STORIA VENETA ILLUSTRATA DALLE ORIGINI ALLA FINE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA

 

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PER OTTENERE LA REVOCA DELLA SCOMUNICA

 

VENEZIA SI UMILIA COL PAPA

 

Una scomunica non è solo un fatto morale ma può diventare anche fatto economico oltre che politico. E Venezia, isolata dall’ostilità del pontefice, voleva a tutti i costi recuperare credito negli scambi con l’Occidente. Così il suo ambasciatore ebbe la buona idea di dimostrarsi umile nel chiedere perdono...

 

 

L’immediata conseguenza di portata storica della congiura Querini-Tiepolo del 1310, fu senz’altro l’i­stituzione del Consiglio dei Dieci, una sorta di comitato di salute pubblica composto da dieci membri che operavano in strettissimo rapporto con il doge ed i suoi più stretti consiglieri. I decreti emanati da questo nuovo organo, diretta emanazione della volontà ducale, rispondevano alle esigenze di celerità ed efficacia ed avevano come scopo principale quello di ripristinare per allora e per il futuro di mantenere l’ordine a Venezia.

 

Da provvisorio infatti, dovuto alle circostanze eccezionali e drammatiche della congiura, il Consiglio dei Dieci divenne uno degli organi vitali e irrinunciabili della vita politica della Serenissima, fino alla sua caduta. Ma un’al­tra ben più grave conseguenza nata dagli accampati diritti del doge Gradenigo su Ferrara, pesava ancora sulla città: la scomunica papale.

 

Quando il vecchio doge morì nel 1311 Venezia tirava tutto sommato un sospiro di sollievo vedendo aprirsi la possibilità di un governo più conciliante con il Pontefice Clemente V che non aveva dimenticato certo la faccenda. Questa profonda esigenza di pace portò probabilmente sul trono ducale in un breve arco di tempo due insignificanti dogi: l’anziano senatore Stefano Giustinian, che fuggì in monastero alla notizia dell’elezione, e Marino Zorzi, detto il Santo, che dopo un breve periodo di governo passò a miglior vita nel 1312.

 

In quel medesimo anno saliva così al trono un altro uomo di azione, Giovanni Soranzo che nel 1296 durante la guerra con i Genovesi aveva conquistato l’importante città por­tuale di Caffa. Al Soranzo era stato anche affidato il comando del contingente veneziano che avrebbe dovuto respingere l’assalto delle truppe pontificie a Ferrara, subendo invece una cocente sconfitta.

 

Alle glorie militari più o meno brillanti del nuovo doge, si contrapponeva un’unica ombra che ne fece probabilmente ritardare la sua elezione sul trono ducale. Sua figlia infatti aveva spo­sato un figlio di Marco Querini, andando così ad imparen­tarsi proprio con una delle famiglie protagoniste della recente congiura di Bajamonte e dello stesso Querini.

 

La sua elezione tuttavia, proprio per questa pericolosa parentela, sembrava dimostrare il mutato clima della città, un clima di ritrovata conciliazione dopo tanta ten­sione. E il suo ducato durato ben 16 anni, in questo senso non deluse. Il più grave problema che il nuovo doge si trovò ad affrontare e che affliggeva la città ormai da cin­que anni, era la scomunica papale.

 

La questione venne finalmente risolta proprio dal Soranzo che riallacciò immediatamente dopo la sua elezione le trattative diplo­matiche con il Papa. Il provvedimento di Clemente V stava procurando a Venezia non pochi problemi di ordine spirituale, ma non solo. Nella città infatti, a causa del provvedimento, non si potevano celebrare riti o funzioni sacre, nessuno poteva rendere testimonianza o redigere testamento e, cosa ancor più grave, i cittadini venivano sciolti da ogni obbligo di fedeltà al doge.

 

Non solo. Ciascuno di essi poteva essere fatto schiavo da chiunque avesse voluto senza per questo venirne punito. E ancora: i traffici con gli altri paesi cristiani erano interdetti – vita­le si dimostrerà allora l’accordo commerciale firmato da Venezia in quegli anni col Sultano d’Egitto –, mentre tutti i precedenti trattati in materia commerciale venivano annullati. II provvedimento di scomunica, come ben si nota, non andava quindi a colpire solo l’aspetto spirituale e religioso della comunità lagunare, ma l’intera sua atti­vità politica ed economica in particolare.

 

Ben s’intuisce come ormai dopo cinque anni, la scomunica stava diven­tando per la città un vero e proprio cappio al collo che andava facendosi con il tempo sempre più stretto. E così, allo scopo di risolvere definitivamente l’annosa e delicata questione, il doge aveva spedito alla corte avignonese del Papa uno dei suoi più fidati ed abili ambasciatori, Francesco Dandolo, detto “Cane”, curioso soprannome già portato da un suo antenato.

 

All’ambasciatore venezia­no presentatosi presto ad Avignone, fu tuttavia inizial­mente negata la possibilità di avere un colloquio con il Sommo Padre, che molto probabilmente voleva verificare, dopo cinque lunghi anni, la sincerità e la reale volontà del governo veneziano.

 

II Dandolo non si perse fortunata­mente d’animo e dopo una lunga attesa, umilmente, ma anche con vera abilità diplomatica, riuscì a far togliere l’interdetto e la scomunica sulla propria città. Sulla circo­stanza che portò a questo insperato successo diplomatico del Dandolo, le fonti sono però discordi. C’è chi racconta infatti che più che per l’eloquenza dell’ambasciatore vene­ziano il Papa si sia fatto convincere delle mutate intenzio­ni di Venezia da un estremo atto di umiliazione dello stesso Dandolo.

 

Questi, non riuscendo ad avere l’incontro con Clemente V, gli si presentò improvvisamente ed ina­spettatamente durante la mensa con una corda (forse una catena) al collo. Così conciato il veneziano si sarebbe poi gettato ai piedi dell’incredulo ed attonito Pontefice come atto di vera umiltà, chiedendo, supplicandolo affin­ché perdonasse il suo popolo. II Papa, ottenuta l’estrema umiliazione e con essa la prova definitiva delle vere inten­zioni del governo ducale – che infatti ritirò le sue truppe da Ferrara e rinunciò ad ogni pretesa – revocò finalmente la scomunica.

 

Le cose, tuttavia, non sembra si siano limitate al generoso atto di prostrazione del Dandolo. Venezia aveva ostinatamente e superbamente resistito alla scomunica: doveva in qualche modo pagarla. E il governo veneziano pagò letteralmente il suo peccato.

 

La revoca papale infatti, gli costò ben 90.000 fiorini d’oro, una somma esorbitante per le magre casse dello Stato e resa ancor più pesante dalla cavillosa ostinazione del Pontefice sulla valuta che doveva essere rigorosamente il fiorino d’oro. A mali estremi, estremi rimedi, naturalmente. II governo veneziano, infatti, con un prestito forzoso del 3% su tutti i redditi indistintamente e con la minaccia ai locali banchieri fiorentini della immedia­ta espulsione se non avessero fornito i 90.000 fiorini ad un cambio ragionevole, riuscì a racimolare l’ingente somma a far così finalmente revocare la pesante scomunica. L’anima e i commerci dei Veneziani erano salvi.