterno e nel 1266 Padova si prende Vicenza e Lonigo, (che non rilasciò mai fino al 1311), nel 1268 riceve in dedizione Bassano; nel 1278 Trento riconose ed accetta il podestà da Padova. Rovigo col Polesine, Lendinara, Badìa le sono sottomesse: il marchese d’Este, il patriarca d’Aquileia, il Vescovo di Feltre sono suoi amici. Interessa particolarmente l’espansione verso l’ovest, contro Verona; Lonigo e Trento vorrebbero essere i due punti estremi, i due campi avanzati contro Verona. Vicenza sta in mezzo tra i due estremi e tra le due città contendenti ed aspiranti alla supremazia sulla Marca. Vicenza, sentinella avanzata coll’estremo lembo del suo territorio di Lonigo, e Montebello verso Verona, era un’ottima posizione di difesa ed offesa. Padova, presentendo di dove sarebbe venuto il nemico, non poteva dormire tranquilla i suoi sonni e riposare sulle glorie senza star sicura da occidente, senza Vicenza.

 

Si comprendono allora benissimo tutti gli ordinamenti per Vicenza, tutte le cautele per impedirne la perdita, la rivolta. Il podestà isolato e staccato nella città deve attendere gli ordini da Padova, nulla può mutare di sua inziativa. Gli interessi di Vicenza sono osservati e trattati in quanto rispondono agli interessi di Padova.

 

Ciò nonostante, imparziale e sereno deve essere il governo del podestà; tra le parti dilanianti la città si mantiene nel mezzo, equanime, imparziale. Dei rapporti giudiziari, parecchi sono reciproci. Il podestà di Vicenza non può procedere giudiziariamente contro un cittadino di Padova, incolpato di delitti: deve avvisarne il podestà di Padova e aspettarne il permesso per procedere contro di esso. Qualunque forma giudiziaria differente non è valida; anzi il podestà di Padova non la riconosce e la fa cancellare “et a converso per potestatem Padue fiat in civibus vel habitantibus Vicentinis”.

 

Naturalmente le rappresaglie sono tolte tra Vicenza e Padova e tra i loro cittadini; “ius reddatur et reddi debeat in ipsis civitatibus et qualibet earum vicis sim Comunibus et singularibus personis summarie non obstantibus feriis”. Inoltre per una parte presa dal podestà di Padova Ottolino de Mandello, i Vicentini devono nel loro territorio bandire coloro che sono banditi da Padova; tali banditi non possono essere ricevuti nel territorio Vicentino senza una speciale licenza del podestà di Padova.

 

Vicenza e gli altri possessi padovani nel Vicentino erano gelosamente custoditi dal Comune di Padova. Gli statuti finora scorsi regolavano i rapporti politici e giudiziari tra le due città, togliendo a Vicenza ogni autonomia e indipendenza. Ma oltre alle leggi, i soldati di Padova occupavano e tenevano difesa da possibili assalti Vicenza. Le milizie padovane chiamate e poste a custodia della città con lo scopo di difendere, di tutelare l’ordine pubblico, fungono ora l’ufficio particolare di occupazione armata; l’ordine di Vicenza deve essere mantenuto per il vantaggio e l’interesse di Padova. Gli ordinamenti precedenti al 1275, dice lo statuto nella introduzione, erano disordinati e confusi. In questo anno unaq commissione di quattro statutari assistiti dal loro notaio propose alla approvazione del Consiglio e del podestà di Padova, un codice di disposizioni e ordinamenti per i capitani e custodi di Vicenza e di altri luoghi del Vicentino, di Bassano; uno statuto precedente aveva determinato che fossero cittadini padovani per essere ammessi a tale carica.

 

Al castello di S.Pietro di Vicenza stanno due capitani, uno cavaliere ed uno a piedi; hanno ai loro ordini 46 custodi e due servi. Dei custodi, dieci sono balestrieri con le loro balestre e freccie ben provviste ed ordinate. Un capitano per turno sta continuamente sopra una delle torri del castello con quattro custodi e due balestrieri; sull’altra torre sorvegliano quattro soli custodi.

 

Porta Pusterla è occupata da un capitano ed otto custodi, di cui due balestrieri, la torre di Porta Nova è occupata da egual guarnigione; Porta S.Felice ha il suo capitano con venti custodi, compresi sei balestrieri; Porta di Berga dieci tra custodi e balestrieri. Alla corte della città sta un capitano con ventiquattro custodi. Nella casa di Bartolomeo de la Donna con la torre (casa fortificata in un punto centrale ed elevato della città poco lungi da Castel S.Pietro) abitano 50 fanti col loro capitano. Hanno il divieto assoluto di allontanarsi più di 15 per volta dalla loro custodia; al comando di questo capitano stanno pure 20 “milites,qui similiter deputati sunt ad custodiam Civitatis Vincentie”. Da Castel S.Pietro davanti al convento di S.Corona verso il Palazzo del Comune stanno ed abitano personalmente 25 milites (cavalieri) con armi, con sezzonte ognuno (scudiere); non possono allontanarsi o recedere da detta custodia senza il permesso di due parti del Maggior Consiglio di Padova. E lo statuto specifica partitamente le armi e l’ordinamento completo insomma d’un fante e di ogni milite. La sopradetta casa di Bartolomeo de la Donna ed altre case devono essere messe a disposizione ed allestite dal podestà di Vicenza per i 50 fanti e 25 militi deputati “ad custodiam civitatis Vincentie”.

 

Tutte queste minute disposizioni mostrano la cura che Padova disponeva per tenersi sempre unita Vicenza ed ancora la poca docilità da parte dei Vicentini alla sottomissione e all’obbedienza dei Padovani. Le cure di Padova, si manifestano inoltre nelle mutazioni dei custodi e capitani. I custodi, i balestrieri vengono mutati ogni mese; un capitano non resta alla custodia di alcun luogo più di tre mesi, né torna capitaqno prima del decorso di un anno. Entrano tutti in carica al primo di febbraio, e una volta eletti, non possono farsi sostituire; fanno una debita cauzione nelle mani del canipario del Comune di Padova, giurano di osservare tutti gli ordini del podestà di Padova e gli statuti loro imposti; non possono permettere i capitaqni ai loro dipendenti di allontanarsi dalla custodia del luogo senza il consenso del podestà. Le cauzioni variano secondo la importanza del luogo affidato.

 

Castel S.Pietro è messo in prima categoria, chè il suo capitano deve versare una cauzione di 1000 marche d’argento; gli altri capitani la fanno di 500 marche; i custodi, i balestrieri, i servi danno una cauzione di 200 marche d’argento. I capitani devono sorvegliare che nel loro territorio non si venda vino al minuto, che non si giochi d’azzardo, che non penetrino privati nelle fortezze.

 

Una commissione d’ispezione composta di tre militi o giudici del podestà di Padova, di sei buoni uomini legali e un notaio del sigillo compiva ogni mese un giro per vedere se i capitani stavano ai loro posti o se erano venuti meno ai loro doveri, stendeva di tutto una relazione al podestà, perché prendesse, secondo i casi, i necessari provvedimenti. Come si vede, una serie di ordinamenti complicata, una vera burocrazia militare amministrativa, e non ho che accennato sommariamente.

 

Vicenza e parte del territorio Vicentino, anzi che da Vicenza, dipendevano da Padova. Lo Smereglo ci informa che nel 1266 i Padovani, tolto Lonigo ai Veronesi, “nunquamvolueruntipsumreddere CommuniVicentiedonecipsihabueruntdominationemcivitatisVicentie” e gli statuti Padovani registrano Lonigo tra i “castra” sottoposti alla diretta custodia di Padova. A Lonigo v’è un podestà di sei mesi in sei mesi con 200 lire di stipendio e vi dimora continuamente.

 

Quivi stanno due capitani e 96 custodi, di cui 20 balestrieri con le loro armi ben guarnite. Per turno un capitano sta continuamente sopra la torre del castello con sei custodi e quattro balestrieri. E’ da notare come Padova abbia voluto tenere Lonigo sotto la sua diretta custodia e sorveglianza e lo abbia fornito di una guarnigione più numerosa e più armata in confronto degli altri luoghi fortificati. Lonigo è posizione disputata tra Veronesi e Padovani; qui nei dintorni avvennero i principali scontri tra i contendenti – Villanova, S.Stefano, Cologna - ; la posizione importante esigeva una sorveglianza maggiore e più diretta. Lonigo era nel distretto Vicentino e da Vicenza doveva direttamente dipendere come le altre ville del Vicentino. Invece Padova, una volta avutolo, calcolò l’importanza del luogo e se lo tenne. Questo ancora nel 1266. Chiamata a custodia di Vicenza, la fece tosto da padrona “dividendo et imperando”.

 

Come sopportò Vicenza questo dominio? E quale portata ebbe nella vita del tempo?

 

La fonte più esatta e la voce interprete del sentimento dei suoi concittadini è lo Smereglo. L’anno susseguente al 1266, Egano di Arzignano fu ucciso da Rosso suo nipote e dai Sarego per motivi di eredità; gli uccisori furono liberati dal bando de consensupaduanorum. I Padovani odiavano il conte Egano d’Arzignano per l’occupazione del castello omonimo e perché, come ambasciatore di Vicenza a Padova, aveva osato rimproverare ai Padovani la non osservanza dei patti con Vicenza e dire alto che lui solo con i suoi di Arzignano sarebbe un giorno riuscito a strappare Vicenza ai Padovani; non potendo vendicarsi di lui vivo, si vendicarono di lui morto e lasciarono impuniti i suoi uccisori.

 

Il conte di Arzignano fu dunque uno dei primi oppositori al dominio Padovano ed un altro nobile Vicentino. Vi partecipò anzitutto il partito anti-padovano, come ora lo chiamerò, che in fin dei conti è il partito ghibellino, amoreggiante con i ghibellini di Verona. Il partito d’opposizione raccoglieva tutti i colpiti dagli interessi del Comune di Padova, i nobili osteggianti un dominio che stringeva loro il morso e i ghibellini Veroneggianti.

 

Nel 1271, dopo la morte del vescovo Bartolomeo da Breganze, era sorta questione per la nomina del successore; la maggioranza dei canonici aveva eletto Bernardo Nicelli da Piacenza, mentre due canonici avevano eletto l’abate Gomberto di S.Felice, fratello dell’abate di S.Giustina. Il cronista non ci avverte di nulla; ma mi pare non si possa escludere l’intervento di Padova in questa faccenda: un vescovo “padovano” a Vicenza avrebbe maggiormente stretti i vincoli di dipendenza di Vicenza a Padova; ma la maggioranza dei Vicentini, non ostante le arti dell’abate Gomberto, parteggiò per Bernardo, facendo cos’ un’opposizione indiretta a Padova. La controversia fu portata al tribunale del Metropolita di Aquileia. Nel viaggio il rappresentante del Comune di Vicenza, Bugamante Loschi, venuto a parole con l’abate di S.Giustina parteggiante per il fratello Gomberto, fu ferito; il Loschi se la legò all’orecchio e nel ritorno uccise a Mason l’abate di S.Giustina. La multa di 15.000 lire di denari, ammenda inflitta al Loschi, fu pagata dal Comune di Vicenza.

 

Il podestà Sinesio de Bernardi da Padova nel suo regime infierì crudamente contro i Ghibellini; dodici ne furono presi, di cui alcuni restarono carcerati ed altri furono confinati. Questo signor Sinesio non s’era comportato tanto bene e prima di lasciare la città fu sottoposto al sindacato e condannato “quia ipse retinuerant in se datium vini conducti extra Vicentinum districtum et quia trabut averat”. Ne sorse questione con Padova e alla fine Padova tentò di salvarlo “non sine ipsius expensis et suo damno”.

 

I Vicentini avevano cercato di rifarsi legalmente con un mezzo giuridico, riconosciuto, del cattivo regime dei Padovani e del podestà. Uno dei sindacatori del Comune, Guglielmo Malafiamma, doveva essere poco tenero dei Padovani “et fuit suspectus penes paduanos”.

 

Nel 1279 si hanno i tentativi degli Schinelli.

 

Nel 1280 non s’era voluto ancora dalla “pars marchesana” riconoscere il vescovo Bernardo; la sua elezione era stata cassata e Antonio Guarnerini, fratello del podestà Bellebuono, eletto vescovo; “et tunc pars imperialis volebat sustinere dictum dominum Bernardum et pars marchesana obstabat”. Finalmente Bernardo ritornò al suo vescovado.

 

Ho già accennato alla interpretazione che presumibilmente si deve fare dell’imprigionamento di parecchi cittadini Vicentini sotto il podestà Giovanni Francesco da Padova.

 

Quale importanza abbia il tentativo del conte Beroaldo e le misure prese da Padova per mettere a cinfine i soggetti pericolosi al suo dominio, ho ricordato; qui occorre rilevare ancora una volta la instabilità ed irrequietezza dei Vicentini e la opposizione dei nobili e specie dei ghibellini. Quattro dei Vivaro furono confinati ed altri ancora.

 

Nel 1294 i ghibellini respirarono, perché il podestà “dedit audaciam gibellinis et depressit guelfos”; senonchè costoro ebbero la rivincita con il podestà seguente, Nicolò da Castelnuovo da Padova. Sono sempre i nobili e i nobili ghibellini gli eterni avversari del dominio di Padova e sono essi i congiurati che iniziano la liberazione di Vicenza: Jacopo Verlato, Bugamante e Pietro Proti, Marcabruno Vivaro, Guido Bissaro, Salomone da Marano e Sigonfredo de Ganzerra, loro capo.

 

Padova guelfa ebbe sempre di fronte a sé i ghibellini ed i nobili; i Vicentini tentarono di quando in quando di scuotere il giogo padovano.

 

L’intervento di Padova cominciato da una semplice custodia e trasformato e continuato in vero ed assoluto dominio, valse almeno a Vicenza un lungo periodo di relativa pace e di prosperità interne, sotto l’egida del grande Comune Padovano. I liberatori credettero di ridare a Vicenza l’indipendenza o meglio di ritenere per sé la suprema direzione della politica e si illusero: la loro opera procurò a Vicenza il dominio Scaligero. Ad un Comune potente seguì un Signore più potente e più audace.

 

POLITICA ESTERA – RELAZIONI COMMERCIALI

 

A poca distanza dalla morte di Ezzelino, nel 1262, ai 23 di aprile, le quattro principali città della Marca Trevigiana – Padova, Vicenza, Verona e Treviso – mosse da un comune odio verso la passata signoria e da comuni interessi da tutelare, riunite in Padova e rappresentate Vicenza Verona e Treviso dai rispettivi nunzi, sindaci e procuratori, posero e accettarono reciprocamente un patto per mantenere la pace della Marca.

 

 

Carlassario Panencorpo per il Comune e per gli uomini di Vicenza, Libanorio de Marsilio per quelli di Treviso, Bartolomeo de Sbarro per Verona e il podestà di Padova Giovanni Badoer con gli anziani e gastaldi del Comune giurarono:

 

Di avere e mantenere perpetua pace alleanza concordia fra loro ad onore di Dio, della Chiesa Romana e delle quattro città contraenti;

Il trattato era rinnovabile di tre in tre anni. Il secondo ed il settimo articolo ricordano particolarmente la passata signoria degli Ezzelini, alla distruzione e annientamento dell’opera dei quali tutte e quattro le città sono d’accordo; il terzo ed il quinto mirano a premunirsi da simili futuri pericoli; il sesto regola i rapporti giudiziari internazionali e tutela il commercio e le comunicazioni tra le quattro città, proteggendo le strade e i viaggiatori.

 

  

Di reggersi in pace e tranquillità senza il dominio di alcuno, salvo per Vicenza il regime e l’autorità del vescovo Bartolomeo;

Di aiutarsi vicendevolmente “ere, personis, igne, ferro et sanguine” nel caso di attentato alla loro libertà da parte di privati e di altre città;

Di rendersi liberi e annullare qualsiasi giuramento, impegno stretto con privati o con città, contrario ai patti fissati in questo, eccettuato il giuramento dei Vicentini al loro vescovo Bartolomeo, “dummododictumsacramentum non preiudicethuicsocietati et fraternitati”.

Di ricercare e punire, se presi, o bandire, gli autori di danni o ruberie perpetrati di giorno sulle strade interprovinciali Verona (per Montebello) Vicenza, Vicenza (Barban) Padova, Padova (per Noale) Treviso, Padova-Venezia e Treviso-Venezia, con l’obbligo al Comune, nel cui distretto si verificò il fatto, di riscuotere il danno;

Di non rendere o cedere nulla dei beni dei da Romano a privati, per diritto di eredità;

Di far giurare questo patto da tutti i cittadini dai 15 ai 70, esclusi i chierici e i conversi, nel “juramentumsequendi”;

Di farlo leggere annualmente nell’arengo o nel Maggior Consiglio delle città.

 

Questo entra generalmente nella politica comune della Marca; ma ci sono pure rapporti particolari di Vicenza con le altre città, specialmente con Bassano, con Venezia e con Verona. Putroppo i documenti sono molto scarsi; non sarà vano però tentare di raccogliere qua e là per ricostruire anche questa parte della storia vicentina.

 

Subito dopo la caduta di Ezzelino, Padova si affrettava a Bassano e lo riceveva sotto la sua protezione il 9 ottobre 1259 alla presenza di Gregorio, Patriarca di Aquileia e di Guido da Montefoiano, podestà di Padova e vi poneva quale podestà Tommaso de Arena. Questa occupazione non garbò per nulla a Vicenza, che brigò tanto da farsi restituire Bassano da Padova con i patti: il Canal di Brenta libero ai Padovani per terra e per acqua da ogni dazio, toloneo; i cittadini di Padova sono rimessi in possesso dei loro beni e terre, salvo il Comune di Vicenza non abbia delle giurisdizioni speciali; i matrimoni tra Padovani e Vicentini sono liberi da ogni restrizione precedente. Questa contesa parve per il momento assopire le discordie e le pretese delle due città su Bassano; l’intervento del vescovo Bartolomeo almeno ne dava garanzia; invece sorsero tosto delle controversie sulla natura dei diritti dei Bassanesi e delle pretese avanzate da Vicenza. Tanto Bassano che Vicenza rimisero la decisione in Marco Quirini, eletto arbitro dai due contendenti, podestà di Padova.

 

Il 9 settembre 1260 Marco Quirini arbitro, in Padova, alla presenza dei sindaci e procuratori delle due città, sentenziò a Vicenza spettare per diritto il possesso di Bassano col castello e coi dintorni e con le prerogative criminali inerenti; potere però i Bassanesi scegliere il podestà che deve essere di Vicenza e riconosciuto dal podestà di Vicenza, purchè idoneo e adatto; in caso di rifiuto i Bassanesi possono eleggersi i consoli, i merighi gli altri officiali da sé e tra i Bassanesi. Bassano conserva i suoi pesi, le sue misure e i bandi, ma il podestà e i consoli di Bassano devono amministrare la giustizia secondo le leggi, i diritti e gli statuti della città di Vicenza; un Vicentino in lite con un Bassanese può esigere giustizia dal podestà di Bassano o da quello di Vicenza; ma ciò solo ove si tratti di una somma inferiore alle 25 lire. Il Comune di Bassano è soggetto a Vicenza negli eserciti, nelle cavalcate pubbliche e nei dazi. Ogni rancore e questione precedente sono dimenticati.

 

Il diritto del dazio fu ceduto poi da Vicenza ai Bassanesi dietro una tassa mensile di 33 lire, 6 soldi e 8 denari di moneta veronese al Comune di Vicenza; qualora i dazi non fossero esatti a Vicenza, Bassano non era tenuto a versare la detta somma. Ma presto si venne a questioni d’altro genere.

 

Vicenza aveva allargato il suo dominio su Lonigo, Marostica e Bassano; su quest’ultima avanzava maggiori pretese per tenersi soggetto il centro più grande del suo distretto e voleva che il Comune di Bassano costruisse una casa a Vicenza: il Comune di Bassano e i principali cittadini di Bassano per il lustro di Bassano, diceva Vicenza; di fatto per far sentire la sua supremazia (novembre 1262). Il vescovo Bartolomeo, per comporre la pace, invitò i Bassanesi a costruire la casa “non racione praecepti Potestatis (Vicentie), sed ut satisfactis voluntati mei episcopi” e ne fece stendere un atto notarile – “ipso potestate (Vicentie) pacifice audiente et in nullo contradicente”. E così per poco la questione fu posta in tacere.

 

Nel 1263 Vicenza avanzò nuove pretese per la rassegna dei cavalli. Il procuratore di Bassano protestò dinanzi al podestà di Vicenza dichiarando che Bassano era obbligata a Vicenza soltanto negli eserciti, nelle cavalcate pubbliche e nei dazi; non era tenuta a far la rassegna dei cavalli dinanzi al podestà di Vicenza e non si presentava perché lo credeva un ordine illegale, come non contenuto nel lordo arbitrale di Marco Quirini; se detto diritto fosse riconosciuto, Bassano si presenterebbe alla rassegna dei cavalli.

 

Per due anni le relazioni procedono calme: i Vicentini nel 1264 risarciscono i danni patiti da Andrioto di Bassano per mantenere le giurisdizioni di Vicenza.

 

Nel 1264 ritorna la controversia per la costruzione della casa e questa volta vi interviene Padova, come del resto nelle questioni precedenti e nella sentenza di Marco Quirini. I Bassanesi ricorrono alla mediazione di Padova; la commissione dei sapientes, delegati a studiare e decidere la questione, sentenziò non potere de jure i Vicentini costringere i Bassanesi a costruire una casa in Vicenza. Ciò non ostante, non finisce e nel 1265 la controversia continua; i Bassanesi appellano a Padova, protestano a Vicenza.

 

 

Padova se ne interessa e con calore scrive ai Vicentini di soprassedere, di non molestare i Bassanesi: elegge una commissione di tre sapientes per riesaminare la causa. Il 12 febbraio il Consiglio di Padova delibera di mandare ambasciatori a Vicenza per invitare i Vicentini ad attenersi alla setenza Quirini, di sospendere per allora ogni deliberazione: ciò esigere la pace ed il bene della Marca Trevigiana; permetta Vicenza che il Comune di Padova esamini la questione “alioqu in Commune Paduae non posset deficere illis qui observarent sententiam contra illos qui dictam sententiam non observarent”. Le parole sono abbastanza chiare, ed il loro significato non dubbio, come non dubbia è la intromettenza dei Padovani, cioè dei più forti. E intanto si tira innanzi; si propone un colloquio dei contendenti col podestà di Padova, si eleggono tre saggi e giurisperiti, perché dettino una sentenza arbitrale definitiva per mettere termine alla controversia fra il Comune di Bassano e di Vicenza, controversia non spita dalla sentenza di Marco Quirini. A un certo punto pare che la questione finisca; almeno i documenti a noi noti non ce ne parlano più.

 

Nel 1266 le relazioni tra le due città dovevano essere buone, chè Bassano anticipò a Vicenza, bisognosa di danaro (siamo nel 1266) la tassa mensile del dazio di dieci mesi pagando 333 lire, 6 soldi e otto danari.

 

Col 1266 in cui abbiamo a Vicenza i podestà padovani, le questioni dovrebbero non aver luogo; invece a dimostrare il disinteresse con cui Padova patrocinava i diritti di Bassano contro Vicenza, il podestà di Vicenza esige la rassegna dei cavalli. I Bassanesi hanno un bel protestare e un bel dichiarare di non esservi obbligati. E la questione si dibatte tutto il 1267.

 

Nel 1268 Padova, col pretesto di non essere stata pagata del denaro speso per Vicenza, prende possesso di Bassano, Fontaniva e pertinenze sue, promettendo ai Bassanesi “servare Comune et homines de Bassano indempnes ab omnis dampno et periculo quod eis occureret occasione dicete tenute et quod defendatur per Comune Padue adversus quos libete is iniuriam facientes”.

 

Il 22 giugno 1268 il Comune di Padova manda un suo sindaco e procuratore a Bassano invitando i Bassanesi a andare ad racionem a Padova e dichiarando loro che d’ora in avanti riceveranno il podestà da Padova e obbediranno a Padova “in omnibus et per omnia secundumquodfaciebant Comuni Vicentie”. Gli affidamenti e le promesse ai Bassanesi si ripetono ed il dominio di Padova in questa città comincia solennemente e direttamente con questo anno. Il tributo mensile per il diritto di dazio, che prima Bassano soleva pagare a Vicenza passa al Comune di Padova. D’ora in avanti le relazioni tra Bassano e Vicenza sono regolate da Padova indirettamente.

 

Nel 1271 è concesso ai Bassanesi di andare e venire liberamente a Vicenza e nel territorio Vicentino con uomini, cavalli e mercanzie e d’esercitarvi il traffico.

 

Nel 1272 Padova conferma solennemente il suo dominio su Bassano e dichiara che la villa di Bassano, il suo castello e il suo distretto e le terre prossime al Brenta, che dipendevano dai da Romano, passano sotto il dominio di Padova e devono essere considerate alla stregua delle altre terre padovane. Bassano pertanto adotterà gli statuti Padovani, pagherà a Padova un contributo di 400 lire, potrà imporre tasse, dazi, balzelli sul proprio territorio; dovrà mandare dei soldati a cavallo quando siano richiesti, dovrà insomma riconoscere verso Padova gli stessi obblighi che già aveva verso Vicenza.

 

Bassano sarà retta da un podestà padovano, il quale condurrà seco e manterrà un giudice ed un notaio.

 

Bassano dovrà corrispondere al podestà un salario di lire 1000 annue. Le liti penali e civili dovranno essere risolte presso il podestà di Padova, salvo le controversie inferiori alle 25 lire. Il podestà di Bassano dovrà depositare presso il canipario del Comune di Padova 3.000 lire in garanzia. Qualunque modificazione agli statuti od infrazione verrà punita con una multa di lire 2.000, 1.000, 500 a seconda dell’ufficiale cui si dovrà addebitare l’infrazione.

 

Le condizioni di dipendenza del dominio padovano meglio sono stabilite negli statuti di Padova. Non seguirò tutte le fasi del dominio padovano a Bassano per dimostrare fino a qual punto Padova si attenesse ai patti promessi: importa ripetere che Padova regolava i rapporti tra Bassano e Vicenza.

 

Nel 1281 Padova impose ai Vicentini di pagare il pedaggio sul ponte di Bassano; stabilisce che potevano portare 22 plaustri di sale di cui avevano pagato il dazio, dichiara che i Bassanesi potevano condurre bestiame in Vicenza, liberi dal dazio.

 

Ad istanza di Bassano, i Vicentini aboliscono il dazio sul vino fra Angarano e Bassano e il dazio sui frutti esportati dal territorio Vicentino e importati a Padova.

 

I Padovani possono liberamente comperare possessioni, vendere le loro merci in Vicenza e suo distretto; i Vicentini hanno egualmente la più ampia libertà di fare lo stesso nella città e nel territorio di Padovaq. Il transito per il territorio Vicentino e Padovano ai forestieri recantisi a Treviso o a Venezia è proibito, se non siano muniti di speciale licenza del podestà.

 

Una parte presa dal Consiglio dei quattrocento di Vicenza – podestà Giovanni Francesco da Padova – proibisce severamente di esportare fuori del territorio Vicentino al di là del Brenta, vettovaglie di qualsiasi genere (biade, legumi, fieno, paglia); impone ai comuni lungo il Brenta di sorvegliare che alcuno abusivamente non esporti derrate, sanzionando la disposizione con cinquanta lire di multa ai trasgressori colti in flagrante.

 

Lo statuto del 1264 ingiunge al podestà di stringere alleanza e società con Padova; aggiunta al “Sacramentum sequendi” sta una clausola per cui chi l’aveva giurato era obbligato pure osservare la concordia ed alleanza stretta con Padova. L’alleanza risale al 1229, ma il fatto che si trovino questi accenni nel 1264 e che si trovi riportata in un’appendice al 1264 prova che questa si rinnovò e che ad ogni modo le relazioni erano molto amichevoli.

 

Le due città s’erano strette con un patto reciproco offensivo e difensivo, di protezione e difesa delle persone dei podestà, dei comuni, comitati e distretti di Padova e Vicenza; di mantenersi ognuna nei propri diritti, con la restituzione vicendevole dei beni e delle ville usurpate, di aiutarsi l’una l’altra negli eserciti e nelle cavalcate, cioè nelle spedizioni militari. I nemici dell’una sono anche nemici dell’altra, i banditi da Padova lo sono anche da Vicenza; si danno aiuto nella repressione dei nemici e dei ribelli; gli espulsi da Padova saranno espulsi anche da Vicenza e viceversa; tali patti sono giurati e messi negli “iuramenta sequendi” delle due città.

 

Anche le relazioni commerciali sono regolate con speciali riguardi a Padova. Floriano da Barbarano, quando non riesce a smaltire tutta la sua produzione nel distretto di Vicenza, può vendere mattoni, tegole, calce a quei di Padova. Ho accennato alla grande strada Padova-Vicenza; libera alle navi è la via fluviale del Bacchiglione Vicenza-Padova; i molini sul Bacchiglione che impediscono il libero corso, sono abbattuti.

 

Infine allo statuto del 1264 abbiamo una rubrica “qualiter fieri debeat inter Vicentinos et Veronenses”, che regola le controversie giudiziarie e criminali che potevano sorgere tra Vicentini e Veronesi.

 

Altre relazioni tra le due città, oltre quelle ricordate – parlando delle aspirazioni, delle contese tra Padova e Verona per la supremazia di Vicenza – i nostri documenti non ricordano.

 

Più ampie e più importanti sono le relazioni con Venezia, relazioni di commercio naturalmente.

 

Nel 1260 tra Venezia e Vicenza si conchiudono dei patti in questi termini: i Veneziani sono salvi e sicuri con le loro persone e le loro robe nel distretto Vicentino ed in Vicenza, liberi di andare e venire senza pagare dazio, toloneo od altra gabella estorta magari da privati; i mercanti di Venezia sono egualmente liberi di fare i loro affari, esenti da dazio, e da toloneo; le loro persone sono garantite e protette da Vicenza, eccettuati naturalmente i banditi a cui Vicenza non concede tregua e libertà.

 

I Veneziani possono liberamente comperare, acquistare legname in Vicenza e distretto senza pagare dazio ed esportarlo a loro piacimento. Dall’altra parte anche i Vicentini sono sicuri e liberi di andare a Venezia senza essere molestati dai doganieri per il dazio, per il quarantesimo, per il pedaggio – “exceptis rebus de ultra monte que per ipsos de Vicentia, seu per alias Venecias portarentur, de quibus solvi debeat, dacium quarantesimi per comune Veneciarum constitutum – excepto sale, de quo accipi debeat dacium, quod per Comune Veneciarum fuerit constitutum, exceptis rebus que trahi de Veneciis per gratiam conceduntur”.

 

E’ un patto di reciproco scambio, ma col vantaggio per Venezia di riservarsi il dazio per le mercanzie provenienti dall’estero, allo scopo di proteggere l’importazione veneziana, fatta per mare, e col vantaggio di mantenere il dazio del sale per conservare il monopolio importantissimo della produzione del sale per la Marca e per la Lombardia. Il monopolio del sale provoca spessi contrasti con Padova e con Verona e costituisce uno dei più gelosi monopoli della Repubblica Veneta.

 

I mercanti provenienti da Venezia sono pertanto liberi da dazio; per gli impegni ed i privilegi del vescovo di Vicenza; il podestà “teneatur facere solvi illam mudam qua milla persona deberet solvere pro Comuni Vincentie illi qui debet habere illam mudam”.

 

Nel 1284 gli ufficiali del doge di Venezia, costituiti “super contra bannis” avevano sequestrato alcune mercanzie condotte al mercato (fiera) di Chioggia, attraverso il distretto di Padova e provenienti da Vicenza. Il Maggior Consiglio delibera di far restituire le robe sequestrate e, in base al patto del 1260, conferma le concessioni fatte ai Vicentini, “quod dictio officiales non teneantur auferre, seu auferri facere res que per districtum Paduanum venirent Clugiam de Vincentia et districtu et aliunde, exceptis de Padua et de Paduano, de Tarvisio et Tarvisino tempore dictarum nun dinarum fidantie date”.

 

Nel 1290 Venezia tratta con Vicenza e Padova perché i debitori scappati da Venezia, siano consegnati a Venezia.

 

Nel 1310 Venezia concede, ad istanza di Vicenza, la liberazione del Vicentino Alamari; e nello stesso anno prega il podestà Nicolò de Lozzo a provvedere che Giovanni Tiepolo ed altri ribelli banditi non abbiano ad arrestare i corrieri che passano pel Vicentino, togliendo ed aprendo le lettere.

 

Nel 1302 la serva di Elisabetta, moglie di Leonardo Giustinian, rea di furto, s’era rifugiata a Vicenza e il podestà non l’aveva voluta consegnare, non ostante le requisitorie del doge e del podestà di Padova. Il che mostra come le trattative non fossero giustamente approdate.

 

Nella pace conchiusa tra Venezia, Padova e Verona nel 1304, troviamo anche Vicenza. Bonmesio de’ Paganotti, giudice procuratore di Padova, ratifica la pace anche per Vicenza alla presenza del doge e dei suoi consiglieri.

 

Il commercio del sale era regolato da uno speciale contratto del 1308; gli appaltatori per il Comune di Vicenza dichiarano di voler rompere il contratto col Comune, perché Venezia non ne forniva in quantità sufficiente. Il doge risponde essere vero che Venezia diminuì la quantità del sale da lei fornito a varie città di Lombardia e avere i salinieri di Chioggia ordine di darne largamente a Padova e Vicenza, ma in seguito ad abusi di Padova, che ne cedette ai Veronesi, era disposto che fosse dato solo il necessario.

 

Del resto, all’infuori dei patti speciali regolanti le relazioni commerciali con Venezia, le condizioni con Padova, i rapporti con le altre città erano ben rigidi.

 

La esportazione del legname fuori del distretto è proibita. Così pure la esportazione fuori del distretto vicentino del vino, delle biade, dei legumi, delle carni, del pane, del pesce, delle uova, dell’olio, del formaggio, della frutta è severamente vietata, e le sanzioni a questo divieto sono molto forti; tanto per i Vicentini, che per gli estranei è comminata la perdita della mercanzia, del cavallo e del mezzo di trasporto, con multe relative.

 

Il commercio interno è naturalmente permesso; in occasione dei mercati annuali è permesso ai forestieri con le loro bestie venire nel Vicentino. Ognuno può portaqrsi il necessario per il viaggio, i mercanti possono esportare le loro mercanzie, eccetto le cose vittuarie, le bestie, le armi, il carbone ed i letti, purchè le città confinanti concedano il permesso anche ai loro commercianti.

 

La espropriazione e la vendita di possessioni nel Vicentino ad estranei è severamente vietata. La vendita dei cavalli e delle altre bestie a forestieri richiede il permesso del podestà; il venditore di un destriero è obbligato, nel termine di un mese, a sostituire il venduto con un altro. Il mercato delle bestie si fa in un luogo apposito vicino a Porta S.Felice (Castello) su terreno del Comune; la vendita del vino è poi regolata da speciali disposizioni.

 

I forestieri godono nello statuto del 1264 di vari privilegi: quelli che vogliono divenire cittadini di Vicenza, si presentano al podestà e declinano i loro nomi; sono esenti per 25 anni dagli oneri e dalle fazioni col Comune; sono però obbligati al Comune negli eserciti e nelle cavalcate generali e nei tolonei imposti. Gli estranei dal 1259 fissati a Vicenza godono degli stessi privilegi e delle stesse modalità. Gli uomini di Vicenza abitanti fuori del distretto Vicentino possono venire a Vicenza, iscriversi presso il podestà ed essere esenti dalle gravezze per 10 anni venturi, ma sono tenuti agli eserciti, alle cavalcate generali e ai tolonei del Comune; durante questo periodo di immunità non possono rivestire alcun officio a meno che non vogliano sobbarcarsi agli oneri e contributi degli altri cittadini.

 

Chi possiede nel Vicentino, anche se forestiere, è obbligato a sostenere gli oneri pubblici col Comune. Conforme agli intenti protezionisti e comunali del tempo è lo statuto che vieta alle fanciulle di sposare non vicentini, ma restringe le nozze semplicemente e solamente con cittadini vicentini o di Vicenza; le donne che vengono meno a questo statuto perdono tutti i loro beni, che passano al fisco comunale, le loro masnade restano libere o hanno per dote 500 lire. Lo statuto tende a impedire l’uscita delle proprietà e dei beni del Comune e l’imparentamento con persone estranee, che potessero un giorno recar dei problemi al Comune.

 

Le vie commerciali e di comunicazione erano le strade Vicenza-Verona, le strade trentine, per la Val Leogra, la valle del Posina e dell’Astico, la strada Vicenza-Bassano, la Vicenza-Padova e buona via di comunicazione il Bacchiglione navigabile.

 

Lo statuto del 1311 ha una larga e dettagliata disposizione sul corso del Bacchiglione. Questo riceve le acque del Retrone e del Tesina e si dirama parte verso Padova e parte lungo i Colli Berici sino ad Este. Durante il dominio padovano, le acque furono fatte scorrere tutte a Padova, ma, liberati, i Vicentini si affrettarono tosto a farle scorrere per l’altra via di efflusso a scopo di privare dell’acqua Padova.

 

Il Bacchiglione deve scorrere per il ghebbo vecchio fino ad Este attraverso Custozza, Castegnero, Mossano, Barbarano, Albettone, Panevino, Foiascleda, Agugliaro per evidente utilità di Mossano, Barbarano, Sossano, Orgiano, Campiglia e di tutti i paesi della vallata di Grancona: le botti di Varaone, Foiascleda, Saianega, distrutte e chiuse fino allora dai Padovani, si riaprano, si restaurino e si riallarghino così che l’acqua vi possa comodamente passare; la rosta di Longare si alzi debitamente; la strada Vicenza-Noventa si riatti e si alzi, si ripari bene così che non venga guastata dal fiume e che vi si possa liberamente andare “cum equis et plaustris”.

 

Connessa alla politica estera e alla politica generale del tempo è la questione delle rappresaglie. Quando alcuna città, aveva usurpato delle possessioni, delle terre, dei beni mobili o immobili di un Vicentino, il podestà scriveva, dietro notizia o richiesta del danneggiato, due lettere al signore o podestà del luogo per ottenere ai cittadini Vicentini la restituzione dei loro beni. In caso di rifiuto il podestà concedeva la rappresaglia sui luoghi e sui beni o sulle persone degli uomini che avevano danneggiato i Vicentini. Questo a Vicenza e viceversa dal canto loro facevano gli altri comuni.

 

Nel 1284 il Comune di Vicenza si trovava colpito dalle rappresaglie del Comune di Bologna, per aver gli uomini di Vicenza commesso omicidi, detenzioni, malefizi a danno di Jacopino e di EnrighettoTebaldi di Bologna. La questione fu risolta dal procuratore del Comune, Gerardo Ubertelli, risarcendo gli eredi, Tebaldo, Federico e Giuliano Tebaldi dei danni sofferti. I Tebaldi ricevettero un compenso di 450 lire di Bolognesi per 16 anni e fecero levare dal libro dei bandi del Comune di Bologna gli uomini di Vicenza.

 

LA POLITICA ECCLESIASTICA DEL COMUNE

 

Interessante per la storia dei nostri Comuni sono le relazioni con l’autorità religiosa in genere e col vescovo in particolar modo. A Vicenza questa storia assume una speciale importanza per i privilegi concessi dagli Imperatori alla autorità ecclesiastica, per l’importanza storica della personalità del Beato Bartolomeo da Breganze, e per la lite che ne seguì tra il Comune ed il vescovo dal 1289 al 1304.

 

Papato ed Impero, dopo la morte di Innocenzo III e di Federico II tendevano inevitabilmente alla rovina. La lotta contro Ezzelino era stata benedetta dalla chiesa ed era divenuta crociata; ma il Comune, rifatto libero, non riconobbe la sua libertà che da sé stesso. Ricorda, Vicenza il giorno della sua liberazione come il giorno in cui “venit ad mandata Ecclesiae” ma nulla più: il sentimento religioso era ancora profondamente radicato nell’anima del popolo dei nostri Comuni; un sentimento religioso che si esplicava naturale e spontaneo nelle feste, nelle cerimonie solenni, nelle elargizioni alle chiese e ai conventi, ma che non lasciava cedere un passo nelle controversie politico-religiose, in cui i Comuni corressero pericolo di perdere parte della loro supremazia politica ed amministrativa.

 

Esporrò la posizione del Comune di fronte all’autorità religiosa in generale, e poi più specialmente all’autorità vescovile. Con la solita invocazione religiosa “Ad onore di Gesù Cristo, della Vergine Maria, dei beati Felice e Fortunato e del Beato Michele Arcangelo” – nella cui festa, il 29 settembre 1259, Vicenza s’era liberata dal dominio di Ezzelino – incomincia lo statuto.

 

 

Ad onorare maggiormente il Santo liberatore il Comune da 500 lire di denari Veronesi ai frati Eremitani per la costruzione della chiesa di San Michele. Ad onore della Beata Vergine, del Beato Michele Arcangelo, di San Cristoforo, del Beato apostolo Pietro e dei Beati Felice e Fortunato si fanno le pitture sulle cinque porte principali della città. Nell’annua festa di S.Michele si celebra la ricorrenza della liberazione con tornei e giochi pubblici. E lo si capisce: il 29 settembre era stato il giorno della liberazione e l’onore reso al Santo era segno di ringraziamento e di gioia. Inoltre i beati Felice e Fortunato erano due santi Vicentini e quindi due glorie indigene; nel giuramento del podestà si invocano le reliquie della S.Spina e della Croce, donate dal vescovo Bartolomeo alla chiesa erigenda di S.Corona.

 

Gli eretici sono banditi dalla città, spogliati e puniti secondo le costituzioni Imperiali e le decretali dei Papi Innocenzo IV ed Alessandro IV; perseguitati in città e nel distretto; comminate gravi pene a chi li ricetti.

 

Più specificate sono le misure contro gli eretici, più avanti negli statuti. Ognuno può prenderli; i loro beni sono incamerati dal Comune. Bandi e pene speciali sono comminate a chi dà loro ospizio od aiuto: “Duo catholici homines per portam electi ad voluntatem Episcopi et catholice potestatis”, sorveglino gli eretici, facciano sì che vengano presi. Ognuno poi per conto suo è obbligato ad aiutare e coadiuvare gli officiali del Comune e gli altri nella estirpazione degli eretici. Una volta presi, sono esaminati; il podestà ha diritto di assistere al giudizio e di punire l’eretico riconosciuto e convinto, secondo le costituzioni imperiali.

 

Il riposo festivo nelle domeniche, nelle feste degli Apostoli, dei Santi Marcello, Faustino, Silvestro, Lorenzo o dei santi titolari delle altre cappelle della città, è rigorosamente osservato e fatto osservare dal Comune. In detti giorni non si rende giustizia; le piazze ed i mercati restano chiusi (meno che nelle fiere annuali), i lavori sospesi. Una bestemmia contro Dio, la sua Madre, pronunciata nel gioco, costa a chi la dice 20 soldi di multa, oppure una triplice sommersione in acqua dentro un corbello. La multa per i bestemmiatori sale a 60 soldi nel 1275.

 

Alla edificazione di S.Corona il Comune concorre con 500 lire; e 20 lire il Comune dà ai frati Domenicani “intuitupietatis”. Ogni fraglia interviene con il gonfalone ai vesperi ed alla messa nelle feste di S.Corona. E il podestà col seguito e gli anziani partecipano alla festa con offerte e doni, e i podestà e i decani delle ville del distretto non mancano alla detta solennità; è una festa religiosa e insieme una festa di popolo; tutti vi possono intervenire; è levato il bando per molte categorie di debiti: al trionfo della fede va accompagnato il trionfo del popolo. Il terreno per la costruzione del battisterio della chiesa cattedrale è dato dal Comune. Per il Duomo e per i restauri della Cattedrale il Comune dà 10 lire.

 

Nello statuto del 1311 si hanno disposizioni diverse per le chiese e per le feste religiose.

 

Nelle feste di S.Lorenzo martire e di S.Michele Arcangelo tutte le fraglie partecipano con offerte; il Comune dà ogni anno ai frati 16 lire per un pallio e 20 lire per le spese; ogni anno nella festa di tutti i Santi il Comune regala 40 lire al priore dei Domenicani di S.Corona pro capis et vestimentis da  distribuire ai poveri o da dare ai conversi; la stessa offerta si fa ai conventi di San Michele di Berga, di S.Lorenzo di Porta Nova per ottenere i celesti favori su Vicenza.

 

E nel giorno dopo Pasqua, dì della festa dei Beati Felice e Fortunato, il Rettore con gli anziani, i gastaldi delle fraglie e i fratelli delle fraglie si recano alla messa nella chiesa dei SS.Felice e Fortunato e portano in dono un pallio purpureo. Né i Vicentini mancano di onorare la festa degli altri santi vicentini loro patroni, SS. Leonzio e Carpoforo e S.Eufemia.

 

Il Comune pertanto è sinceramente e profondamente cattolico nelle credenze, anzi Vicenza è Comune guelfo e per quarantaquattro anni sottomesso al Comune guelfo di Padova. Senonchè Padova guelfa ebbe la notissima questione con i “clerici” Padovani e col vescovo per la imposizione della tassa sui ponti. Chè il Comune più guelfo, diventa del più acceso colore ghibellino ove si attacchino i suoi interessi e le sue giurisdizioni. La giustizia è trattata solamente dal podestà; unica eccezione è fatta per le cause matrimoniali, che sono discusse dinanzi al tribunale ecclesiastico nella città di Vicenza o fuori col consenso delle parti. Gli ecclesiastici sono costretti a comparire dinanzi al giudice secolare, quando sono accusati di debiti; subiscono le stesse pene che i laici, del bando e della confisca dei beni.

 

Pare che gli ecclesiastici usassero del privilegio del foro ecclesiastico – chè una delle consuetudini dello statuto del 1264 ci informa che i clerici nelle cause dei malòefizii, della possessione violenta di beni o di diritti, della decima, dei contratti, ove non abbiano rinunziato al loro privilegio (del foro?), devono essere giudicati dinanzi al giudice secolare; negli altri contratti la questione deve essere definita dal vescovo in trenta giorni; se no, trascorso questo termine, la questione viene portata direttamente dinanzi al podestà ed un giudice secolare senza riguardo di sorta. I clerici pure sono citati a comparire quali testimoni dinanzi al tribunale del podestà, ed incorrono nel bando in caso di rifiuto.

 

I contratti stretti da un amministratore di una chiesa col consenso del vescovo o del capitolo della chiesa sono riconosciuti e questo vale per i contratti conchiusi prima del 1259; chè dal 1259 in avanti chi stringe mutui con chiese perde il contratto. Il contratto stretto col vescovo è riconosciuto valido e legale anche senza l’assenso dei clerici e del capitolo. La questione dei mutui alle chiese era stata precedentemente regolata. Dal 1259 in avanti nessun privato poteva fare mutuo ad alcuna chiesa senza il permesso del podestà, sotto pena di 10 lire e con la perdita del contratto stesso. Ad ogni modo i diritti, le terre e le persone degli ecclesiastici erano protette dalle leggi e nessuno poteva occuparle.

 

Nessuna chiesa può togliere ad alcuno delle terre per mezzo degli ingrossatori, né essa può dagli stessi esserne privata. La chiesa dei SS. Tomaso ed Eusebio riceve la conferma dei suoi privilegi, cioè dei possessi, diritti delle acque e del rivo e dell’acquedotto, e del diritto di pesca, secondo i patti concessi già dal Comune a detta chiesa; il priore della stessa chiesa può chiedere l’espropriazione dei possessi delle terre e dei diritti inerenti nella zona del prato della Valle e farne la compera, se lo creda (Statuti).

 

Lo statuto del 1311 fissa un giudice particolare, assistito da due notai per rendere giustizia alle persone ecclesiastiche. Alla rubrica: Quod statuta durent nec removeantur il Comune soggiunge: “Additum est exceptis statutis que facta sint circa libertatem ecclesiae vel scripta sint in libro statutorum servari non debeant, immo de statutis debeant canzellari et libertas et honor Ecclesiae inviolabiliter debeat observari”.

 

 

La libertà della chiesa era pertanto pienamente osservata e le intenzioni del Comune verso l’autorità ecclesiastica erano ottime. Ciò non toglie però che di fronte alle invadenze del clero il Comune reclami altamente per sé quei diritti di amministrazione e di governo propri dell’autorità secolare laica. Anzi uno statuto del 1264, dichiara esplicitamente che se alcuno incorre nella scomunica per volersi attenere alle disposizioni del Comune, il Comune stesso si assume la parte e se ne addossa le spese senza badare per nulla alla scomunica.

 

Vicenza durante la dominazione di Ezzelino era sotto la scomunica; caduto il tiranno, fu assolta e riammessa nella pace della Chiesa.

 

Le scomuniche a Vicenza, come altrove, del resto erano frequenti. Il Brunacci ne registra di lanciate da Urbano IV (1261-1264), da Clemente IV (1265-1268), da Gregorio X nel 1272.

 

Nello statuto dei Notai il notaio che assume la tonsura e l’abito clericale è cancellato dalla matricola dei notai […] Così pure chi si vale di privilegio clericale è espulso dalla fraglia. […]

 

La questione dei poteri e dell’autorità dei vescovi di Vicenza fu già ampiamente trattata e discussa con competenza, esaurientemente. A me basta ricordare qui come il potere dei vescovi di Vicenza né per l’origine, né per le attribuzioni può in alcun modo qualificarsi un potere sovrano. I diritti del vescovo di Vicenza sono di carattere puramente feudale nei suoi rapporti con il Comune. Il podestà ai messi del vescovo paga la muda, ossia il dazio dovuto al vescovo per i traffici di Vicenza sul Bacchiglione con quei di Venezia.

 

Il vescovo aveva la terza parte delle multe dei saltari e eleggeva quattro dei dodici saltari del bosco piano, per diritto feudale.

 

Al vescovo lo statuto del 1264 concede un giudice console e assessore del podestà per giudicare le cause del vescovado, un banditore per mettere in possesso e fare i bandi. Il vescovo interviene a giudicare gli eretici.

 

Il Comune a sua volta tutela con precise disposizioni le terre le persone del vescovado e proibisce le vendite dei beni sui confini del vescovado. Il vescovo poi prende parte con la sua persona alle feste religiose, benedice le palme in S.Corona e porta in processione la S.Spina.

 

Tali pressappoco le prerogative dell’autorità vescovile: il vescovo Bartolomeo da Breganze, per i meriti particolari della sua persona, godette di maggior considerazione ed autorità, ma sempre personale. Il Beato Bartolomeo Domenicano, Consultore del sacro Palazzo, vescovo in Cipro, amico di Re Luigi IX di Francia, eletto vescovo di Vicenza, esule da prima per la tirannia di Ezzelino, fu ospite alla corte francese.

 

Di ritorno, dopo la morte del potente signore, alla sua sede, ebbe in dono dal Re Luigi preziose reliquie: consacrato dinanzi alla fantasia del popolo dall’esilio, dall’alta carica e dalle reliquie, il grande vescovo fu accolto dai Vicentini giubilanti con molto rispetto, ma senza però avere da loro una dittatura, che fu solo nella mente di alcuni storici.

 

Nessun accenno nello statuto del 1264 al prelato; se i Vicentini hanno giurato fedeltà ed obbedienza al vescovo Bartolomeo, non importa; questo non intralcia l’andamento della giustizia e la libera azione del podestà. Interviene col suo assenso per approvare lo statuto di mariganza nel 1262, ma come signore feudale e possessore di varie terre e castelli nel Vicentino.

 

 

Alla elezione del podestà Marco Quirini, Giovanni Gradenigo e Niccolò Baccellieri non fu estranea l’opera del vescovo Bartolomeo; opera proveniente non da diritto riconosciuto, ma dal prestigio e dalle aderenze personali di chi allora sedeva sulla cattedra vicentina.

 

 

Così pure Bartolomeo è ricordato con onore nel patto del 1262 fra le città della Marca Trevigiana; del resto in tutti i patti importanti dell’epoca di Vicenza, non solo, ma della Marca, intervenne il vescovo Bartolomeo. Cooperò alla restaurazione dello studio vicentino, alla pacificazione degli animi sempre pronti alla discordia, partecipò, quale intermediario, negli affari e questioni di Vicenza e Bassano, di Bassano e Padova, di Vicenza e Padova; uomo a cui la pratica degli uomini e degli affari, l’esilio, la conoscenza di una corte e l’alto intelletto non erano stati senza ammaestramento e senza frutto, intervenne sempre e diede il saggio e provvido consiglio nelle questioni del tempo; tutta via il reggimento e l’onore di cui godeva, non gli attribuirono mai la sovrana potestà e “non in nome proprio, ma in nome e per conto del Comune di Vicenza Bartolomeo si mise innanzi a procacciare la ricupera ed a pigliar possesso di Bassano; ed operò non da padrone ma da mediatore di pace nelle contese fra Bassano e Vicenza degli anni 1260-1262. Del pari come arbitro e mediatore fra il Comune ed il clero della città egli si comportò nel 1261 nella grande controversia per le decime della cultura” (Todeschini, Sulle decime feudali).

 

Le decime della cultura spettavano alla mensa capitolare di Vicenza; la tirannia di Ezzelino dal 1236 al 1259 aveva fatto andare in dissuetudine il pagamento della decima dovuto ai canonici ed i Vicentini se ne erano dimenticati volentieri anche dopo la ricuperata libertà.

 

 

Il capitolo non voleva rinunciare alle sue prerogative ed i cittadini non erano punto disposti a pagare un onere che la lunga dissuetudine aveva posto in dimenticanza e al quale i reclami dei canonici ora davano aspetto quasi di un nuovo onere. Tra i due litiganti si venne ad un compromesso nelle mani del vescovo Bartolomeo e questi ai 19 di agosto del 1261 “in palatio Comunis in plena concione ad sonum campane et voci preconis more solito congregata”, arbitro tra il Comune di Vicenza ed il capitolo di Vicenza, sentenziò che il capitolo vicentino cedesse ed investisse i diritti di decima sulle culture al Comune di Vicenza con il compenso annuo per parte del Comune al capitolo di 100 moggi di frumento, 50 di miglio, 50 di sorgo e 60 plaustri di vino e che questi alla sua volta trasmettesse nei comuni la proprietà dei beni sequestrati ad Ezzelino e situati in Schiavon, Longa, Costavernese e Breganze ed una posta di molini in Camisano.

 

In questo modo le decime spirituali riferentisi alla cultura della città di Vicenza, vennero abolite ed il Comune, col rimetterci poco del suo, l’ebbe vinta. E lo statuto vuole che il podestà garantisca al capitolo il possesso delle nuove terre. Insomma nessun potere sovrano ebbero i vescovi di Vicenza; nessun privilegio particolare il vescovo Bartolomeo.

 

Nella seconda metà del secolo XIII generale fu la tendenza dei nostri Comuni ad un vero e talvolta feroce anticlericalismo, giustificato dall’indegna condotta di molti ecclesiastici. La vita e le usurpazioni degli ecclesiastici li spingeva; la spaventosa facilità con cui per frivolezze si lanciavano censure ecclesiastiche, la scomunica e l’interdetto, aveva abituato i Comuni ad uno stato di cose ormai frequente.

 

 

Le università e gli studi cominciavano a risvegliare gli spiriti e richiamarli verso la luce vicina del Rinascimento. La politica papale non trionfava più come al principio del secolo con Innocenzo III. L’aquila imperiale aveva perso le penne per non mai più rimetterle. Rodolfo d’Asburgo ed Alberto Tedesco avevan ben altro da fare che dare ascolto agli ammonimenti ed alle invettive di parte. Papato ed Impero erano stati nemici; ed ora l’uno era occupato nell’Italia meridionale con Carlo d’Angiò e la guerra del Vespro, l’altro si dibatteva impotente nelle foreste della Turingia e della Borgogna contro le prepotenze di mal docili vassalli.

 

 

I Comuni liberi da una parte e dall’altra attesero a svolgere meravigliosamente e magnificamente l’opera incominciata; svolsero tutta la loro energia nei commerci, nelle industrie e purtroppo esaurirono anche la loro libertà nelle discordie. Rispondendo alle esigenze dei nuovi tempi reclamarono la parte di governo spettante all’autorità civile e, forti della loro potenza, si piantarono di fronte alle pretese ed alle immunità ecclesiastiche ed in alcune parti una buona volta vi posero fine.

 

A Vicenza pure si verificarono queste lotte tra il vescovo ed il Comune in una questione di statuti e di diritti feudali, in cui non mancarono immischiarsi altri interessi.

 

Il 21 agosto 1283 Bernardo Nicelli, vescovo di Vicenza, nell’episcopio lancia la scomunica contro il podestà, gli anziani, i giudici, gli officiali e consiglieri del Comune di Vicenza e sottopone all’interdetto generale la città ed il suburbio. Le motivazioni della sentenza le ricaviamo dallo stesso documento. Il Comune aveva emanato alcune disposizioni statutarie ledenti i diritti feudali del vescovo.

 

Una provvisione con il podestà Pagano Paradisio (1276-1277) vietava di alienare beni o possessi siti in Vicenza e suo distretto a chi non soggiaceva alla giurisdizione del podestà e del Comune di Vicenza (de non alienandi sali quibus bonis possessionibus positis in Vicentia et Vicentino districtu alicui qui non subiaceat iurisdicioni potestatis et Comunis Vincentie).

 

La seconda nella podesteria di Guercio da Vigodarzere (1278-1279) stabiliva che i privilegi, i benefici e le riformagioni del Comune giovassero solo ai soggetti del Comune di Vicenza […].

 

Una terza sotto il podestà Bellebono Guarnerini (1279-1280) proibiva di valersi dei comitati e delle giurisdizioni in nome proprio o d’altri (de comitatibus et iurisdicionibus suo vel alieno nomine non utendis).

 

Il vescovo di Vicenza, signore feudale di parecchi beni e castelli nel Vicentino, era stato colpito nei suoi interessi e possessi allodiali da queste disposizioni. Il vescovo, nobile ed alto padrone, non poteva alienare nulla dei possessi e dei beni a chi gli piaceva, ad un estraneo, ad un familiare (ad un piacentino, poniamo, trattandosi di Bernardo Nicelli da Piacenza). Il vescovo poi non poteva direttamente in suo nome od indirettamente per mezzo d’altri esercitare quei diritti comitali e signorili, concessigli dai privilegi imperiali.

 

L’altra ragione della scomunica è pure specificata. L’arciprete della pieve dell’Isola era stato orribilmente e proditoriamente ucciso di spada e non s’era fatta debita soddisfazione alla chiesa di un così orrendo delitto. Ora in un sinodo provinciale, tenuto intorno a quegli anni in Aquileia e presieduto da quel Patriarca Raimondo, s’era decretato che gli statuti, le riformagioni o le consuetudini contrarie alla libertà ecclesiastica fossero abolite nel termine di due mesi dalla promulgazione del decreto e che incorressero nella scomunica e nell’interdetto i podestà, giudici, officiali, comuni, città, che non avessero ottemperato al canone del sinodo.

 

Un altro canone stabiliva che se un chierico o persona ecclesiastica fosse stato ucciso o fatto prigioniero, fosse morto in carcere, gli autori fossero solennemente scomunicati ed il luogo del delitto fosse sottoposto a generale interdetto.

 

Per il fatto degli statuti e dell’uccisione dell’arciprete dell’Isola, Vicenza si trovava colpevole dinanzi ai canoni di Aquileia e per questo il vescovo Bernardo aveva lanciata la scomunica e l’interdetto, salvo in tutto il beneplacito ed il mandato di Bernardo vescovo Portuense, legato apostolico.

 

Il 17 febbraio 1284 nell’episcopio di Vicenza, Vincenzo di Brutofante, sindaco e procuratore del Comune, chiese venissero tolte le censure ecclesiastiche pronunciate, secondo lui, senza giusta causa e senza le debite forme. Ed il vescovo condiscese al parere di una commissione di quattro cittadini, levò l’interdetto. Interdetto che definitvamente e solennemente fu tolto il 27 ottobre dello stesso 1284, nella chiesa di S.Michele di Brendola, sede di un castello e di possessi dei vescovi Vicentini, da Bernardo con l’autorità del legato apostolico.

 

Quale soddisfazione i Vicentini abbiano concesso al vescovo non lo sappiamo, chè il rotolo è mancante; è facile peraltro arguirlo. I Vicentini avranno dichiarato che non avevano intenzione con quegli statuti di colpire il vescovo nei suoi possessi, ma di colpire i nobili riottosi ed indocili. Mi conferma questa supposizione il fatto che nel processo seguente gli statuti ricordati tornano ad esser fra gli incriminati e che il Comune esplicitamente manifesta non aver egli voluto colpire la libertà ecclesiastica.

 

Questo processo è ricordato, anzi riportato per intero, quale giustificazione del Comune nella più grossa ed intricata e lunga controversia del vescovo e del Comune dal 1289 al 1304. Non faccio la storia del processo […] a me importa studiare e vedere anche a Vicenza una delle fasi delle lotte frequenti in questa epoca tra i Comuni e gli ecclesiastici, rielvarne i rapporti e la parte che vi ebbe Padova, la fisionomia particolare di Vicenza e le conseguenze nello statuto del 1311.

 

Ai 12 marzo 1289 da Papa Nicolò IV, si spediva ai Vicentini una lettera, latore Fra Bonaventura, arcivescovo di Ragusi, nella quale il Papa si lamentava che nella città di Vicenza si fossero prese delle disposizioni contrarie alla libertà della chiesa, ammoniva severamente e perentoriamente il podestà Giovanni Capodivacca, gli anziani e i consiglieri a togliere detti statuti, sotto pena della scomunica, dell’interdetto e della privazione delle cariche e degli onori civili. L’incarico per ottenere l’abrogazione degli statuti era dato a Fra Bonaventura.

 

Gli statuti colpiti dalla lettera papale erano i tre ricordati prima nel processo del Comune del 1283-84 tra il vescovo Bernardo ed il Comune e per di più i seguenti.

 

Una provvisione presa sotto il podestà Bonzonello da Vigonza (1286-1287), con cui si vietava di acquistare per sé direttamente o mediamente per mezzo di altri, possessioni e diritti da chi non sosteneva gli oneri e le fazioni col Comune di Vicenza […].

 

L’altra con il podestà Padavino de Gambarini (1287-1288) ripeteva la riformagione del (1270-1280) podestà BellebonoGuarnerini di non usare dei comitati e delle giurisdizioni col nome proprio o col nome altrui.[…]

 

La sesta dell’alienazione dei feudi tenuti dalla chiesa vicentina, contenuto nello statuto del 1264 […].

 

La settima, pure nello statuto del 1264, determinante la natura del feudo, che doveva essere provata da antichi e vecchi strumenti e dettagliatamente definita nei suoi confini […].

 

L’ottava provvisione incriminata del 1264 riguarda la multa di 500 lire per chi presenti lettere apostoliche in patti stretti fuori della diocesi vicentina e per chi le riceva e per il notaio […].

 

La nona è del podestà Padavino de Gambarini (1287-1288) e proibisce di offrire ad un sacerdote novello per la sua prima messa o ad un frate per la sua vestizione solenne, più di tre soldi veronesi […].

 

La decima che estendeva anche a Vicenza le misure prese dal Comune di Padova contro gli ecclesiastici […].

 

L’undecima riguardante i clerici che commettano uccisioni o ferimenti […]. Infine tutte le riformagioni, statuti, deliberazioni comunque ledenti la libertà della chiesa. […]

 

Ho rilevato il valore della riformagione “Ne quiscitet aliquem, vel citari faciat per literas Pape et Imperatoris”.

 

Lo statuto del 1264, delimitante la natura del feudo ed esigente, per la sua validità, la conferma di antichi e vecchi istrumenti con i confini bene specificati, si proponeva di regolare questi diritti signorili, restringendoli per quanto era possibile. Ora se il vescovo non provava con l’autenticità dei documenti la legalità del suo feudo, ne doveva essere spogliato.

 

Dopo la lettera del Papa, il Comune, radunatosi nel Maggior Consiglio, per mezzo di Irech de Borgo commendò il proprio operato, la fedeltà e bontà verso la Chiesa per avere precedentemente aboliti gli statuti lesivi alla libertà della Chiesa. Così non la pensava l’arcivescovo Ragusino presente, che prima di ritirarsi presentò ai Consiglieri una lista degli statuti da cancellarsi come contrari alla libertà della Chiesa, e specialmente quello vietante l’alienazione di beni e possessi nel Vicentino a chi non sottostava alla giurisdizione del Comune.

 

Non sappiamo come, ma tra il 25 marzo ed il 6 aprile, Comune e vescovo ed il Ragusino devono essere venuti ad un accordo, perché il 6 aprile nell’aula dell’episcopio, presenti fra Francesco da Trissino dei Minori, inquisitore dell’eresia, fra Raimondo dei Minori da Trento, Pietro Parisio da Padova, assessore del podestà Giovanni Capodivacca, Pietro Stravolto giudice, Sigonfredo de Ganzerra giudice, Jacopo da Montebello giudice e Grailante giudice ed altri, l’arcivescovo Ragusino tolse il monitorio papale contro Vicenza, ma con la clausola insidiosa “salvo omni iure suo iterum faciendi si sibi videbitur”.

 

Infatti ai 30 d’aprile il vicario del vescovo produsse i privilegi imperiali di Ottone III, Arrigo II, Corrado II, Federico I e Ottone IV e molti libri di cause civili e criminali definite dai vescovi e comprovanti il loro diritto di giurisdizione su Creazzo, Brendola, Barbarano, Altavilla, Grancona, Asigliano, Zovencedo, Villa del Ferro e Orgiano. Produsse ancora altri documenti comprovanti il “merum et mixtum imperium” in parte delle terre suddette dovute al vescovo. Bernardo n’era stato spogliato al tempo del podestà BellebuonoGuarnerini (1279-1280) col pretesto dello statuto sulle giurisdizioni. L’arcivescovo Ragusino appigliandosi alla clausola, “salvo omni iure suo iterum faciendi si sibi videbitur” e valendosi dell’autorità di legato apostolico, pronunciò ai 2 di maggio la sentenza di scomunica contro il podestà ed il Comune di Vicenza. I Vicentini, naturalmente, corsero al riparo, punto disposti ad accettare la scomunica del Ragusino e la sua sentenza rispetto al vescovo.

 

Ai 9 di maggio a Padova, nel palazzo vescovile, alla presenza di fra Bonaventura arcivescovo Ragusino, Guglielmo di Malafiamma, procuratore del podestà e del Comune di Vicenza, “abrasit et abradi fecit, abolevit et aboleri fecit de voluminibus et libris statutorum et reformacionum Comunis Vincentie..[…]-Promise inotre di non fare più simili statuti. E tutti li cancellò […] salvo quelli diretti specialmente contra “potentes nobiles et magnates civitatis et districtus Vincentie…[…]. Del resto quanto alla chiesa, l’arcivescovo poteva stare tranquillo chè dopo la clausola “quod statuta durent et non removeantur” c’era anche quella “exeptis statutis que facta essent contra libertatem Ecclesie”. Ma a nulla valsero la giustificazioni dei Vicentini.

 

L’arcivescovo tenne duro e mantenne la sentenza con la quale a voler credere a Guidoto de Spiapasto, procuratore del sindaco del Comune “pronunciavit contra ius et iustitiam merum et mixtum imperium et omni modam iurisditionem spectare et pertinere ad episcopum et episcopatum et ecclesiam vicentinam in quibus dam castris, terris et villis Vicentini districtus et sunt bene XIII vel circa que sunt et spectant ad Comune Vincentie et de eis et fuit a recordatu et memoria hominum citra in tenutam et possessionem vel quasi”.

 

Ed i Vicentini non si mossero. Rinunziare o cedere solo su un passo nell’affare delle giurisdizioni e dei comitati era questione di supremo interesse per il Comune, era questione di vita o di morte. Perciò ai 29 di giugno 1289 i Vicentini appellarono al Papa Nicolò IV […] Il Papa delegò la questione al cardinale diacono Benedetto del titolo di S.Nicolò in carcere Tulliano per giudicare della ragionevolezza dell’appello. Prima di definirla il cardinale dovette partire per la Francia e fu sostituito da Ugone, cardinale prete del titolo di Santa Sabina, che riconobbe ed ammise l’appello dei Vicentini.

 

Il Comune, per mezzo dei suoi procuratori, difese strenuamente i propri diritti ed impugnò con egual forza la validità delle pretese vescovili. Protestò contro la sentenza dell’arcivescovo di Ragusi, siccome nulla, chè pronunziata da giudice non competente e senza aver citato regolarmente il podestà ed il Consiglio di Vicenza e inoltre pronunziata su questioni già risolte e giudicate.

 

 

Gli statuti incriminati erano stati tolti; se caso mai pur c’erano ancora, la riformazione aggiunta […] era garanzia sufficiente di una equa interpretazione. I privilegi imperiali non erano autentici e credibili. La condotta del Comune era pienamente giustificata dalla clausola del 1264 al “quod statuta durent nec removeantur”, da una deliberazione del Consiglio del 6 aprile 1289 che gli statuti segnati e colpiti “non intelligantur facta fore contra libertatem Ecclesie”, anzi dall’aver eletto un giudice appositamente per discutere le questioni possibili tra laici ed ecclesiastici, da un’altra deliberazione del 2 maggio 1289 partecipante la precedente all’arivescovo Ragusino, dall’aver il Comune fatto il possibile con sue deliberazioni dell’8 maggio 1289 per la elezione del procuratore a trattar meglio la questione, dall’aver l’arcivescovo riconosciuto aboliti gli statuti, eccetto quello dei comitati e delle giurisdizioni e aver sostenuto ciò, non ostante quod nihil aliud volebat et intendebat nec facere poterat, dalla preghiera di revocare il processo e la sentenza, dall’aver il Comune di fatto compiuto la rescissione dei suddetti statuti e dal fatto che il vescovo Bernardo nel processo del 1283-1284, per questioni identiche, s’era mostrato condiscendente ed aveva assolti i Vicentini. Nulla valse ed il processo continuò. Al cardinale Ugone, morto nel 1298, successe nella trattazione della causa Rainerio de Vichio, uditore del Papa, indi Tizio, arciprete del Colle, e il cardinale Gerardo vescovo di Sabina ed infine il cardinale Roberto del titolo di S.Pudenziana.

 

E siamo ai 3 marzo del 1304. I procuratori del Comune avevano assistito alla vita travalgiata e mutevole della curia Romana. Dopo il 3 marzo 1304 nulla sappiamo dall’archivio di Torre.

 

Ricerche fatte a Roma all’Archivio Vaticano riuscirono infruttuose. Lo statuto de non alienandi sali quibus possessionibus positis in Vicentia et Vicentino districtu..[…] corrisponde allo statuto di Padova […]. Quella di Vicenza è del 1276-1277, l’altra invece è del 1280; ma siccome ritorna anche nel 1289, la priorità non infirma la supposizione che Padova abbia influito a Vicenza in questi statuti.

 

Questo processo rappresenta una lotta anti-feudale, contro il clero e specie contro il vescovo possessore di beni, e feudatario. Lo statuto ne quiscit et aliquem per litera Pape e quello contro i doni agli ecclesiastici e quello contro l’alienazione di beni a non Vicentini e qualche altro tendente ad imbrigliare gli ecclesiastici, hanno un valore più che locale e si ricollegano a quel moto generale nel secolo XIII (nella seconda metà) dei Comuni contro le eccessive libertà e prerogative del clero. Una importanza pure l’ha per chiarir meglio i rapporti di Vicenza con Padova, specialmente per quello statuto: Quod statuta facta per Comune Padue contra Ecclesiasticos valeant et firmentur in Vicentia. Per appunto nel decennio 1279-89 la lotta a Padova contro il clero era giunta al colmo.

 

Dopo il 1289 la questione assume un carattere di lotta prettamente vescovile-Comunale e così continua fino al 1304. Con questo anno ci vengono meno i documenti. Certo il processo fu interrotto. Chè la Curia Romana aveva ben altro da attendere che a questo processo. Ai 7 luglio dello stesso anno moriva Benedetto XI. Per quasi un anno, fino al 5 giugno 1305, la sede rimase vacante. Indi susseguirono i mutamenti ben noti, il trasporto della sede da Roma a Perugia, infine ad Avignone; e la curia era occupata in ben più gravi processi.

 

Col 1311 gli avvenimenti si intralciano ancora di più per l’intervento di Enrico VII. Ma intanto il Comune prosegue per la sua strada. Lo statuto del 1311 mantiene intatte gran parte delle disposizioni controverse. Conferma la nomina del giudice delle persone ecclesiastiche. Gli altri giudici del Comune non devono immischiarsi nelle cause suddette, eccetto nel caso vengano portate dinanzi a loro in appello per nullità o irregolarità. Conferma il divieto de comitatibus et iurisdicionibus in vel alieno nomine non utendis del 1284 e del 1289 […]. Le disposizioni de alienandis feudis terciam et quandioque medietatem domino reservata, ut feudum non intelligatur esse feudum nisi possit probari per antiqua et vetera instrumenta cum coherenciis, de iuribus et actionibus non dandis forensi, ne quis vendat possessiones Vicentini districtu salicui extraneo, permangono.

 

La rubrica quod statuta durente necre moveantur resta sola senza l’aggiunta exceptis statutis contra libertatem ecclesie. Quella de offertis non fiendis stabilisce che in occasione di prima messa, di vestizione di frati o di monache non si doni più di un (denaro) veneto grosso. 

 

La sola disposizione tolta è quella ne quiscitet aliquem neccitari faciat per litteras Papae, perché unito vi era vel Imperatoris. Nel 1311 abbiamo un breve ma fervido e di illusorio amoreggiamento di Vicenza con l’Imperatore e per riguardo suo è tolta la disposizione; il che condurrebbe a concludere che Enrico VII, speranza dei Ghibellini, indirettamente aveva reso un servizio al Papa.

 

Nel 1311 incontriamo una nuova questione tra il vescovo Altogrado dei Conti Cattaneo da Lendinara ed il Comune di Vicenza. Il Comune, bisognoso di denaro, aveva chiesto una somma di 2400 lire di denari piccoli al vescovo e non avendoli ricevuti aveva investito e concesso a Marcabruno ed Jacopo da Vivaro il possesso dei beni del vescovado per le 2400 lire, facendosi dare la somma dai predetti, i quali poi erano anche gli avvocati del vescovo.

 

Il vescovo lanciò la scomunica contro Vanni Zeno dei Lanfranchi e Aldrighetto di Castelbarco, contro il primo perché aveva concesso la investitura e contro il secondo perché aveva confermata la investitura dei detti beni e contro i due fratelli da Vivaro, Marcabruno ed Jacopo perché li avevano accettati e lanciò l’interdetto su Vicenza. La questione venne portata avanti. Fu presentato l’appello al patriarca di Aquileia e all’Imperatore. Pietro, abate del monastero di S.Lorenzo presso Trento, fu delegato dal Patriarca per la trattazione della causa; ai 14 ottobre Matteo Pigafetta, sindaco e procuratore del Vicario imperiale Aldrighetto del Comune e dei da Vivaro, protestò dinanzi al delegato per l’assenza del vescovo Altogrado, citato a comparire, il quale se ne stava a Padova “que graviter inimica erat civitatis Vincentie”.

 

Mentre correvano le pratiche per l’appello, per la intromissione di alcuni “homines religiosi” si venne ad un compromesso tra il vescovo ed il Comune, riducendo la somma da pagarsi al vescovo a 1300 lire. Ma ormai la procedura di appello era seguita. Si spiega quindi la prosecuzione della causa, non ostante l’accordo.

 

Dopo ci vengono meno i documenti; il Comune continuava la sua tradizione, anche mutati i capi di opposizione ai resti dei privilegi feudali ecclesiastici.

 

DAL 1264 AL 1311 – LO STATUTO DEL 1311

 

Cinque anni dopo la liberazione da Ezzelino Vicenza raccoglieva nel suo statuto gli ordinamenti vari e dispersi precedenti. Nel 1311 dopo la fine del dominio Padovano, Vicenza rifaceva il suo statuto.

 

Durante questo periodo di 50 anni gli avvenimenti interceduti avevano prodotto i loro effetti. Nel 1311 siamo in un momento storico molto differente dal 1264 e lo statuto è indice di questo cambiamento. Nel 1264 Vicenza aveva da premunirsi contro i possibili tentativi di signoria; nel 1311 contro il dominio padovano si appuntano molte disposizioni statutarie.

 

 

Nel 1264 s’erano raccolte ed inserite un gran numero di consuetudini, di ordinamenti anteriori, pre-ezzeliniani, antichissimi alcuni. Nel 1311 molta parte di essi manca ed è naturale. Non si sentì più il bisogno di riaccettarli, chè mutate erano le circostanze. Confrontando quindi i due statuti, si hanno dinanzi due quadri differenti, pure mantenendosi lo sfondo generale identico; ma molti personaggi sono scomparsi; altre figure sono subentrate. Da tumultuario e un poco confuso che era, il quadro è più chiaro, il numero dei personaggi è diminuito e questi sono disposti con maggior ordine.

 

La generazione che aveva redatto gli statuti nel 1264 aveva vissuto la grande epoca federiciana ed ezzeliniana. Aveva lottato per la conservazione delle ultime e tarde libertà comunali. Una generazione che ricordando i sacrifici ed il sangue versato per la libertà, tenacemente e saviamente aveva cooperato alla liberazione e dava mano all’opera di costruzione e restaurazione.

 

Nel 1311 questa generazione è scomparsa. La nuova, cresciuta all’ombra del dominio padovano, tra le discordie nobiliari e di parte, se ha lavorato per la ricuperata indipendenza, l’ha fatto più per ragioni proprie, e vorrei dire, per interessi privati. E nell’abbattere il dominio di Padova non s’era guardata dal pericolo che veniva dal liberatore. Gli uomini ed il clima storico erano mutati.

 

Il papato, dopo l’attentato di Anagni, andava a sciuparsi ad Avignone. L’Impero, dopo il lungo interregno, aveva sì il suo capo in Enrico VII che viene in Italia a riafferrare le redini dell’Impero, a riaffermare una supremazia, ma la sua discesa segna l’invilimento dell’aquila imperiale.

 

Le strette condizioni finanziarie, i bisogni dei tempi avevano messo i Comuni in duri frangenti. Eran dovuti ricorrere ai borghesi e molte volte s’erano concessi a capi di ventura.

 

L’andata verso la signoria era inevitabile. A Verona già c’erano gli Scaligeri che nel 1311 si fermano a Vicenza e poi procedono verso Padova e Treviso.

 

Lo statuto è più omogeneo, più ordinato, come dissi sopra; mancano molte di quelle consuetudini segnate in fine dello statuto del 1264. Nel 1311 s’è fatta una specie di vagliatura delle disposizioni e consuetudini antiche frammentarie e transitorie, altre se ne sono aggiunte, altre sono modificate.

 

Il Podestà prende il nome di Rettore, se per reverenza all’autorità imperiale o per un ricordo classico non saprei dire. Propendo per credere per riguardo all’autorità imperiale, chè aggiunta agli statuti ritorna spesso la clausola “salva reverentia serenissimi domini imperatoris”, anzi spesso “Rector” e “Vicarius” (imperialis) sono sinonimi. Però questo titolo Rector dura poco e Galasino da Tornano nel 1312 (23 maggio) riassume il titolo di Potestas.

 

Gli statuti furono compilati sotto Aldrighetto da Castelbarco “sacri Romani Imperii in civitatis Vincentie Vicarius” e redatti da una commissione di dodici cittadini, tre per quartiere.

 

Nel proemio, ampio e solenne, tornano frequenti e rispettosi gli accenni all’Imperatore. Anzi gli statuti sono fatti ad honorem divine maiestatis et serenissimi domini nostri Henrici Dei gratia Romanorum Imperatoris semper Augusti…ad bonum statum et pacificum et libertatem civitatis Vincentie et districtus”. Attentare contro lo stato attuale della città; mirare a mutazioni di regime, è gravissimo delitto. Gli autori e i fautori di simili cambiamenti sono condannati alla morte, i loro parenti ed eredi banditi, i beni confiscati. Questa disposizione che tende a saldare il regime di Vicenza, è concepita in termini espliciti e forti, e  mostra i pericoli a cui bisognava porre riparo.

 

Il rettore, o podestà, non è più elettivo nel seno del Maggior Consiglio: è mandato dall’Imperatore, cioè – anticipando una notizia – da Cangrande De la Scala, creato Vicario Imperiale anche a Vicenza nel marzo del 1312; resta in carica sei mesi, percepisce uno stipendio di 2 mila lire di denari piccoli, pagabili dall’esattore dei dazii, metà al principio del regime ed il resto dopo quattro mesi. Deve condurre seco tre giudici od assessori, di cui due “ad rationem reddendam in civilibus questionibus” e il terzo sopra i malefizi; due militi o compagni laici e almeno otto domicelli (servi) ed otto cavalli da armi e quattro cavalli ronzini, a spese sue. Egualmente il rettore ha da condurre seco 25 berrovieri, armati completamente, con uno stipendio dal Comune mensile di quattro lire di denari piccoli, hanno il loro capitano con 8 lire mensili di salario. Devono stare nella corte del Palazzo a servizio del vicario e del Comune di Vicenza.

 

Ora questo rettore non più elettivo, circondato d’armati, non risponde certo alle condizioni del libero Comune antico. Il passo compiuto è molto rilevante; il rettore o podestà è un officiale imperiale o più esattamente un podestà scaligero. Il giuramento e le mansioni del podestà variano di poco dal 1264, però l’officio è più specificato, delineato e semplificato.

 

Il Maggior Consiglio rimane immutato; i membri di esso esistenti al tempo del dominio padovano restano in carica; i posti lasciati vuoti dai morti o dagli assenti sono coperti da nuovi eletti. Quanto alle modalità e alla elezione del Consiglio lo Statuto non dice nulla. Si può quindi ritenere che il modo della elezione fosse il medesimo che per il passato.

 

Nelle riformagioni in fine dello statuto del 1311 si ha sempre la clausola in Consilio quingentorum, quindi dopo il 1311 il numero dei consiglieri fu portato a 500. Nessuno inferiore ai diciott’anni può essere membro del Consiglio. Gli esistenti inferiori ai 18 anni non hanno diritto di voto, possono però essere eletti alle cariche.

 

Del Minor Consiglio non un accenno, degli Statutari neppure; pericoloso è trarre illazioni dal silenzio dello statuto, ma questo non è senza significato. Il Minor Consiglio nell’antico Comune approvava o respingeva le proposte del podestà. Era il moderatore del podestà, ed ora è tolto. Gli statutari elaboravano le riforme, le aggiunte secondo i bisogni della popolazione, era il popolo stesso che proponeva e modificava la sua costituzione, variando le condizioni dei tempi. Ora questo organismo di libertà e modernità è messo da parte.

 

Gli anziani da 12 salgono al numero di 16 e risultano di quattro membri del popolo, non iscritti ad alcuna fraglia (uno per quartiere) e di uno ogni fraglia delle 12 ora esistenti, dei giudici, dei notai, dei mercanti, dei calzolai, dei pelliparii, dei merciai, dei beccai, dei tavernieri, dei sartori, dei marangoni e mastellari, dei pezzaroli e dei fabbri e durano in carica tre mesi; un anziano non può essere rieletto se non dopo trascorso un anno.

 

Il Sacramentum sequendi, e il Sacramentum Comunantie, mancano; non ci sono più questi due giuramenti di alleanza, di fede, antichissimi, primo nucleo dei cittadini liberi unitisi in lega, primo germe del Comune. Gli animi dei cittadini affievoliti nelle discordie e lotte interne non hanno la fierezza e la fortezza antiche; gli interessi del Comune e quelli dei cittadini non sono più strettamente uniti così da formare una sola cosa nell’anima del cittadino; la vita privata non è più la compartecipazione della vita comunale, le due correnti vanno a poco a poco deviando ed allontanandosi.

 

 

L’amministrazione della cosa suprema è lasciata in mano ad un manipolo di privilegiati. La politica è nelle mani del Signore o del Senato. Certo la partecipazione alla vita pubblica, all’amministrazione, continua; ma non credo con quel carattere e quella tenacia che unì i Comuni della Marca Veronese e di Lombardia contro il Barbarossa prima e più tardi contro il secondo vento di Soave.

 

Lo statuto riporta tra gli offizi ordinari, oltre a quelli segnati nel 1264, i due sovrastanti alla cancelleria, un giudice dei preconi, uno delle mariganzie, uno delle collette, uno del tesoro, uno beni degli omicidi, un sindaco della fraglia dei notai, un giudice avvocato generale del Comune, due giudici avvocati dei poveri, un esattore dei dazi, un massaro per il peronio, un altro per le munizioni dei castelli della città, tre razionatori del Comune, un esattore delle condanne vecchie, due gastaldi dei preconi; segue poi una lunga schiera di notai retribuiti nei vari uffici.

 

L’avvocato ed il sindaco del Comune intervengono al Consiglio Maggiore e al Consiglio degli anziani; difendono gli interessi del Comune e nelle questioni intentate contro di esso e trattate dinanzi al rettore, regolano e sorvegliano le elezioni; sostengono insomma sempre i diritti e le parti del Comune nei Consigli, procurando che le sue prerogative non vengano menomate.

 

Due giudici avvocati difendono poveri e deboli nelle loro cause, coadiuvati da due notai.

 

Un giudice ed un sindaco del Comune, destinati ai beni degli omicidi, devolvono metà di questi beni al Comune e metà agli eredi; esigono le multe spettanti al Comune e risolvono le altre questioni inerenti al loro ufficio.

 

Una lunghissima rubrica regola e determina le ragioni e questioni dei preconi; queste disposizioni si trovano in appendice agli statuti pubblicati dal Lampertico e sono del 1275. Nel 1311 questi sono inseriti nel primo libro e sono definiti più chiaramente.

 

Disposizioni relative ai cataveri, ai saltari ed altre sono tralasciate.

 

Ricostruiamo, come abbiamo fatto con lo statuto del 1264, un po’ di storia interna del 1311, ricavandola dagli statuti. Così si vedrà l’opera di restaurazione negativa e positiva di fronte al passato dominio padovano e alla nuova condizione. In parte vi abbiamo già accennato rilevando i mutati ordinamenti politici del 1311. Completiamo il quadro con altre notizie.

 

I debiti contratti da più di 30 anni non sono riconosciuti validi; per le doti il tempo non corre – nisi dissoluto matrimonio -; nei debiti e nelle questioni di Vicentini con forestieri non si tien conto del tempo trascorso; però ai creditori dopo i 30 anni è concesso un anno per esigere il pagamento dei debiti.

 

 

Ecco ora l’accenno ed il ricordo del dominio padovano. Trattandosi degli uomini di Lonigo, di Bassano, di Fontaniva e delle altre terre vicentine occupate già dai Padovani il termine è portato a 50 anni; ed i Vicentini possono esigere la soddisfazione dei debiti e degli strumenti contratti dal 1260 circa, cioè ancora prima che il dominio padovano si estendesse a dette terre.

 

 

Abbiamo visto qualche cosa di simile anche per il periodo Ezzeliniano e post-ezzeliniano. Le possessioni e i diritti dei cittadini di Vicenza, occupate da Padovani da 25 anni in qua tornano pleno iure et propria auctoritate al proprietario e ai suoi eredi; i lavoratori delle terre sono obbligati a corrispondere i redditi a lui e agli eredi; nessun forestiero ha più diritto di esigere affitto, di tenere possessioni già di Vicentini o a lui affittate.

 

Questa disposizione dimostra come alcune delle terre del Vicentino erano state occupate da padovani o da forestieri in genere, per debiti o anche usurpate o affittate regolarmente.

 

Alla rubrica “Ne quis vendat possessiones Vicentini districtus alicui extraneo” segue una disposizione per cui le vendite o cessioni di terreni, di diritti, fatte negli ultimi 45 anni da un vicentino a Padovani o ad altri forenses sono calcolate come non avvenute e tornano al possessore e padrone di prima, senza concedere ai forenses alcun diritto a compenso.

 

Questa riformagione colpisce in pieno petto gli interessi dei Padovani.

 

Un ricordo e quasi un atto di riconoscenza vorrei vedere nello statuto che stabilisce si debbano ritenere per cittadini di Vicenza, ovunque abitino, i nobili delle famiglie Vivaro, Velo, Trissino, Arzignano, Serego, Peola, Piovene, Breganze, Tiepolo, Loschi, Maltraversi, Malacapelli, Bissaro, Marola. Questi nobili erano stati sempre indocili alla signoria padovana, si erano sempre scossi e avevano innalzato la bandiera della rivolta; alcuni anzi avevano partecipato alla congiura col Ganzerra. Ora lo statuto riconcede loro quei diritti di cittadinanza che erano stati contrastati sotto Padova.

 

Sono pure ritenuti cittadini di Vicenza quelli che da trenta anni vi dimorano, essi e i loro predecessori e quelli che da dieci anni con la famiglia abitano in Vicenza, purchè loro e loro avi fossero stati cittadini “Vicentini natione”.

 

Per ovviare al pericolo delle solite rivolte e sommosse popolari e nobiliari, tutte le torri, i palazzi, le costruzioni fatte ad uso di fortezze, sono distrutte ed è severamente proibito costruirne di simili per l’avvenire.

 

Vicenza risorta libera dalla signoria di Ezzelino, per discordie di parte, per la debolezza interna subisce il dominio di Padova. Nei 45 anni decorsi dal 1266 al 1311, seguendo la politica e le sorti del grande Comune Guelfo, sviluppa e svolge le migliori energie ed esaurisce nello stesso tempo il tesoro delle sue libertà.

 

Nel piccolo Comune si rispecchiano e ripetono gli stessi fatti, gli stessi fenomeni dei grandi Comuni italiani. Le leggi e consuetudini anteriori raccolte in unico testo, gli statuti, l’autonomia comunale proclamata e difesa contro i nobili e contro gli ecclesiastici, lo sviluppo del commercio; gli stessi fenomeni e gli stessi sintomi di decadenza.

 

 

Le lotte interne, i partiti, il disagio finanziario, le ambizioni e le reciproche gelosie della città. Nella Marca poi, per effetto del dominio Ezzeliniano, per la mancanza di un Comune egemonico o di un Signore dalla mano di ferro, per il frazionamento comunale, non si raggiunge un accentramento politico razionale. Sorsero sporadicamente qua e là delle Signorie successivamente spazzate via da altre più forti. Intanto da levante il Leone di S.Marco si scuoteva e si avanzava.

Vittorio Bortolaso