STORIA VENETA ILLUSTRATA DALLE ORIGINI ALLA FINE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA

 

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MUORE CARLO ZENO IL SALVATORE DI CHIOGGIA

 

UNA CITTà IN LUTTO ONORA IL SUO EROE

 

Dopo essere stato osannato quale salvatore della patria in occasione della “guerra di Chioggia” contro Genova, il comandante Zeno subisce anche un processo per alto tradimento prima di ritirarsi a vita privata e morire quasi novantenne e pressoché dimenticato dai più.

 

 

Il 6 maggio del 1418 durante il dogato di Tommaso Mocenigo, moriva a Venezia il comandante Carlo Zeno. Era la morte di un mito. Eppure l’eroe della guerra di Chioggia, colui che più di qualunque altro aveva speso la sua vita al servizio della Repubblica, moriva solo, quasi novantenne e pressoché dimenticato dalla stessa sua città. Eppure lo Zeno aveva più di un motivo per essere invece degnamente ricordato.

 

Nato a Venezia nel 1334, durante la sua lunga permanenza in Oriente era riuscito ad assicurare a Venezia la preziosa isola di Tenedo contro le pretese genovesi; dopo il tentati­vo di liberare l’anziano imperatore bizantino Giovanni Paleologo, filo-veneziano ma tenuto prigioniero dal figlio usurpatore e filo-genovese, lo Zeno aveva tenacemente ed ossessivamente dato la caccia alle stesse navi genovesi in Levante inseguendole se necessario fino alle porte di casa, nel golfo di Genova; il suo intervento si rivelò mira­colosamente determinante, poi, nella guerra di Chioggia dove i veneziani mai videro così prossima la fine e proprio per mano dell’odiatissima repubblica rivale, Genova.

 

Era il 1380, l’apice del successo e della notorietà per lo Zeno, acclamato quale salvatore della patria accanto al suo doge. Alla morte, poi, dell’altro grande ammiraglio vene­ziano, Vittor Pisani, il 15 agosto di quel medesimo anno, lo Zeno venne nominato Grande Ammiraglio della mari­na veneziana, nomina che venne prontamente onorata con la ripresa della lotta contro Genova.

 

Alle continue vit­torie – celebre quella di Modone nelle acque di Creta con­tro una flotta franco-genovese nel 1403 –, seguivano pun­tuali nuovi titoli, nuovi riconoscimenti: ammiraglio, “advocator de comun”, Procuratore di S.Marco e amba­sciatore. Già, perché accanto alle doti militari non manca­vano allo Zeno anche le qualità diplomatiche.

 

In questa veste trattò per conto del senato veneziano con il signo­re padovano Novello da Carrara, la sua resa e quella della sua città successivamente conquistata dai venezia­ni nel 1405. Eppure, la caduta del carrarese, si rivelò fatale anche per lo stesso Zeno, per la sua persona innan­zitutto e per la sua memoria che conobbero l’onta del sospetto di tradimento.

 

Queste le circostanze. Catturati Novello e il di lui figlio Francesco, i due vennero tradotti quali prigionieri nelle prigioni veneziane dove dopo lun­ghissime discussioni in Senato sul da farsi, vennero fret­tolosamente strangolati nelle loro celle. Si iniziò così a setacciare l’archivio, i documenti e le carte del signore padovano dove vennero scoperte alcune annotazioni com­promettenti due nobili veneziani e lo stesso Carlo Zeno. Si trattava di una ricevuta testante un versamento di 400 ducati d’oro da parte del da Carrara al comandante veneziano.

 

Si può ben immaginare la sorpresa, lo sconcer­to e l’incredulità che dovette suscitare la scoperta quan­do ben presto divenne di pubblico dominio. Carlo Zeno, l’infaticabile comandante che da sempre aveva dimostra­to la sua più totale ed incondizionata devozione alla sua Repubblica, era dunque caduto nella trappola della cor­ruzione nemica e per soli 400 ducati?

 

Non era possibile e molto probabilmente, infatti, non si trattò affatto di tradi­mento dietro compenso. Data comunque la gravità della faccenda, la questione finì davanti ai membri del Consiglio dei Dieci, dove lo Zeno venne chiamato a rispondere. II comandante venne trattato come un qua­lunque malfattore ed iscritto agli atti del Consiglio che alla fine decise di condannarlo a un anno di carcere oltre che all’interdizione dai pubblici uffici.

 

La sentenza tutta­via, pur nella sua esemplarietà non sembra corrisponde­re affatto al sospetto di un possibile tradimento da parte dello Zeno che sicuramente non venne condannato con questa motivazione. Molto probabilmente quel denaro era una semplice restituzione di un prestito fra due priva­te persone che lo Zeno aveva fatto in precedenza al da Carrara. I soldi, infatti, non vi è alcun dubbio che lo Zeno li abbia veramente incassati. Anche coloro che nel Consiglio infatti votarono per la sua assoluzione, lo obbli­garono comunque a restituire i 400 ducati all’Erario della repubblica dato che a suo tempo non erano stati denun­ciati.

 

Restava tuttavia, la leggerezza con la quale lo Zeno aveva intrattenuto con il da Carrara rapporti finanziari, una leggerezza che andava comunque punita a prescin­dere dalla eccezionalità del personaggio, anzi! La ferrea macchina giudiziaria della repubblica non ammetteva eccezioni di all’una sorta! Poco contavano i meriti, i servi­gi resi nell’arco di un’intera vita al governo veneziano.

 

Lo Zeno aveva peccato d’imprudenza (e di evasione fiscale!), doveva necessariamente pagare. La sua condanna, tanto più esemplare dato il calibro del personaggio, doveva essere la prova della solidità e dell’imparzialità del siste­ma su cui reggeva la stessa repubblica e dalla cui solidità ed efficienza dipendeva la sua stessa sopravvivenza. Riacquistata finalmente la libertà dopo un anno di prigione, lo Zeno salpò immediatamente alla volta della Terrasanta, ma questa volta non in veste di soldato, ma di semplice pellegrino.

 

Ancora una sola volta doveva scendere in mare con le sue navi contro i genovesi, ma non certo per ordine del governo veneziano. Era il 1410 quando lo Zeno infatti, sconfisse le navi nemiche su com­mittenza del re di Cipro. Per Venezia Carlo Zeno non impugnerà mai più le armi. In città vi ritornò solo per ritirarsi finalmente nella pace della propria casa e della propria famiglia (lo Zeno era al suo terzo matrimonio).

 

Alla foga della armi da allora lo Zeno si dedicò ai più con­cilianti studi letterari – da sempre, pare, una sua segreta passione – frequentando i circoli più dotti di Venezia fino al giorno della sua morte. Solo allora Venezia sembrò ricordarsi del suo audace e valoroso comandante al quale vennero riservati solenni funerali di Stato alla presenza del doge. Il nipote, autore di una sua biografia, narra che “sul suo corpo veduto ignudo si scoprì rivestendolo una quantità di cicatrici per le quali si era fattamente deformato che appena una parte si poteva dire libera dalle ferite e ne furono nume­rate 35 delle quali molte apparivano essere state grandi e mortali”.