Un gioco pesante

 

L’omicidio di un giovane (già con esperienza di partigiano) nella caserma della polizia ausiliaria di Vicenza rivela i retroscena delle lotte intestine tra i vertici della Repubblica Sociale 

 

di Giorgio Marenghi

 

 

Il 29 novembre 1944 è un giorno noioso come tanti altri e doverlo trascorrere in caserma non è una prospettiva allettante per un ragazzo di vent’anni. Ma Giacomo Possamai, milite del Battaglione agenti di Polizia Ausiliaria di stanza presso S. Domenico non si sarebbe aspettato che fosse l’ultimo della sua breve esistenza.
Già collaboratore dei partigiani li aveva poi lasciati per arruolarsi nella Polizia Ausiliaria di Salò, probabilmente su suggerimento degli stessi comandi partigiani. Il gioco che stava giocando il Possamai era molto rischioso, fare“l’infiltrato” allo scoperto (i comandanti del battaglione conoscevano i trascorsi del giovane arruolato) e un solo sospetto poteva costare caro.

 

Il 28 novembre 1944 il comandante del Battaglione, Giambattista Polga, perde la vita in quel di Priabona, falciato da una raffica di mitra di partigiani. E quel noioso giorno d’autunno, il 29 novembre, si chiude con un altro cadavere, questa volta quello del giovane Giacomo Possamai, nella caserma di polizia a Vicenza.
Coincidenza? Un sospetto di troppo? No, semplicemente fu un assassinio premeditato, compiuto a freddo da alcuni militi scelti del battaglione guidati dai loro ufficiali.


La storia di quel giorno la si può comprendere dalla documentazione del Tribunale di Vicenza riguardante il processo contro il Questore Cesare Linari e altri aguzzini in divisa.


Che succede infatti al giovane quando rientra in caserma la mattina del 29 novembre 1944, il giorno dopo la morte del suo comandante? Giacomo viene subito affrontato dal sottotenente Giovanni Comparini, dal vicebrigadiere Ferdinando Sartori e dagli agenti Severino Roso e Lino Spessato.


Deve dare spiegazioni, i toni sono concitati, si urla, si picchia, si infierisce sul giovane, con tutta probabilità lo si accusa di fare la “spia” a favore dei “ribelli” o addirittura di essere responsabile della morte del capitano Polga.


Nel clima concitato viene trascinato nella stanza dell’ufficiale di picchetto, gettato sul letto, pesto e dolorante, e finito a rivoltellate e scariche di mitra. Il fatto, gravissimo, per la caratteristica e per il ruolo degli autori, desta grande scalpore in città al punto che se ne occupa direttamente il Procuratore dottor Borelli che avvia le prime indagini.


Occorre rompere il muro d’omertà creatosi tra gli agenti del battaglione e isolare gli assassini. Borelli riesce a capire la meccanica del delitto e nel dopoguerra negli atti del tribunale vi sono tracciati gli identikit dei mandanti e degli esecutori dell’omicidio di Giacomo Possamai.


Il ruolo del Questore Cesare Linari emerge netto e chiaro. Appena appresa la notizia della morte del capitano Polga il Questore, probabilmente per proteggersi da eventuali accuse di fare il doppio gioco, si affretta alla caserma di S. Domenico e urla, appena arrivatoci, di “eliminare quel ribelle!”.


Dunque è il Questore di Vicenza, il Seniore della Milizia Cesare Linari, l’istigatore dell’omicidio.


La motivazione della sentenza nel processo del dopoguerra lo dice chiaramente:


“Può ammettersi che il Linari avesse solo apparentemente dimostrato uno stato di costernazione per la morte del Polga, ma siccome inducono a pensare le stesse sue dichiarazioni rese in dibattimento, è pur certo che la uccisione del Polga determinò in lui uno stato di apprensione. Se non può ammettersi, giacché elementi di prova a tal riguardo non emergono, che egli temesse addirittura di essere coinvolto quale responsabile dell’uccisione, neppure d’altra parte può essere scartato l’assunto dell’imputato quando dice che il timore di possibili complicazioni e di conseguenze a lui pregiudizievoli fu la causa vera che determinò il contegno del 28 novembre”.
 

“Già si è visto chi era il questore Linari, l’uomo cioè che cercava di star di qua e di là, che sopra ogni cosa teneva alla propria pelle. Si tengano presenti le accuse ed i sospetti contro di lui lanciati dall’informatore del Maggiore Carità (responsabile del servizio segreto italiano affiliato al B.D.S. tedesco, n.d.c.), non si trascuri la circostanza che, in precedenza, al prof. Rossi, esponente del Comitato di Liberazione il quale aveva chiesto se in caso di soppressione del Polga si dovessero temere rappresaglie, egli dette assicurazione che per lo meno da parte della Polizia Ausiliaria non ve ne sarebbero state.” (Archivio del Tribunale di Vicenza- Sentenza della Corte d’Assise Straordinaria di Vicenza in data 22 giugno 1945).

 

Ma non sono solo i documenti estratti dal Tribunale di Vicenza a gettare luce sulla vicenda Possamai. C’è anche una testimonianza preziosissima del cognato di Giacomo Possamai, Luigi Chiurato di Marostica, il cui ruolo nella storia è fondamentale per una ricostruzione esatta degli avvenimenti.

Ed è opportuno partire un po’ da lontano per inquadrare bene tutto e per arrivare poi, guidati dalle parole del Chiurato, a capire il movente dell’omicidio.

 

Racconta il Chiurato: “Anch’io fui colto di sorpresa dall’armistizio dell’ 8 settembre, ma poiché ero in Corsica, in un battaglione paracadutista “Nembo” assieme ai tedeschi mi fu impossibile obbedire agli ordini del governo del Re. Fui trasportato nel continente e rimasi nella mia unità a fianco dei tedeschi fino alla primavera del ’44 quando fui ferito. Ebbi un permesso di convalescenza di venti giorni e me ne tornai a casa a Marostica”.

 

“Qui trovai tutto cambiato, i più erano renitenti nascosti o in montagna. Così anch’io mi nascosi, stetti a casa, all’ospedale di Marostica, da amici. Alla fine però un giorno un sergente italiano e due tedeschi mi sorpresero a casa mia. A Vicenza mi sistemarono assieme ad altri renitenti in una caserma dei bersaglieri, per ritornare a fare il militare, ma approfittando di un momento di distrazione del piantone me ne fuggii. Già sapevo che mio cognato, Giacomo Possamai, era in montagna con i partigiani, lui li aveva seguiti non per renitenza alla leva perché era giovanissimo, aveva solo 17 anni, ma per l’esempio degli amici più grandi del paese. Mi tenni nascosto ancora per un po’ ma il rischio era grande e così ad un certo punto mi decisi e feci una proposta al comandante della Brigata Nera di Marostica, Antonio Comparini".
 

 

"Mi sarei arruolato nella sua compagnia se mi avesse tenuto di servizio in paese, a Marostica. E Comparini accettò e mantenne la parola. Nella Brigata Nera di Marostica poi mi accorsi di non essere ben visto, dall’ala dei “duri” (tre quarti erano renitenti come me) per via di mio cognato di cui sapevano tutto. C’era perfino l’ordine di prendere Giacomo Possamai vivo o morto!".
 

 

"Comunque a partire dall’estate del ‘44 mi mantenni in contatto con Giacomo, a mezzo di staffette, ero informato di continuo su quello che stava facendo,ecc”.

 

“Una volta mi dissero che doveva saltare la centrale elettrica di Villaraspa. Ma io mi opposi perché dissi sarei stato costretto ad abbandonare la Brigata Nera e a fuggire in montagna coi partigiani dato che ero di servizio proprio io quella notte dell’azione. Già subivo turni pesanti dato che ero il cognato di Possamai, ero tenuto d’occhio ed avevo la moglie e la suocera che erano continuamente convocate in caserma per fornire informazioni sul loro congiunto”.
 

 

“Ad un bel momento, verso il mese di novembre del ‘44 il comandante la Brigata Nera, AntonioComparini, forse subodorando i miei rapporti col Possamai latitante, mi chiese un colloquio. C’era pure il Podestà, Perolin, di Marostica. Il motivo della conversazione fu presto chiaro: si erano accorti che la guerra era persa e cercavano di trattare con i partigiani, volevano avviare una serie di incontri per trattare la futura resa della Brigata Nera, per avere assicurazioni su un eventuale processo regolare, che non ci fossero eccidi o vendette generalizzate, ecc. Presi tempo, risposi che non sapevo dov’era mio cognato,ecc.".
 

 

“Mia suocera però non si fidava, ma io decisi di correre il rischio e confidai a Giacomo il contenuto del colloquio avuto con il comandante la Brigata Nera e con il Podestà. Ci incontrammo nel retrobottega di un’osteria a Villaraspa, di notte, dissi loro tutto e aggiunsi: “Qui si parla di resa, della loro resa..”. Giacomo ci stette e si presentò a casa, con la garanzia che il Comparini nulla avrebbe fatto contro di lui. Anzi, il Comparini stesso, vista la brutta aria che tirava in caserma tra i componenti dell’ala “dura”, che non capivano perché dovevano rispettare un “ribelle”, propose di affidarlo a suo figlio che allora era tenente della Polizia con sede presso la caserma di San Domenico a Vicenza”.


Il complotto della Questura

 

"Il tenente Giovanni Comparini, figlio di Antonio comandante della B.N., si prese così sotto la sua “protezione” il giovane partigiano e se lo portò in caserma. Questo accadde il 25 novembre del 1944, e il Comparini partì in macchina alla mattina da Marostica assieme a Possamai. Era il primo giorno da passare in caserma per mio cognato lontano dagli odi dei brigatisti del paese. Il secondo giorno passò tranquillo e così pure il terzo. Il quarto giorno mi accorsi però che il Comparini si era allontanato da Marostica senza mio cognato e chiesi a Giacomo perché quella mattina, il 28 novembre 1944, non andava a Vicenza in caserma. Mi rispose che doveva andare a trovare la morosa e mi chiese per di più la bicicletta in prestito. La sera rientrò tardi e con la bicicletta polverosa".
 

 

"Il mattino seguente, il 29 se ne andò a Vicenza. Alla sera non lo vidi e la mattina del 30 incontrai un altro ufficiale della Polizia Ausiliaria che conoscevo, tale Frescura e chiesi notizie di Giacomo. Frescura mi prese da parte e mi disse che mio cognato era stato ucciso! Trasalii. Chiesi da chi e perché ovviamente. Mi rispose che stato Giovanni Comparini e che lui non ne capiva niente. Ma soggiunse: “Guarda che hanno dato l’ordine a Giacomo di far fuori il capitano Polga!”.
 

 

“Capii tutto in breve tempo. Mio cognato era stato via tutto il giorno del 28 in bicicletta, avevano dato a lui l’ordine di far fuori il Polga, quindi dovettero eliminarlo perché era un testimone scomodo! Ma chi? Solo dopo seppi che il Questore di Vicenza aveva dato l’ordine di uccidere Possamai appena si fosse presentato in caserma. Era quindi chiaro che fu un intrigo che ebbe la sua origine nella Questura e nella caserma della Polizia Ausiliaria. Al loro interno molto probabilmente c’era chi voleva togliere di mezzo i “duri” che impedivano la trattativa con le forze della Resistenza. E mio cognato fu scelto come vittima da sacrificare! In ogni caso Giovanni Comparini è stato un assassino, se voleva poteva salvarlo, invece ha dato ordine al guardiano della caserma che appena fosse rientrato Possamai fosse condotto nella sua stanza”.

 

“Al processo cercò di giustificarsi dicendo che stava facendosi la barba e che si accorse che Giacomo stava estraendo una pistola a tamburo dai pantaloni. Una balla! Perché Giacomo a suo tempo mi rifornì di pistole piatte, tedesche e italiane, e non sarebbe mai andato in giro con un pistolone così ingombrante che chiunque avrebbe notato all’istante. Dopo aver saputo dell’omicidio, ero in divisa da Brigata Nera, ricordo che ho tolto la sicura al machine pistole e sono andato a casa del Comparini. C’era il vecchio (quello che voleva arrendersi con il Podestà ... ) e anche Giovanni, il figlio, tenente di polizia. Gli chiesi spiegazioni e ricevetti la versione dell’omicidio a scopo di difesa. “Non mi mentire! Qui c’entra pure il Polga!” gli dissi. A Vicenza andammo cinque volte per vedere di avere la salma. Non lo trovammo mai, solo nel dopoguerra riuscimmo a scoprire il luogo della sua sepoltura clandestina ... “