IL MASSACRO DI PEDESCALA E SETTECÀ
LA RESISTENZA IN VAL D'ASTICO, L'ULTIMA VALLE

 

di Sonia Residori

 

Affidata alla memoria orale, spesso (non sempre) distorta o interessata, la vicenda di Pedescala e dell'orrendo massacro di innocenti non deve essere più manipolata. La Storia deve impossessarsene definitivamente, spazzando via convinzioni fasulle e alimentate solo da bassi interessi di parte. Sonia Residori, storica vicentina, con il suo ultimo libro, L'ultima valle, sulla tragica vicenda non ancora metabolizzata del tutto a causa di un'antica, tenace disinformazione, fa luce documentale su quell'ultimo drammatico brandello di giorni (30 aprile-2 maggio 1945) dell'ultima guerra e ne fornisce ai lettori una sintesi efficace.

 

 

PEDESCALA E SETTECÀ SONO DUE paesi della val d’Astico che durante gli ultimi giorni di guerra (30 aprile-2 maggio 1945) furono teatro di eventi sanguinosi. In un feroce massacro furono uccise dalle truppe tedesche in ritirata 82 persone, in maggioranza civili, comprese nove donne e il giovane parroco di Pedescala, don Fortunato Carlassare. Non si trattò di un massacro “a tempo scaduto”, “fuori tempo massimo” e altre sciocchezze simili inventate da giornalisti e scrittori poco accorti perché - sembra quasi banale dirlo - finché una guerra non è terminata si combatte, si continua a uccidere e ad essere uccisi. Infatti, l’ordine di cessare il fuoco per l’esercito germanico entrò in vigore in Italia alle ore 14 del 2 maggio 1945, come stabilito dall’accordo di Caserta.
Al termine del conflitto, la volontà degli Alleati di perseguire i crimini commessi nel nostro Paese dalle forze armate tedesche e fasciste durante l’occupazione – l’iniziale intenzione era di organizzare quella che doveva essere la “Norimberga italiana” – fece sì che gli inquirenti americani si occupassero fin dall’inizio di quanto era accaduto a Pedescala e a Settecà.

 


Il 6 maggio 1945 Christopher M. Woods, ufficiale britannico della Missione alleata Ruina Fluvius, che per lunghi mesi aveva soggiornato nella zona e nella stessa val d’Astico, inviava un rapporto alla commissione per i crimini di guerra, denunciando quanto segue: «Mercoledì mattina, 2 maggio 1945, una Colonna di Ss sabotatori in numero di circa 33 (altrove 300, nda) entrò nel villaggio di Pedescala e massacrò la popolazione. Essi uccisero tutti quelli che trovavano per le strade, entrarono nelle case e costrinsero il rimanente della popolazione ad uscire e li obbligarono a portare i corpi nelle case. Dopo di ciò essi chiusero le porte e bruciarono le case. In questo paese e nelle due frazioni vicine (Settecà e Forni) ci sono 73 [recte 82] corpi, uomini, donne e bambini, incluso il prete di Pedescala».

 


Il 7 giugno 1945 fu formata la commissione che si recò a Pedescala e a Settecà per interrogare i testimoni e far luce sulle due stragi. Di fatto, però, il 5 dicembre 1946 il colonnello Tom H. Barratt comunicava al War Crimes Branch che le indagini erano state chiuse il precedente 2 maggio 1946 dal momento che non risultava coinvolto personale americano o inglese e che era stato trasmesso il materiale al governo italiano.

 

Una volta in Italia il fascicolo finì in quello che viene ormai comunemente chiamato l’“armadio della vergogna”: un armadio contenente centinaia di fascicoli processuali sui crimini nazisti, “dimenticato” per decenni nei locali della Procura generale militare, a palazzo Cesi a Roma.

 

Il fascicolo relativo al massacro di Pedescala-Settecà divenne il n. 2102 recante la triste intestazione di «Contro: Piazza, Caneda [sic] (Brigata Nera) e 33 militari saldatori [sic] delle SS», che il procuratore generale militare Enrico Santacroce archiviò provvisoriamente il 14 gennaio 1960, «poiché, nonostante il lungo tempo trascorso dalla data del fatto anzidetto, non si sono avute notizie utili per la identificazione dei loro autori e per l’accertamento della responsabilità»1.

 


Dal momento che i colpevoli non furono processati e condannati, e che le uccisioni apparivano senza una valida causa, a Pedescala si formò una memoria orale, avallata anche da giornalisti del salotto buono televisivo, secondo la quale all’origine della strage ci sarebbe stata l’uccisione da parte dei partigiani di un certo numero di soldati tedeschi (sette ma a volte tre, o cinque-sei) che si stavano ritirando, desiderosi solamente di tornare a casa, dal momento che la guerra era già finita. Il loro corpo non venne mai trovato perché abilmente occultato, forse dai partigiani, forse dai loro stessi commilitoni.

 


In modo arbitrario si faceva terminare prima del tempo un conflitto che aveva causato milioni di morti, si trasformava il soldato tedesco da carnefice a vittima sacrificale, scomparivano i civili che avevano preso in mano le armi per la liberazione della propria terra e si estromettevano dalla comunità della val d’Astico i partigiani, alcuni dei quali, invece, mentre sostenevano e respingevano gli attacchi dei reparti tedeschi, avevano dovuto assistere al massacro di genitori, parenti e amici e all’incendio della propria casa. La memoria di una parte del paese sosteneva che a Pedescala non c’erano partigiani, i partigiani erano altri, provenivano da altri paesi. I partigiani erano degli assassini.

 

La locanda dei Sella e l'ambiguo Sartori

 

 

In quegli ultimi giorni di aprile del 1945 la ritirata tedesca si svolgeva attraverso la val d’Astico lungo la strada provinciale, in quanto era l’unica libera e relativamente sicura, per le numerose opere di fortificazione realizzate dalla Todt. Quindi le truppe in ritirata da Barcarola raggiungevano Forni, attraversando l’abitato di entrambi i paesi e lasciavano sulla destra Pedescala e la piccola frazione di Settecà, per raggiungere le quali occorreva attraversare l’Astico.

 

Pedescala era fornita di un ponte in cemento armato costruito nel primo dopoguerra; per raggiungere Settecà da Forni si doveva invece percorrere un ponte più simile ad una passerella. Una strada interna collega Pedescala con Settecà e con gli altri paesi che si trovano sulla riva sinistra dell’Astico. Su questa strada, ma leggermente all’interno, si trovava la locanda dei Sella, gestita da due fratelli, Augusto e Patrizio.

 

Augusto, un alpino tornato a casa dal fronte russo con un congelamento, era entrato nelle fila della Resistenza coinvolgendo il fratello e i tre nipoti: Gina, Ermelinda e il giovanissimo Giorgio, e accoglieva nel suo locale coloro che militavano nella Resistenza. Durante l’inverno ’44-’45 la locanda dei Sella aveva ospitato alcune riunioni dei vertici più importanti della Resistenza veneta, ma soprattutto era stata teatro di un’operazione di rottura all’interno della Pasubiana, una delle più importanti brigate della divisione garibaldina Garemi, con la contrapposizione tra partigiani comunisti e tutti gli altri, in particolare socialisti e azionisti.

 

Il contrasto era stato provocato da Alberto Sartori, un personaggio ambiguo, in bilico tra l’avventuriero e il combattente, che pur vantando amicizie con personaggi importanti del regime fascista come Nino Dolfin e Francesco Formenton (entrambi deputati vicentini alla Camera) o come Filiberto di Savoia Genova, duca di Pistoia e comandante dellaPrima divisione Camicie Nere XXIII marzo, protestava una militanza comunista tra i dissidenti antifascisti espatriati all’estero.2

 

Augusto Sella aveva l’incarico di intendente della brigata Pasubiana, ma a partire dal febbraio 1945 con Francesco Moro (Giobe) e Giorgio Pretto (Walter) di Pedescala, era stato staccato dalle formazioni di montagna «per espletare servizi di vigilanza e controspionaggio per conto del Comando di brigata» e insieme avevano sventato diversi tentativi di penetrazione, soprattutto da parte degli uomini del maggiore Carità che in quei mesi cercavano di infiltrarsi usando i travestimenti più svariati, persino da frate e da inglese.

 

Quattro SS italiane affiliate a Carità, Varotto, Deutsch, Desiderio Lotto

 

Nel tardo pomeriggio del 28 aprile 1945, mentre procedeva la ritirata delle truppe tedesche sulla provinciale, arrivarono alla locanda quattro uomini: tre in divisa da SS e uno in abiti civili. Erano partiti al mattino da Padova in bicicletta, proprio mentre la città del Santo insorgeva e iniziavano i combattimenti nei quartieri. Una squadra di partigiani
guidata da Umberto Zaltron (Javert) e composta da Claudio Dal Pozzo (Lampo), Augusto Sella (Franz), Giovanni Giacomelli di Augusto (Tullio), i fratelli Giovanni e Carla Slaviero, Giovanni Giacomelli di Leonardo (Nembo) e Silvio Giacomelli, li catturarono e li portarono in una grotta in una località prossima a Campolongo. Durante il tragitto due delle quattro SS riuscirono a scappare, perciò in mano partigiana ne rimasero solo due: l’italiano Silvio Varotto e il viennese Anton Deutsch.

 

Entrambi «appartenevano a un gruppo di SS italiane affiliate alla Banda Carità con sede in Padova nel quartiere Città Giardino», in via Diaz. «A capo del reparto di SS erano Desiderio Lotto e un certo Panchieri. A Padova in quel tempo il Deutsch, che parlava bene l’italiano, si faceva chiamare “dottor Antonio”». Le poche notizie raccolte fanno supporre che Deutsch, Lotto e il Varotto facessero parte di una scuola di spionaggio di SS italiane diretta dal tenente Loss, costituita da volontari che avevano il compito di infiltrarsi alle spalle degli angloamericani e poi rientrare per riferire quanto avevano osservato.

 

Questo reparto di SS italiane, di fatto, collaborava attivamente con il maggiore Carità, e con l’avvicinarsi degli alleati, prima di sciogliersi, aveva organizzato un «gruppo di sabotatori» con il compito di disturbare in tutti i modi l’occupazione alleata. A capo del gruppo vi era il «dottor Antonio» alias Deutsch e un certo tenente De Paolis, domiciliato a Vanezze di Trento, località verso la quale si stavano dirigendo le SS italiane fermate dai partigiani della val d’Astico. A Vanezze di Trento si stava recando anche Desiderio Lotto, ma per altra strada, e in Valsugana fu raggiunto da altri partigiani che lo stavano inseguendo e da questi fu giustiziato3.

 

Vicenza liberata. Americani verso Trieste. I tedeschi verso l'Altopiano. La strage dei Tasca

 

Dopo la liberazione della città di Vicenza, avvenuta quello stesso giorno, il 28 aprile, la scelta strategica del Comando americano di proseguire verso est e nord-est in direzione di Trieste lasciando scoperto il fianco sinistro, ebbe importanti ripercussioni sulle vicende degli ultimi giorni di guerra nella zona nord-ovest del Vicentino. Le truppe americane spinsero oltre Thiene solamente pattuglie dei reparti esploranti, delegando così alle brigate partigiane locali il compito di fronteggiare la ritirata delle truppe tedesche che, non sentendosi più incalzate dalle forze alleate, tentarono di organizzare seri nuclei di resistenza.

 

Nelle prime ore del mattino di domenica 29 aprile, con l’arrivo degli ultimi reparti nei paesi all’imboccatura della val d’Astico, i militari tedeschi iniziarono i lavori per posizionare le armi di accompagnamento, piazzarono le mitragliatrici con degli scavi in punti strategici di paesi come Mosson e Cogollo del Cengio. Si tratta di una manovra che male si adatta all’idea che si associa a una ritirata, intesa solamente come disfatta di un esercito e ritorno a casa dei soldati. In realtà alla ritirata, trattandosi di un’operazione militare eterogenea, sono associati alcuni interventi basilari, come ad esempio il tentativo di alleggerire con manovre la pressione dell’attaccante oppure mettere in atto tentativi per frenare l’avanzata nemica, in modo di dare tempo ai propri commilitoni di organizzarsi.

 

L’intenzione dell’esercito tedesco, come sarà evidente in seguito, era di costituire un nucleo di resistenza all’avanzata americana prendendo possesso dell’altopiano di Asiago. Infatti, durante tutta la giornata del 29 aprile 1944, le truppe tedesche cercarono in ogni modo di salire sull’Altopiano, con conseguenti scontri sanguinosi con i partigiani, talora
appoggiati dalla popolazione civile. Sul versante orientale, ad esempio, i reparti che percorrevano la val Brenta tentarono di inoltrarsi in Altopiano da Bassano attraverso San Michele e da Marostica per valle San Floriano e Vallonara. Dopo un combattimento tra truppe germaniche e partigiani che ostacolavano gli sforzi dei primi di salire in Altopiano per valle San Floriano, i tedeschi penetrarono in Via Sedea, nell’abitazione della famiglia Tasca, saccheggiarono distruggendo tutto e uccisero tutta la famiglia: padre, madre, figlia e la nipotina di cinque mesi 4.

 

Giovanna Dal Pozzo, con il marito Giovanni Pretto, gestiva a Pedescala l’osteria al Monumento. Durante gli interrogatori degli inquirenti americani, nel giugno 1945, sostenne che Antonio Caneva tornò nel suo locale il mattino del 29 aprile a chiedere un po’ di latte. Con lui c’era pure un’ausiliaria di Bolzano e Giovanna chiese alla donna quanto, secondo lei,
sarebbe durata ancora la guerra: «Mi rispose che se tutto andava male non sarebbe durata a lungo; se tutto andava bene, e alzò le spalle e finalmente disse che non lo sapeva. [...] La donna mi disse che questo luogo doveva diventare linea del fronte quando i tedeschi lo passavano e che ci sarebbe stata distruzione. Io le ho chiesto perché, dal momento che i tedeschi si stavano ritirando ed ella mi disse che avrei visto».

 

In val d’Astico, nel pomeriggio del 29 aprile 1945, avvenne un primo scontro tra i partigiani e le truppe tedesche che intendevano salire sull’Altopiano. Il combattimento doveva essere stato di una certa importanza se la Missione inglese Ruina-Fluvius 5 comunicava che alle 16.50 «la Val d’Astico è stata bloccata». Infatti «verso Barcarola la strada della vallata era bloccata dai tedeschi che sparavano, con raffiche di mitragliatrici e cannoni nella direzione del Castelletto», tanto che quattro militari reduci dai campi di concentramento che stavano tornando a casa dalla Germania, non potendo proseguire, si fermarono a Forni, ospitati dalle famiglie del paese 6.

 

Russi e ucraini della Whermacht nelle case di Pedescala

 

A partire dal 26 aprile, reparti dell’Ost-Bataillon 263, formati da volontari dell’Europa dell’est, in prevalenza russi e ucraini arruolatisi nella Wehrmacht, si erano installati nelle case e in paese a Pedescala, stazionandovi per due-tre giorni, fino a domenica 29 aprile. Si erano fermati a riposare pure diversi soldati tedeschi di altri reparti, come ad esempio i paracadutisti che avevano abbandonato Schio a piedi in tutta fretta dopo l’accordo siglato tra i partigiani garibaldini della Garemi e i comandi tedeschi. Nelle prime ore della notte, però, le truppe russe lasciarono improvvisamente Pedescala. «Alle ore una e mezzo del giorno 30», riporta la Relazione delle attività [...] del btg. Cirillo Bressan, redatta alla fine della guerra, «la truppa nemica lasciava il paese, la partenza era avvistata dal posto di vedetta, ma i continui spari rivelarono che in paese c’erano ancora dei tedeschi e russi isolati».

 

 Appena partite le truppe, un gruppo composto dai partigiani Walter, Giobe, Franz e alcuni civili penetrarono nelle abitazioni, aiutandosi in alcuni casi con scale e catturarono una ventina di soldati che stavano dormendo nelle case occupate e nell’asilo infantile: «Riuniti tutti e tre» riporta sempre la Relazione delle attività [...] del btg. Cirillo Bressan «con la collaborazione volontaria di 2 civili, entravano in paese, sempre però rimanendo nascosti non sapendo il numero della forza, con l’aiuto di scale entravano dalle
finestre delle case e riuscivano a catturare diversi soldati mentre dalle abitazioni continuavano a sparare contro di loro, ma decisi a tutto, malgrado il grande sforzo, tutti furono disarmati ed il materiale bellico catturato»7.

 

L’azione, così descritta, suggerisce che vi sia stato uno scambio di colpi fra le parti e molto probabilmente uno dei soldati tedeschi riuscì a sfuggire alla cattura. Dagli interrogatori degli inquirenti americani si desume che civili e partigiani abbiano nascosto i soldati catturati nel bunker che serviva da rifugio al comando della brigata Pasubiana quando si trovava a Pedescala. L’intera operazione ebbe termine un po’ prima delle «ore 8 del mattino stesso» allorché «ogni movimento era completamente cessato» e con la calma e il silenzio il parroco don Carlassare celebrò la Messa, senza però il suono delle campane.

 

Le truppe russe, partite dal paese durante la notte, avevano abbandonato armi e munizioni di ogni tipo ovunque, vicino alle case e sparse nelle campagne: decine di cassette di munizioni, fucili italiani modello ’91, pistole, mitragliatrici, mortai, persino un obice 305. Mentre si celebrava la Messa in chiesa, un gruppo di circa venti-trenta persone tra civili e
partigiani, oltre ad alcune donne e bambini, cominciarono a raccogliere le armi abbandonate tutt’attorno. Effettivamente, se si dice che quasi tutto il paese stava raccogliendo le armi non si è molto lontani dalla verità.

 

Lo scontro al ponte della Statale 350

 

La colonna tedesca entra in paese. Pedescala si difende. Non è stato possibile appurare l’ora precisa in quanto le testimonianze sono troppo divergenti, ma a una certo punto della mattinata, fra le nove e mezza e le dieci, al ponte che dalla strada statale 350 porta al paese, un gruppo di civili e di partigiani si scontrò con alcuni soldati tedeschi,
evidentemente un reparto di esploratori inviati in ricognizione nella previsione di occupare l’area Pedescala e Forni-Settecà, per tentare di salire sull’Altopiano dei Sette Comuni. Il gruppo che si trovava sul ponte era piuttosto consistente e composto sicuramente da Sisto Pretto, Nicola Pretto, Guido Marangoni, Augusto Sella (Franz), Francesco Moro
(Giobe), Giorgio Pretto (Walter), Giuseppe Casentini, Ferruccio Tama e diversi altri. Non si saprà mai chi sparò per primo, ma avvenne uno scontro a fuoco tra i partigiani, i civili armati e i tedeschi in prossimità del ponte.

 

Da parte tedesca non ci fu alcun morto, nonostante per settant’anni si sia discusso sul numero e sulle modalità per cercare di capire l’origine della rappresaglia. Se fosse stato ucciso un militare tedesco, i suoi commilitoni ne avrebbero raccolto il corpo, si sarebbero premurati di darne notizia alle famiglie e ai propri superiori. Se qualcuno fosse stato
ucciso a questo punto della vicenda, il Deutsche Dienststelle (WASt) di Berlino ne conserverebbe traccia, ma la rappresaglia, la ripulitura del territorio, era già stata decisa. Manilla Pretto nel suo interrogatorio, dichiarò agli investigatori americani nel luglio del 1945 che i tedeschi durante il massacro le «dissero che tutti noi dovevamo morire perché noi avevamo preso prigionieri alcuni loro uomini e raccolto armi».

 

Tra i paesani accorsi al ponte, invece, Sisto Pretto rimase ferito alla schiena. Fra il momento dello scontro al ponte e l’aggressione tedesca vera e propria a Pedescala, passò un certo intervallo di tempo durante il quale il paese si preparò alla difesa. Gli uomini capaci di maneggiare le armi si impossessarono chi di pistole, chi di mitragliatrici, chi di fucili, chi di mortai. Sul campanile della chiesa di Pedescala venne posta una sentinella, alcuni fra i più coraggiosi si attestarono in località Roncati a un centinaio di metri in linea d’aria dalla strada provinciale, altri sopra il paese in località Chiesetta del Redentore, con due mortai da 45 mm., come si evince dalle deposizioni giudiziarie. Appare chiaro che in paese era stato approntato un minimo sistema difensivo, che però non resse ai primi colpi sparati dalle truppe tedesche, meglio addestrate e con maggiore esperienza. Possiamo calcolare l’arrivo in paese della colonna tedesca intorno alle 10.45-11.00 con ragionevole certezza. 8

 

Donne e bambini fatti uscire a forza dalle cantine. Anche un Caneva fra i massacratori?

 

I reparti germanici accerchiarono il paese dividendosi in due gruppi: uno attraversò il torrente Astico su una passerella dirigendosi poi verso
Pedescala attraverso i campi che dividevano il centro abitato dalla frazione di Barcarola; l'altro, invece, proseguì lungo la statale con i cannoni. Fu posizionato un primo cannone da 88 mm sotto il ponte di Pedescala, ma tra le armi usate sicuramente vi erano dei cannoni anticarro 75 mm, mortai e mitragliatrici. I tedeschi si aprirono la strada anche con un «carro armato pesante» che passava «per le vie del paese, incendiando le case con il lanciafiamme e gettando a destra e a sinistra bombe a mano.

 

Contemporaneamente i nazifascisti penetrarono nelle case, rincorrendo i fuggiaschi e uccidendo con i mezzi più crudeli quanti riescono ad afferrare. Costringono i vivi a gettare i cadaveri sul fuoco e subito uccidono anche quelli».9 La maggior parte delle donne e dei bambini vennero fatti uscire a forza dalle cantine delle case e dai nascondigli e riuniti nel cimitero del paese, il luogo principale della raccolta delle armi. Poi furono costretti a rifugiarsi in val d’Assa.

 

Molti testimoni sostennero che tra i massacratori ci fosse anche un Caneva, senza essere in grado di specificare quale dei fratelli, il quale indicava ai tedeschi le case da bruciare. Senza dubbio è vero che, durante il massacro, qualcuno indicava le case da bruciare, ossia da punire; ma non quelle partigiane, bensì quelle nelle quali erano stati catturati i soldati tedeschi nel sonno, ed era con tutta probabilità un militare tedesco sfuggito alla cattura. A segnalarle, lo stesso che, secondo la testimonianza della moglie, durante il
massacro riconobbe, additandolo, Giovanni Pretto e lo uccise.

 

L'occupazione tedesca di Forni e Settecà

 

Contemporaneamente, le truppe tedesche procedettero all’occupazione di Forni e di Settecà. Si trattava di reparti ancora attivi ed efficienti e sistemarono tutto l’armamento di cui disponevano. Dietro le case poste a monte del paese posizionarono una decina di mortai; invece le “ventimillimetri”, le tipiche mitragliere della leichte Flak, furono poste sul piazzale del paese verso l’Astico. In cima al campanile, nella cella campanaria, due mitragliatrici furono puntate verso Castelletto di Rotzo, mentre un non meglio specificato «pezzo di artiglieria» venne collocato «a 40 metri dal monumento di Forni verso l’Astico».

 

Di fronte, ma in alto e fra le rocce, c’erano le formazioni partigiane garibaldine della Pino e, in quei giorni, anche quelle autonome della Sette Comuni. La battaglia cominciò immediatamente: «I tedeschi iniziarono subito il fuoco di tutte le sue armi» scrive Gioachino Marzarotto nel suo diario sgrammaticato «anche le armi partigiani rispondono, era
diventato un duello delle due parti opposte. Bisogna dire che a Forni i tedeschi avvevano in corso una vera battaglia con i partigiani». 10

Le truppe tedesche rastrellarono tutto il paese, casa per casa, cacciando la popolazione fuori dalle abitazioni. Si recarono prima di tutto alla locanda dei Sella a Settecà: evidentemente erano stati informati da coloro che erano sfuggiti all’agguato partigiano un paio di giorni prima. Augusto Sella, una volta abbandonato il carrettino delle armi vicino al cimitero di Pedescala, corse in direzione di casa «per vie traverse». Riuscì a raggiungere un luogo nelle vicinanze da dove, nascosto, poté vedere tutta la scena. Cinque soldati, non sapeva dire se tedeschi o italiani, si erano diretti alla locanda e nel vederli arrivare suo fratello Patrizio e il
nipote Giorgio erano scappati sul monte tra gli alberi.

 

I militari avevano preso la moglie di Patrizio, e volevano costringerla a dire dove fossero nascosti gli uomini di casa. Sentendo i tedeschi urlare e la madre piangere, Giorgio uscì e si consegnò ai soldati che rilasciarono la madre. Anche Patrizio uscì dal nascondiglio, ma i tedeschi gli spararono addosso. Come a Pedescala, anche a Forni e a Settecà tutte le donne e i bambini vennero riuniti a parte, nelle scuole comunali, mentre gli uomini rastrellati furono rinchiusi nei locali del Dopolavoro. Quando Giorgio Sella arrivò aveva i segni
delle percosse subite. Secondo un sopravvissuto al massacro, Giovanni Dalla Via, lo avevano picchiato perché dicesse dove era nascosto un graduato tedesco. Chiaramente stavano cercando il famoso Anton Deutsch.

 

I 32 ostaggi catturati, 19 morti, 7 feriti

 

I tedeschi presero una ventina di ostaggi e li obbligarono, sotto scorta, a tagliare rami con le foglie per mascherare gli autocarri che erano in vista dei partigiani. Poi, riuniti tutti insieme, alle 17 di quel pomeriggio, li divisero in due gruppi: da una parte i quindici “forestieri”, ossia sette reduci dalla Germania e otto tecnici della Todt, sedici abitanti di Forni e uno di Settecà, Giorgio Sella, per un totale di trentadue persone; dall’altra tutti gli altri. Quindi fecero uscire i 32 ostaggi e li portarono a Settecà, nella casa di Francesco Lorenzi (Bastianello) e li obbligarono ad entrare in un sottoportico usato come deposito di attrezzi agricoli.

 

Alcuni tedeschi gettarono in mezzo ai prigionieri grappoli di bombe a mano, mentre altri, dalla porta e dalle finestre, li colpivano con sventagliate di mitra ad altezza d’uomo. Dieci ostaggi rimasero subito uccisi, ma dal momento che il fuoco non si era sviluppato a sufficienza, i soldati tornarono a Forni a prendere la benzina per bruciare l’intero fabbricato e i cadaveri. Per sfuggire alle fiamme parzialmente divampate, gli ostaggi feriti e quelli illesi cercarono una via d’uscita, chi dal portone e chi, salendo al piano superiore, gettandosi
dalla finestra giù nella roggia.

 

La sentinella posta sul campanile di Forni si accorse del tentativo di fuga e diede l’allarme: i fuggiaschi vennero rincorsi in una caccia forsennata e persino i cuochi e i camerieri con urla altissime si armarono mettendosi in ginocchio per prendere meglio la mira. I morti in tutto furono 19, compreso il giovanissimo Giorgio Sella, e 7 i feriti.

 

La battaglia degli 88 mm puntati su Castelletto

 

La battaglia fra le truppe tedesche e le formazioni della Resistenza continuava sempre più violenta: il combattimento si svolgeva quasi esclusivamente tra i reparti tedeschi e i partigiani, scarsamente armati ma arroccati sui costoni di Castelletto, i garibaldini della brigata Pino al comando di Nembo, Giovanni Giacomelli di Leonardo.

 

Il giorno seguente, 1 maggio, verso le nove, alcuni soldati entrarono nel Dopolavoro e scelsero sette-otto ostaggi per collegare, con il «filo telefonico», Forni e la casa di Erminio Fabbro, la prima abitazione a destra del ponte di Pedescala. Racconta Marzarotto nel suo diario che quattro uomini dovevano portare «sulle spalle un apparecchio telefonico grosso come una bara, altri due uomini con carriole condurre dei rocchetti di filo, un tedesco sulle spalle aveva un rocchetto che camminando veniva collocato sul ciglio della strada; finito un rocchetto, subito un altro pieno di filo».

 

Il grosso «apparecchio telefonico» simile a una bara era in realtà la centrale di calcolo elettromeccanico che dirigeva il tiro per le batterie degli 88 mm tedeschi, un complicato complesso la cui forma e dimensione erano simili a una bara, appunto. In genere le batterie erano in quattro pezzi che venivano disposti a losanga, con la centrale di tiro in mezzo. Quindi, la casa di Erminio Fabbro era situata al centro, con a destra un 88 mm a Barcarola, a sinistra un altro a Forni, e davanti un 88 mm nelle vicinanze del cimitero di Pedescala e il quarto nei pressi della casa del Fabbro.

 

Del terzo sono rimaste due foto, scattate il mattino del 2 maggio 1945, che raffigurano un cannone da 88 mm, distrutto, con affusto ma senza i due assali ruotanti per il trasporto, probabilmente fatto saltare in aria collocando una carica esplosiva all’interno del pezzo e abbandonato dagli stessi tedeschi prima di lasciare Pedescala. Nelle foto si può notare che la canna era ancora orientata a colpire le postazioni partigiane collocate nella parte più elevata della strada di Castelletto.

Colpi di artiglieria tedeschi sull'aeroporto di Asiago

 

Gioachino Marzarotto vide che «sotto la casa, una sessantina di metri verso Barcarola, in una banchina a monte i tedeschi avevano un pezzo d’artiglieria che la bocca del cannone oltrepassava la strada verso l’Astico di due metri». Nel poco tempo che egli rimase fermo alla casa dei Fabbro, vide i soldati tedeschi far partire due colpi di cannone in direzione di Asiago.

 

Quel giorno anche don Luigi Trevisan, parroco di Mezzaselva, piccolo paese dell’Altopiano dei Sette Comuni, rilevava che «da Pedescala il cannone aveva cominciato a sparare verso ad Asiago» e Giulio Vescovi, comandante della brigata Fiamme Verdi, scrive nella ricostruzione di quelle giornate che «alcuni colpi di artiglieria caddero dalle parti del campo di aviazione di Asiago»11. Una così lunga gittata e le dimensioni particolarmente lunghe della canna fanno pensare ad un cannone mod.41 dell’88: questo tipo di cannone contraereo aveva appunto la canna lunga oltre sei metri e una gittata massima di quasi venti chilometri.

 

Il fronte tenuto dai partigiani raggiungeva la lunghezza di un chilometro e mezzo, ed erano schierate oltre alla compagnia garibaldina della Pino, le formazioni autonome della Sette Comuni: la 1ª e la 3ª compagnia Monte Zebio delle Fiamme Verdi. Arrivò pure la 1ª compagnia M. Lemerle comandata da Valentino Bonato (Negro), che era accorso in aiuto dei partigiani di Castelletto: «Le condizioni del tempo erano più che cattive per tre ore ininterrottamente imperversò una bufera di grandine di neve e di
vento che unita al fuoco dell’artiglieria creò una situazione assai difficile»12.

 

Proprio la bufera di neve permetteva alle truppe tedesche di conquistare terreno e avanzare; a un certo punto pareva «non fossero più ributtati dagli uomini dell’Altopiano», scrive il parroco di Mezzaselva, pertanto «sia da Rotzo che da Mezzaselva si era incominciata la fuga verso Asiago. Era una giornata fredda con pioggia e neve fredda». Si sparse la voce che da Pedescala i tedeschi stavano per salire a distruggere anche i paesi dell’Altopiano e vennero suonate a stormo le campane di tutti i paesi. Si diffusero agitazione e spavento: donne, bambini e anziani fuggirono nei boschi, ma tutti gli uomini validi, giovani e vecchi, chiesero di essere armati per difendere i propri paesi, per opporre resistenza alla colonna nemica che sembrava marciare verso Asiago.

 

«Gli uomini impugnano le armi», scrive don Marcello Lobbia, parroco di Roana: «Falso allarme dell’arrivo dei russi e tedeschi. I partigiani e tutti gli uomini capaci vegliano; si difende a Castelletto di Rotzo la posizione». Quindi a Castelletto di Rotzo c’erano partigiani e civili insieme, armati come potevano, per difendere l’Altopiano dall’attacco tedesco.
L’infiltrazione più importante venne respinta dagli uomini del Negro e i tedesco-russi vennero inseguiti fino alla valle da un reparto della compagnia Monte Zebio. Intanto a Forni, verso le 14, i tedeschi erano entrati ancora una volta nella stanza del Dopolavoro: con gli ostaggi formarono delle piccole squadre per scavare trincee sopra le case del paese,
dove vi era una serie di mortai in azione contro le postazioni partigiane.

 

Mentre a Pedescala proseguivano le uccisioni e le devastazioni, iniziò la vendetta partigiana. I prigionieri sequestrati erano stati trasferiti dal bunker alla colonia alpina Umberto I a Tonezza e «vedendo il disastro di Pedescala» riporta la citata Relazione delle attività [...] del btg. Cirillo Bressan in data 1 maggio 1945: «io Costa Giuseppe, Ivan, e Colombo, dopo un breve interrogatorio li abbiamo giustiziati», e poi li gettarono nella caverna “della Rossetta”. La vendetta si consumava anche sul lato opposto, a Castelletto di Rotzo,
da dove i partigiani vedevano tutte le operazioni dei reparti tedeschi compresa l’uccisione dei loro familiari e l’incendio della loro casa.

 

Nella mattinata di lunedì, Anton Deutsch e Silvio Varotto, le due SS italiane che erano state nascoste in una delle tante grotte della zona, furono condotti a piedi sino a Rotzo «e durante il tragitto venivano malmenati e percossi a sangue da coloro che li accompagnavano e dalle persone che incontravano sul cammino». Arrivati in paese furono uccisi. 13

 

I tedeschi bruciano le divise in un falò e se ne vanno. Vendetta partigiana a Lastebasse

 

In quello stesso pomeriggio il comando tedesco di Forni richiese tre donne che andassero a portare una lettera da consegnare al comandante partigiano Giulio con la quale chiedeva il “cessate il fuoco” e il «libero passaggio» per l’Altopiano dei Sette Comuni, minacciando di continuare la strage, con l’uccisione di altri 20 ostaggi. Dopo l’iniziale riluttanza alla fine le donne si misero d’accordo e Maria De Paoli, Rina Dalla Via e Dina Dellai, fornite di una fascia bianca al braccio e di una bandiera bianca legata in cima al
bastone, andarono a Castelletto.

 

Dopo la loro partenza, i tedeschi entrarono di nuovo nel Dopolavoro e prelevarono alcuni ostaggi per spostare il pezzo di artiglieria posizionato a quaranta metri dal monumento di Forni verso l’Astico, e lo sistemarono fra due case, puntandolo ancora verso Castelletto. Gli ostaggi, insieme ai soldati, presero delle grosse botti di vino vuote, le
riempirono di terra e ne misero due da un lato e due dall’altro del cannone; poi trasportarono delle granate, che vennero messe vicine al pezzo. Ad un certo punto della notte, anche se le tre donne non erano tornate da Castelletto, i soldati tedeschi, accesero un grande falò con il quale bruciarono le divise, radunarono tutte le armi sparse per il paese e le caricarono sugli autocarri. Quindi, senza attendere la risposta del comando partigiano, improvvisamente le truppe tedesche se ne andarono.

 

Diversi indizi sembrano indicare che giunse improvviso l’ordine di ritirarsi poiché la guerra era finita. Sia a Forni che a Pedescala il movimento degli automezzi tedeschi in
partenza durò per tutta la notte, fino all’alba. L’ultimo gruppo di soldati germanici incendiarono a Pedescala le ultime case che erano state occupate dal loro Comando e uccisero l’ultima persona, Giovanni Pretto. Le ricerche condotte al Deutsche Dienststelle (WASt) di Berlino dimostrano che quella mattina i partigiani stavano seguendo le azioni dei tedeschi fin dalle prime luci dell’alba, e che li inseguirono attraverso l’alta Val d’Astico, fino ai Nosellari, aspettando che fossero fuori dell’abitato di Lastebasse per assalire la retroguardia tedesca e massacrarla. Tre soldati russi, due dei quali in parte carbonizzati, furono uccisi nel comune di Lastebasse in località sconosciuta, ma ai Busatti, l’ultima contrà vicentina, vennero aggrediti e uccisi il sottotenente Werner Engel, i caporali Josef Bitterwolf, Kurt Willi Otto e Rudolf Schöbel, e Valentin Franz Erich Urlaub, tutti e cinque appartenenti alla 13ª Kompanie Grenadier-Regiment 289 della 98ª Infanterie Division. Vennero catturati anche due poliziotti sudtirolesi, appartenenti all’SS Polizei Regiment Schlanders; Rudolf Novak o Nowak, conducente di mezzi pesanti appartenente all’organizzazione Todt e Rupert Waldhuber, paracadutista della 4ª Fallschirmjäger Rgt. 3, i quali furono portati in paese a Pedescala.

 

Arrivo e azione dell'ambiguo Sartori. L'impresario Stefani, liberato, il reggente del Fascio, Bonifaci, ucciso

 

I reparti partigiani a un certo punto si fermarono, perché ci fu una reazione delle truppe germaniche ai Nosellari. È probabile che, accorgendosi di quanto avveniva alla retroguardia, la colonna dei massacratori abbia reagito. L’ultimo scontro avvenne a Casotto, dove in località Molino le formazioni partigiane, retrocedendo, avevano organizzato la difesa. Durante il combattimento furono uccisi altri due soldati tedeschi sconosciuti, ma la notizia che le truppe tedesche stavano tornando indietro allarmò i comandi partigiani che rinforzarono nuovamente Castelletto di Rotzo.

 

Alle nove del mattino del 2 maggio, partita la retroguardia, i sopravvissuti cominciarono a uscire dai propri nascondigli: «escono tutti i superstiti ed hanno davanti a loro la triste realtà; ognuno cerca fra i mozziconi (leggi tizzoni) ancora ardenti di riconoscere i propri famigliari». Anche i partigiani della brigata Pino e della brigata Pasubiana si precipitarono a portare soccorso e a verificare le reali dimensioni di quanto accaduto. Alcune delle case incendiate erano anche loro.

 

Quel giorno, nel tardo pomeriggio, dal basso Vicentino giunse a Pedescala Alberto Sartori, a bordo di un'auto nera con davanti una targa con la scritta “Ispettore di zona”. Dopo aver cercato senza risultato il podestà di San Pietro in Valdastico, Giuseppe Stefani col figlio Ernesto, si recò a prelevare il fratello Adolfo Stefani, impresario ritenuto (dal Sartori)
collaborazionista, e lo fece salire in auto partendo a forte velocità. Poco dopo Sartori si bloccò, scese dall’auto, sparò una scarica in aria e lo lasciò libero. Mentre Stefani ritornava a casa, Sartori si fermò all’abitazione di Narciso Bonifaci, reggente del Fascio repubblicano del paese e titolare di un negozio di alimentari. Lo prelevò, lo portò in piazza e con una raffica di mitra lo uccise. Il Sartori risalì in macchina e, velocemente com’era arrivato, ripartì per Lonigo. Nel dopoguerra egli venne condannato dalla Corte d’Assise di Vicenza, pena condonata e non amnistiata, ma l’uccisione di Bonifaci innescò una dura polemica durata decenni tra i fascisti di Pedescala o meglio, tra i familiari del Bonifaci e i partigiani sostenitori del Sartori che ha alimentato per decenni l’odio tra le parti. 



I giorni della perdita della ragione. I quattro fascisti bastonati a sangue e uccisi

 

Vennero i giorni della vendetta, ma soprattutto della perdita della ragione. Il 3 maggio, alcuni partigiani di Schio prelevarono diciotto fascisti, tra quelli ritenuti più colpevoli, li portarono in camion fino ad Arsiero e poi li fecero proseguire a piedi fino a Pedescala con l’intenzione di fucilarli. Una volta arrivati in paese, sembra per l’intervento di un militare inglese, furono riportati indietro ad Arsiero dove trascorsero la notte. Ma il mattino seguente, di buon’ora, cinque di loro furono riportati a Pedescala, dove «diversi uomini e diverse donne, più queste che quelli» scrive don Bruno Bareato, vicario economo «sfogarono la loro vendetta provocata dalla disperazione per la perdita dei congiunti». I cinque fascisti «furono bastonati a sangue, insultati, fatti passare per le vie del paese affinché ciascun pedascalese potesse sfogare la propria vendetta. Quattro furono nello stesso giorno uccisi a furor di popolo. Il quinto riuscì a sfuggire».

 

I quattro fascisti uccisi erano Riccardo Roso, Antonio Mioli, Anselmo Canedi e il giovane Domenico Marchioro. «I loro corpi furono dapprima sepolti lungo la Val d'Assa alla rinfusa e senza cassa. Ma poi furono esumati e sepolti con cassa a pochi passi dal cimitero [...]. I congiunti dei repubblicani vennero due volte per trasportare le salme nel loro cimitero, però furono dalle donne, ancora esasperate dal dolore, respinti con minacce e con offese. Solo alla terza volta riuscirono nella loro impresa per l’intervento del comando alleato di Arsiero».

 

«La stessa sorte», aggiunse ancora don Bareato nella sua relazione, «toccò ad altri 5 o 6 tedeschi» che erano stati catturati dai partigiani e da questi consegnati alla folla furente. In base alla documentazione conservata al Deutsche Dienststelle (WASt) di Berlino, Rudolf Novak era stato trovato seppellito a Ronchi di Pedescala, mentre risultavano sepolti al Folo, dove erano state portate le carcasse delle bestie bruciate nelle stalle del paese, due soldati tirolesi appartenenti alla polizia. Sicuramente non tutti i corpi sono stati ritrovati. Come quello, ad esempio, al quale apparteneva la piastrina di riconoscimento ritrovata a Pedescala, e corrispondente a Waldhuber Rupert del 14º Fallschirmjäger Rgt. 3.

 


NOTE

1 Pmvr (Archivio della Procura Militare di Verona), Pgm, fasc. n. 2102 contro: Piazza,
Caneda (Brigata Nera) e 33 militari saldatori delle Ss, c. 1, contenuto in Pmpd, fasc.
31/96, 1501/96, 347/99 procedimento penale a carico di Caneva Bruno Carlo [et
al.], 180/2005/ARCH.PM, per: a) violenza continuata mediante omicidio
pluriaggravato commesso contro privati; b) concorso in incendio e distruzione
continuato e aggravato.

2 AF Nordera Busetto, fasc.7.1.2, Pci - Biografie autobiografie, Biografia di Alberto
Sartori, datata 8 marzo 1948 per la candidatura alle elezioni politiche del 18 aprile
1948 e AMRRVI, Fondo Sartori, b. a. 1945, Biografia di Alberto Sartori (Carlo, Loris)
inviata alla Direzione del P.C.I. da Milano il 2 giugno 1945; vedi anche b. a. 1939-
1944, Bozza dattiloscritta senza data e senza altra indicazione.

5 AIVSREC, PRO WO, 204/7299, «Following from Ruina. 29 april 16:50 hours».

6 CasVI, fasc.5/47, 176/47 procedimento contro Victor Piazza, verbale di istruzione sommaria del 28
agosto 1945 di Dalla Via Giovanni fu Giuseppe, CAS di Vicenza, in APVR, PMPD, fasc. 31/96, 1501/
96, 347/99, cit.

7 Mrrvi (Archivio del Museo del Risorgimento e della Resistenza di Vicenza), Sartori, b. 1945,
fasc. Aprile 1945, Relazione delle azioni militari compiute dagli uomini del Battaglione
“Cirillo Bressan” dall’8 settembre in poi. Lo stesso documento in fotocopia, ma privo di
talune correzioni in Bcschio (Biblioteca Civica di Schio), Dalla Ca’, b. 24 II, carte Boscagli,
Battaglione Cirillo Bressan, Azioni compiute da questo Btg. dal 14 luglio 1944.

8 APVR, PMPD, fasc. 31/96, 1501/96, 347/99, cit., Processo verbale di s.i.t. rese da
Moro Francesco il 10 ottobre 1996; Ricostruzione anonima senza data e senza firma
[ma Lodovico Agostini (Argo)]; Processo verbale di s.i.t. di Alberto Giacomelli reso il
23 gennaio 1989 presso il Comando stazione dei Carabinieri di Valdastico.

9 APVR, PMPD, fasc. 31/96, 1501/96, 347/99, cit., ricostruzione anonima senza
data e senza firma, [ma Lodovico Agostini (Argo)].

10 Diario di Gioacchino Marzarotto, manoscritto di proprietà di Luciano Zambon e
Diario di Gioacchino Marzarotto, in APVR, PMPD, fasc. 31/96, 1501/96, 347/99,
cit. Del Diario esistono due copie manoscritte, molto simili ma non identiche,
entrambe scritte su un quadernetto a righe. Una, di proprietà di Nando Canale,
venne consegnata in copia alla Procura militare di Padova durante le indagini.
L’altra, di proprietà di Luciano Zambon di Forni, venne pubblicata in tre puntate su
un periodico vicentino, La Domenica, nel marzo del 1998 con alcuni errori vistosi e
taluni interventi arbitrari del giornalista che aveva pensato in questo modo di
renderlo più leggibile al largo pubblico. Le pagine, infatti, sono scritte in uno
sgrammaticato dialetto vicentino, anche se la scrittura non è omogenea.

11 Gios P., Clero guerra e resistenza nelle relazioni dei parroci, Tipografia Moderna,
Asiago 2000, p. 90; Vescovi G., Resistenza nell’Alto Vicentino. Storia della divisione
alpina Monte Ortigara 1943-45, La Serenissima, Vicenza 1994, p.189.

12 Istrevi, La resistenza a Vicenza, sottosez. La divisione partigiana Monte Ortigara,
b. 11, Varie. Relazioni finali delle compagnie della Sette Comuni nel periodo
insurrezionale, Relazione Terza compagnia Monte Zebio e Relazione Brigata Fiamme
Verdi, 1ª compagnia M. Lemerle – attività svolta.

13 Il Gazzettino di Vicenza, 18 gennaio 1949, p.2; Il Giornale di Vicenza, 19 gennaio 1949, p.2.

14 ATrVI, RSPCA, Sent. n.4/56 Reg. Sent., n.5/55 Reg. Gen. del 29/2/1956 contro
Alberto Sartori, Giuseppe Costa, Giuseppina Rina Lorenzi, Maria Maddalena
Slaviero.Il Giornale di Vicenza, 28 febbraio 1956, p.3 e 1 marzo 1956, p. 3.

15 Gios P., Clero guerra e resistenza nelle relazioni dei parroci, Tipografia Moderna,
Asiago 2000, pp.107-108, relazione del vicario economo don Bruno Bareato.