QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Maggio 1981 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
 
 
Volume XIII
[da pag. 659 a pag. 676] 

 


“AMBIENTE CATTOLICO” E RESISTENZA

di E. Trivellato

 

 

 

Un insieme di motivi, che storicamente vanno ricondotti al movimento operaio scledense ed al ruolo di un partito comunista che fu sempre presente a Schio anche durante il ventennio, portarono al costituirsi nella nostra zona di un movimento partigiano, la cui promozione ed organizzazione fu prevalentemente in mano di elementi comunisti.

 

 

La brigata “Martiri della Val Leogra” (poi divisione) ed i suoi cinque battaglioni (Apolloni, Ramina, Barbieri, Ismene, Fratelli Bandiera) appartengono infatti alle garibaldine BRIGATE D’ASSALTO GAREMI e ne formano il nucleo più consistente.
A differenza di altre zone italiane non si costitutì a Schio ed in Val Leogra una formazione partigiana alternativa autonoma, che probabilmente avrebbe raccolto le forze cattoliche o non definite politicamente.

 

 

Si ebbe invece una convivenza ed una comunione di intenti, a livello di C.L.N. e di azione armata, che possiamo considerare abbastanza pacifica, anche se tra le pieghe delle testimonianze non ho mancato di rilevare qualche contrasto o incidente.

 

In riguardo ai “Comunisti”, locali e d’importazione, è sempre attuale uno studio dei loro modi di conduzione della guerriglia e della Resistenza civile, sia nei rapporti interni che nei comportamenti verso le innumerevoli altre forze in lotta (tedeschi, fascisti, missioni alleate, cattolici, azionisti, indipendenti, formazioni autonome viciniori)

 

 

Nel caso dei “Cattolici” è altrettanto interessante uno studio dei modi di convivenza e dello spazio e ruolo che ebbero a Schio ed in Val Leogra, tenendo presente che non si può prescindere da una visione più generale del problema, in ambito regionale (Conferenza episcopale), provinciale (Vescovo), locale (Arciprete).

 

 

 

Per alcuni eventi ben determinati si rinvia ad altri capitoli dei Quaderni. Qui l’argomento dei rapporti fra “ambiente cattolico” e Resistenza è stato affrontato in termini piuttosto generali (cfr. anche il capitolo “Borghesia scledense e Resistenza a pg. 554).

 

 

I.
IL VESCOVO DI VICENZA

 

 


Il nuovo Vescovo Carlo Zinato, nativo di Venezia, fece il suo ingresso a Vicenza proprio nel pomeriggio del 7 settembre 1943 e si trovò così subito coinvolto il giorno dopo – l’8 settembre – in uno dei periodi più tragici e confusi della storia italiana.

 

L’occupazione tedesca, il ritorno di Mussolini a capo della R.S.I., la situazione degli ex militari sbandati e l’incipiente Resistenza erano problemi gravi , che richiedevano una risposta ed una linea di comportamento sia da parte del clero che dell’ambiente cattolico. 

 

Già il 17 settembre a Vicenza nella Casa del Clero ebbe luogo la prima adunanza dei Vicari foranei per discutere sulle difficoltà del momento: il documento ufficiale risultò di necessità abbastanza generico, improntato ad una cosciente responsabilità ed al senso di carità, ma dobbiamo ritenere che fra i prelati vi fu soprattutto uno scambio di notizie sulla situazione in Provincia ed una discussione orientativa sull’atteggiamento da assumere in un frangente così confuso.

 

Nessuno aveva probabilmente formule risolutive, perché molto dipendeva dal comportamento dei Tedeschi e dei Fascisti e dal volgere degli eventi nell’Italia settentrionale. Tuttavia ben presto fu chiaro il nucleo del problema: da una parte Tedeschi e Fascisti cercavano di esercitare delle pressioni sul Vescovo e sul Clero per ottenere una “collaborazione”, dall’altra il Clero e buona parte dell’ambiente cattolico cominciavano invece a manifestare o freddezza o dichiarata ostilità, che irritarono subito sia i Tedeschi che i Fascisti. 

 

Il Vescovo Zinato si trovò quindi a dover tenere calmi sia gli uni e gli altri, né sarebbe stato ragionevole fare diversamente, poiché un suo atteggiamento “duro e ostile”, alla Rodolfi, contro le Autorità del momento gli avrebbe impedito poi ogni trattativa, allorquando qualche sacerdote o laico fosse finito in carcere per essersi immischiato nella lotta.

 

A mio parere una tale linea di condotta del Vescovo non fu apprezzata né dai Tedeschi e Fascisti né da quella parte del Clero e dell’ambiente cattolico che si era inserito decisamente nella Resistenza; ciò si può in parte ritrarre da una lettura tra le righe distaccata di G.B. Zilio (Il clero vicentino durante l’occupazione nazifascista, Vicenza, 1975), malgrado i pareri discordanti che il libro suscitò a suo tempo per la difficoltà, vastità e complessità dell’argomento.

 

Una posizione più definita venne assunta dal Vescovo, e per esso dai dirigenti di Azione Cattolica, nella Consulta diocesana del 15 novembre 1943: “Direttive. Dal pensiero religioso il Vescovo trae delle pratiche direttive improntate alla gravità dell’attuale situazione. Gli iscritti all’Azione Cattolica devono tenersi al di fuori di ogni competizione. Ciò non significa fredda indifferenza, ma fattivo contributo di equilibrio e di carità cristiana. Nessun iscritto, e meno ancora se dirigente, può assumere come tale, attività partigiane. Dopo una vivace discussione, tutti convengono nel principio, riconoscendone la opportunità e la giustizia, pur facendo osservare la difficoltà di attuarlo nel campo pratico e di controllare l’attività specifica dei soci”.

 

La posizione e le direttive del Vescovo e dei dirigenti dell’Azione Cattolica erano chiare: tenersi al di fuori di ogni competizione e non assumere attività partigiane: una chiarezza “ufficiale” che consentiva al Vescovo possibilità di manovra con le Autorità tedesche e fasciste.

 

Una parte del Clero e parecchi laici dell’ambiente cattolico presero alla lettera queste direttive, alcuni per paura di mettere in pericolo la propria incolumità personale, altri forse per residui di simpatia verso il vecchio Fascismo visto ancora come tutore dell’ordine e della legalità.

 

Dalle molte testimonianze raccolte a Schio ed in Val Leogra presso la base partigiana, comunista e non comunista, ho avuto modo di sentire accanto ai sinceri riconoscimenti verso molti parroci, anche qualche commento critico sull’astensionismo di alcuni altri.

 

Vi furono critiche soprattutto al fatto che alcuni parroci o cappellani non vollero affrontaqre e discutere il problema della difficile scelta giovanile del momento: presentarsi alla R.S.I., restare renitenti alla chiamata alle armi, inserirsi nelle formazioni partigiane.

 

Un’altra parte del Clero e dell’ambiente cattolico percepì invece che, tra le pieghe dei documenti ufficiali, si dava già per scontata la difficoltà di attuare nel campo pratico l’astensionsimo politico e che, nella sostanza, ognuno avrebbe dovuto agire di testa sua. 

 

Si verificò infatti che molti sacerdoti di più vivace intelligenza “politico-sociale”, specie nell’ambiente del Seminario e dei Collegi vescovili, si inserirono con foga e convinzione nel movimento resistenziale e furono promotori e animatori di iniziative e di rapporti con i laici della Resistenza cattolica vicentina, ciò forse in contrasto con l’atteggiamento moderatore del Vescovo.

 

Un altro ambiente del clero che si mosse a favore dei partigiani in modo inequivocabile e pericoloso fu quello minore dei parroci e dei cappellani dei paesi di campagna e di montagna, che erano a contatto più diretto con la violenza tedesca e fascista e con la situazione drammatica dei partigiani del luogo, giovani che conoscevano spesso fin dal battesimo e verso i quali erano naturalmente portati a dare un aiuto caloroso.

 

Si ebbe probabilmente una scissione tra “ufficialità vescovile”, e l’”ambiente cattolico reale” e questo venne a creare una certa ambiguità, un certo gioco su due staffe, che fu subito sgradito ai Fascisti e suscitò in essi una notevole irritazione.
Una conseguenza si ebbe anche all’interno dello stesso movimento resistenziale cattolico, che probabilmente risentì di questa azione frenante dall’alto. E’ nota l’accusa di attendismo, da parte dei Comunisti, i quali invece, in tema di Resistenza, non avevano alcuna rèmora.

 

Il problema della differenza operativa tra i due movimenti resistenziali, autonomo e comunista, ha suscitato nell’ambiente vicentino nel dopoguerra una lunga polemica (“Rapporto Garemi” di Aramin e “In risposta al Rapporto Garemi”) che non ha ancora trovato una pacata composizione e che è quindi rimasta “in sospeso”.

 

Forse si è data eccessiva importanza critica ad alcune persone, fatti e comportamenti, da una parte e dall’altra, e non è stata sufficientemente studiata e approfondita invece la diversa “mentalità” e di conseguenza i differenti modi di condurre la guerriglia.

 

Prima infatti di giudicare, ed ogni giudizio è sempre discutibile e provvisorio, mi sembra giusto comprendere i motivi complessi che stanno alla base dei comportamenti in esame.

 

Anche la ipotizzata azione frenante vescovile, sostanzialmente inascoltata, non fu determinante, a mio avviso, e comunque fu di effetto differenziato nei vari ambienti, zone e parrocchie della Diocesi.

 

Di maggiore significato, nel caso del Clero e dell’ambiente cattolico, mi sembra la “crisi di coscrienza”suscitata da una guerriglia armata: scontri ed uccisioni, eliminazione di fascisti e di spie, messa in pericolo della popolazione, dubbi di legalità del ribellismo.

 

 

Già la mentalità veneta, tendenzialmente conciliante ed aliena da esasperazioni violente, portata ad una guerriglia “morbida”, più difensiva e ragionata che aggressiva ad oltranza; se a questo aggiungiamo i principi cattolici profondamente radicati nei Veneti e in particolare nel Vicentino, sembra doversi ammettere che nell’insieme la guerriglia “vicentina” fece del suo meglio per mantenersi nella correttezza e che alcuni avvenimenti “sanguinari” furono probabilmente occasionali o incidentali o comunque causati da una esasperazione psicologica del momento di tutte le parti in lotta, abbastanza comprensibile, se non giustificabile.

 

In questo clima vicentino di base, che dovrebbe essere sempre tenuto presente e studiato, si svilupparono sia la Resistenza comunista (a Schio, in Val Leogra, nell’arco della Garemi) sia la Resistenza autonoma (zona dell’Ortigara).

 

E’ logico pensare che in quest’ultima la “crisi di coscienza” sopra accennata abbia influito maggiormente nell’ammorbidire il loro tipo di guerriglia e nel darle una connotazione particolare, specie in senso patrio.
Viceversa in quella comunista la spinta politico-ideologica, il riemerso antifascismo operaio, la differente composizione dirigenziale e probabilmente anche il tessuto montanaro, portarono ad un indurimento del tipo di guerriglia.

 

Prima tuttavia di chiederci o di polemizzare su chi fu il primo o il più bravo o il più incisivo, polemica che d’altra parte è presente in tutte le zone della Resistenza italiana, mi sembra importante comprendere e studiare i motivi che erano alla base delle differenze.

 

Nella foga della polemica si tende invece a dimenticare che l’incontro-scontro di mentalità rese più vivace, multiforme, quasi competitiva la lotta resistenziale vicentina e che il suo ruolo globale risultò quindi più vario e importante nel contesto nazionale.

 


II.
CONFERENZA EPISCOPALE DELLA REGIONE VENETA
Venezia, 20 aprile 1944

 

 

Fr. Adeodato G.Card. Piazza, Patriarca di Venezia – Giuseppe Nogara, Arciprete di Udine – Carlo Margotti, Arcivescovo di Gorizia – Carlo De Ferrari, Arcivescovo di Trento – Girolamo Cardinale, Vescovo di Verona – Giovanni Jeremich, Vesc. Tit. di Berissa Aus.re di Venezia – Antonio Mantiero, Vescovo di Treviso – Carlo Agostini, Vescovo di Padova – Antonio Santin, Vescovo di Trieste – Guido Mazzocco, Vescovo di Adria – Fr. Giacinto M. Ambrosi, Vescovo di Chioggia – Ugo Camozzo, Vescovo di Fiume – Fr. Raffaele Radossi, Vescovo di Parenzo e Pola – Carlo Zinato, Vescovo di Vicenza – Giuseppe Zaffonato, Vesc. Tit. el. Di Elatea, Amm.re apost. Di V.Veneto – Vittorio D’Alessi, Vesc. Tit. el. Di Lirbe, Amm.re apost. Di Concordia – Fr. Girolamo B. Bortignon, Vesc. Tit. el. Di Lidda, Amm.re apost. Di Belluno e Feltre – Mons. Domenico Zanette, Vice Cap. di V.Veneto – Mons. Pietro Rizzardini, Vice Cap. di Belluno – Mons. Pietro Tiziani, Vic. Cap. di Feltre – Mons. Paolo Sandrini, Vic. Gen. Di Concordia.

 

 

“La Conferenza Episcopale della Regione Conciliare Triveneta, presieduta dall’E.mo Card. Patriarca di Venezia e composta dagli Ecc.mi Arcivescovi e Vescovi e Rev.mi Vicari Capitolari delle Tre Venezie, si è riunita per trattare i gravi problemi di carattere pastorale che interessano le loro Diocesi nel momento attuale.

 

Fra le altre considerazioni e decisioni, i Presuli dovettero constatare con profonda amarezza dell’animo che l’attività della Chiesa, per opera di non benevola propaganda, è sinistramente interpretata e commentata, con grave disorientamento delle coscienze dei fedeli; e che il pensiero degli stessi Prelati ecclesiastici è non di rado travisato da pubbliche relazioni di atti o discorsi alterati o anche inventati.

 

Essi inoltre dovettero portare la loro attenzione su taluni fatti notori che ledono i principi della legge morale cristiana, aggravando la già tanto penosa situazione delle loro popolazioni. Perciò, nella precisa coscienza del loro indeclinabile dovere di Padri e Pastori dei greggi a loro affidati, deliberarono di pubblicare la seguente Notificazione.

 

 

 

I. La Conferenza si trova nella necessità di ricordare a tutti, sacerdoti e laici, la dottrina cattolica circa la distinzione di finalità e di competenze fra Chiesa e Stato (Gasparri, Catechismo Cattolico) (segue). La Chiesa pertanto, come non intende ingerirsi in cose estranee alla sua competenza, così non può e non deve essere coinvolta in attività politiche, perché verrebbe a snaturare se stessa e a compromettere gliinteressi superiori delle anime. (…) Ispirata a questi motivi appare la disposizione del Concordato italiano con la Santa Sede (art. 43) (…). La Chiesa, pur restando fuori e al di sopra di ogni attività e competizione politica, mentre compie la propria missione di magistero e di tutela della fede e della morale, esercita la più benefica influenza a favore degli individui associati e della stessa società civile: (…).

 

II. Sul tema della guerra, a proposito di gratuite e calunniose attribuzioni di responsabilità, la Conferenza richiama il giudizio della Chiesa che la considera uno dei più tremendi flagelli e ne implora da Dio la liberazione. La guerra in corso, nella sua tragica realtà di orrori, di eccidi e di rovine, con i suoi metodi totalitari e i suoi mezzi tecnicamente perfetti e disumanamente applicati alla distruzione e alla morte, conferma il giudizio della Chiesa, e insieme giustifica l’aspirazione dei popoli a una pace di giustizia e di amore. (…) La guerra, nella continuazione come nel suo principio, è un fatto schiettamente politico: di natura politica sono infatti gli scopi che l’hanno determinata, anche se vi si annettono interessi di civiltà e di religione, ed è politica l’Autorità che l’ha dichiarata assumendone la responsabilità dinanzi alla propria Nazione e dinanzi alla Storia. Risulta ben chiaro che la Chiesa, e per essa le persone che la rappresentano ed agiscono in suo nome, non possono partecipare tale responsabilità in nessun modo e in nessun paese.
Dedurne mancanza di sensibilità nazionale e di amore patrio è illazione arbitraria e malevole. I Presuli delle Tre Venezie, come i loro confratelli d’Italia, sentono profonda ambscia per le sciagure della Patria, ne auspicano vivamente la rinascita materiale e morale conforme alle sue gloriose tradizioni. (…). La rinascita deve compiersi anzitutto con la ristorazione pratica dei valori dello spirito, il cui affievolimento portò all’immane catastrofe. (…).

 

III. In linea con tali fatti e principi, la Conferenza Episcopale è tenuta, con suo vivo rammarico, a deplorare l’attività di quei pochi sacerdoti, secolari e religiosi, i quali, rotto il freno della disciplina ecclesiastica, valendosi della loro qualifica sacerdotale e del prestigio che ne deriva, conducono pubblica propaganda prettamente politica che, qualunque sia l’intenzione, non può accordarsi con la missione esclusiva e propria del sacerdote e con le accennate disposizioni della S.Sede. (…) La deplorata propaganda si svolge particolarmente sul periodico settimanale “Crociata italiaca” diretta da sacerdoti in flagrante violazione del canone 1386 del Codice di Diritto Canonico. (…).

 


IV. La Conferenza ebbe anche a rivolgere la propria attenzione su fatti pubblici che risultano in evidente contrasto con l’onore di Dio, con la dignità, il rispetto e l’incolumità della vita umana, con la tranquilla convivenza e sanità morale del nostro popolo. Si ritiene quindi in obbligo di segnalare tali fatti, supplicando coloro a cui spetta di provvedere.

1. Si nota un rincrudimento del vizio della bestemmia che (…). Fu scritto con ragione: “Uno Stato che non prega è destinato presto o tardi, a morire asfissiato, perché la preghiera è ossigeno non solo per la vita spirituale degli individui, ma anche dei popoli. Un tale Stato potrà avere periodi di materiale benessere, ma la sua non sarà mai la vera civiltà, o se tale l’aveva ereditata, questa dovrà lentamente seguire una linea di declino. Se di ciò fosse necessario avere una dimostrazione, oggi lo stiamo avendo nel modo più lampante e più tragico” (Civ. Catt. 1944, fasc. I).

2. I delitti contro la vita umana si fanno sempre più frequenti, come non mai nel passato, tanto da dover pensare a una sorda lotta civile e fratricida che potrebbe anche sboccare in moti di gravità spaventosa. (…)  Perciò la Conferenza Episcopale leva alta deplorazione contro tutti i delitti di sangue, qualunque sia il movente di carattere individuale o politico, e invoca energicamente la normalità della legge con l’impero della giustizia: la quale prevede in ogni caso regolare processo, accertata responsabilità, pena proporzionata al delitto, specie se si tratti di pena capitale, che non si giustifica se non da gravissime ragioni di ordine pubblico. (…).

 

3. Altra causa di sospensione d’animo e di profondo malcontento fra le popolazioni è data dai forzati prelevamenti e dalle deportazioni di persone, di cui si ignora spesso la sorte a cui vanno incontro. (…).

 

4. Nel campo della moralità si rilevano altre tristi deviazioni, che sono in contrasto con la dolorosa situazione presente. (…). Si deve deplorare in non poca gente un egoismo che rende insensibili e indifferenti, una voglia sfrenata e accontentata di divertimento, una sordida speculazione sulle altrui necessità e miserie, una provocazione di nudismo sempre più sfacciata e scandalosa nella moda femminile; e intanto la licenziosità dei pubblici spettacoli teatrali e cinematografici va aumentando, e si dà libero corso ad una stampa di riesumazioni pornografiche a sfondo anti-clericale: fenomeni tutti di sottile malizia e spesso anche di incoscienza, a cui si dovrebbe applicare il freno energico delle salutari sanzioni. (…).

 

V. (…) E’ superfluo ricordare che i singoli soci dell’Azione Cattolica, in quanto cittadini, sono stretti dai comuni doveri sociali che essi devono compiere con esemplare fedeltà e disciplina e con sincerto amore verso la Patria: ed hanno pure i comuni diritti, anche nel settore politico, da esercitarsi però da ciascuno sotto la propria responsabilità esclusivamente individuale. L’Azione Cattolica infatti, come la Gerarchia ecclesiastica a cui presta collaborazione, è e deve mantenersi estranea ad ogni attività politica e di partito. (…).

 

VI. (…) Stimolano particolarmente i sacerdoti a prestare un’assistenza sempre più attiva e sollecita per alleviare tante miserie”.
(Estratto da “Conferenza episcopale della Regione Triveneta” – stampata il 25 maggio 1944, Tip. S.Giuseppe, Vicenza – pubblicata nel Bollettino della Diocesi di Vicenza – Maggio 1944).

 

 


III.
L’ARCIPRETE DI SCHIO

 

 

 

La figura dell’Arciprete di Schio mons. Girolamo Tagliaferro dovrà una buona volta essere affrontata nei suoi molteplici aspetti, poiché una storia del Novecento scledense non può prescindere da un personaggio così importante e determinante.

 

Il compito non è facile, se si voglia uscire dagli schemi usuali dell’agiografia ecclesiastica, e ciò spiega in parte l’indugio dell’ambiente cattolico nello scrivere di Tagliaferro, un indugio che, a mio parere, farà perdere buona parte delle testimonianze vive e dirette delle persone che lo frequentarono e lo videro all’opera. 

 

Per quanto lo conobbi, occasionalmente ed in età giovanissima, mi è rimasta l’impressione di un uomo di insolita ricchezza intellettuale accompagnata da un temperamento “granitico”, conscio di ciò che voleva e del come imporlo: suscitava una certa soggezione, pur temperata dai modi gentili ed affabili.

 

La levatura del personaggio era riconosciuta unanimemente anche dall’ambiente laico o anticlericale, al punto che i giudizi più sinceri di rispetto e di stima, pur nel contrasto ideologico-politico, li ho raccolti proprio tra i suoi avversari.

 

Non ho notizie approfondite sulle vicende personali dell’uomo e del sacerdote, ma penso che egli abbia avuto la sua formazione culturale nel clima ed alla scuola del Vescovo Rodolfi, una scuola di derivazione ottocentesca forgiatasi nelle difficili battaglie post-unità d’Italia, nella lotta contro il Socialismo, nell’attivismo dell’età giolittiana, nelle lotte dei Popolari. Di qui una generazione di sacerdoti che, per necessità di ministero e di politica ecclesiastica, non potevano non avere una solida cultura, un senso concreto del reale, una coscienza ferma e spesso autoritaria del ruolo e del prestigio della Chiesa.

 

Monsignor Tagliaferro riuniva, a mio avviso, molte di queste qualità: una cultura notevole, un portamento da vescovo, un animo battagliero, un acume imprenditoriale e pratico fuori del comune.

 

E’ ovvio che tali “qualità”, se viste da parte ecclesiastica, o “difetti”, se viste dagli avversari o dai mediocri, non mancarono di suscitare negli anni nell’ambiente scledense dei giudizi contraddittori, oltre che un’aneddotica a volte curiosa e spassosa, tuttora circolante a Schio nella memoria dei cattolici e dei laici.

 

 

Pertinente al tema dei Quaderni è ovviamente la posizione dell’Arciprete mons. Tagliaferro nei riguardi del Fascismo sia durante il ventennio che nei venti mesi della Resistenza locale. A tal scopo si dovrebbero innanzitutto studiare i suoi “rapporti” con il vescovo Rodolfi, il cui fermo atteggiamento verso il Fascismo è noto e storicamente documentato (caso Dolfin), delle battaglie di Tagliaferro per la “Fiamma” ha già scritto G.P.Resentera proprio nei Quaderni (pg. 344), dell’uccisione di due suoi fratelli a Campiglia dei Berici nel maggio 1944 ad opera dei Fascisti mi è sembrato importante riferire in questa sede.

 

Da tali esperienze strettamente personali si giustifica pensare che in Tagliaferro, almeno nel suo intimo, vi fosse un atteggiamento psicologico sostanzialmente contrario al Fascismo. Tuttavia devonsi, a mio parere, considerare alcuni correttivi: innanzitutto egli era socialmente la massima autorità ecclesiastica locale ed in questa sua veste doveva tenersi al di sopra delle parti; in secondo luogo politicamente il vero pericolo per la Chiesa era il comunismo e contro di questo il Fascismo tutto sommato si configurava come un alleato, scomodo ma pur sempre valido; infine il profondo seso cristiano di Tagliaferro nella valutazione degli eventi e delle persone lo portò senza dubbio sulla via del perdono più che della vendetta, in particolare nel caso dell’uccisione dei suoi fratelli ad opera dei Fascisti.

 

 

 

Questa breve premessa sulla figura dell’Arciprete di Schio non può rendere appieno la complessità del personaggio, ma si rendeva ad ogni modo necessaria ai fini dell’argomento qui riferito.

 

 

La sera del 4 maggio 1944 in Campiglia dei Berici ebbe luogo ad opera di ignoti una sparatoria contro G.L. (nato a Longare, cl. 1894, residente a Campiglia, agricoltore, ex squadrista) segretario politico di Campiglia e contro F.G. fascista repubblicano; i due vennero ricoverati nell’Ospedale di Noventa gravemente feriti.

 

Da testimonianza di F.G. risultò che il G.L., segretario politico, aveva intimato l’alt agli ignoti e che questi, vedendosi fermati, avevano sparato. Il mattino del 5 maggio il Segretario comunale di Campiglia, B.G. di Recoaro, comunicava telefonicamente l’accaduto al Prefetto di Vicenza.

 

Lo stesso giorno, per ordine del Federale C.G., partì da Vicenza un’automobile della G.N.R. con a bordo 6 fascisti della cosiddetta “Compagnia della morte” (S.A., C.F., B.R., G.A., due sardi), che si recarono prima a Noventa in Ospedale a visitare i 2 feriti fascisti e poi verso le ore 18 in casa di G.L. il segretario politico.

 

Qui, a testimonianza di S.A., uno dei familiari manifestò dei sospetti sul conto dei fratelli Tagliaferro, come antifascisti, in merito al ferimento del 4 maggio.

 

Nelle intenzioni dei suddetti Fascisti della “Compagnia della morte” la spedizione a Campiglia dei Berici doveva avere lo scopo di “fare atto di rappresaglia e ammazzare almeno sei o sette antifascisti”.

 

Si recarono quindi nella casa dei Tagliaferro sostando per chiedere informazioni in vari posti. Verso sera giunsero finalmente a casa Tagliaferro, bussarono ed alla signora che si presentò alla porta chiesero dei fratelli Tagliaferro, finché si presentò uno dei due, mentre l’altro fu rintracciato facendo il giro della casa.

 

S.A. così testimoniò al processo: - “Con i suddetti Tagliaferro c’incamminammo lungo la strada verso l’automobile. Ad un certo momento io, un po’ più distante dal gruppo, stavo controllando i documenti di riconoscimento e credo mi fosse vicino C.F. Gli altri uomini si trovavano quasi all’altezza dell’automobile, da me distante una decina di metri, sentivo che discutevano ma siccome ero intento a controllare i documenti, non sono in grado di dire cosa dicessero. Stavo per arrivare presso l’automobile quando vidi che il G.A. diede una spinta ai due fratelli e incominciò a sparare insieme a B.R. e ai due sardi. Vidi cadere i due Tagliaferro e nello stesso momento anche il C.F. sparò una raffica, ma non credo addosso ai malcapitati, in quanto essi erano già caduti. 
Anch’io imbracciai il mitra ma non feci fuoco. Dopo il fatto montammo tutti in automobile, alcuni volevano andare a prendere l’altro fratello dei Tagliaferro e qualche altro, ma io, appoggiato da C.F., mi opposi obbligando tutti a far ritorno a Vicenza dove giungemmo verso le ore 22.
Durante il viaggio di ritorno a Vicenza il G.A. mi raccontò che i fratelli Tagliaferro prima di essere uccisi avevano chiesto il prete, al chè gli aveva dato uno spintone, soggiungendo “telo do io il prete”.

Il C.F. ed il B.R. erano in abito civile, tutti gli altri erano in divisa. Il suddetto C.F. capeggiava la spedizione assieme al B.R. Se avessi io avuto la facoltà di decidere, avrei fatto portare a Vicenza i fratelli Tagliaferro per la decisione del Federale, e credo che dello stesso parere sarebbe stato anche il C.F., se gli altri non avessero agito d’iniziativa sparando. A Vicenza raccontammo al Federale C.G. come si erano svolti i fatti, al chè egli rispose: “Bene, bravi, ma sono stati pochi”. Della faccenda non se ne parlò più”.

 

 

 

I due uccisi furono: a) TAGLIAFERRO ARNALDO fu Antonio e fu Chiericato Anna, nato a Campiglia dei Berici il 17-6-1896, agricoltore, b) TAGLIAFERRO GERARDO, fratello. Sembra che quest’ultimo non fosse una vittima designata per la rappresaglia, ma che si dovesse colpire l’altro fratello TAGLIAFERRO GIUSEPPE, che dopo la Liberazione fu Sindaco di Campiglia.

 

Infatti B.A., osteria ai Pilastri di Agugliaro, dichiarò testualmente: - “Dopo che lo G.L. (segretario politico di Campiglia) uscì dallOspedale, trovandosi nella mia osteria assieme a M.P. ed M.G., fascisti, diceva le testuali parole con essi: “LE INDICAZIONI PER I TAGLIAFERRO LE HO DATE IO, MA PIU’ CHE ALTRO MI INTERESSAVA CHE FOSSE STATO COLPITO IL TAGLIAFERRO GIUSEPPE E NON IL GERARDO”.

 

 

Dopo il duplice omicidio della sera del 5 maggio, di cui non si fece cenno nella stampa locale, i Fascisti cercarono di mascherare l’accaduto in vari modi.

 

Il mattino del 6 maggio il Segretario comunale di Campiglia telefonò l’avvenuto omicidio al Prefetto di Vicenza, che restò indifferente e fece capire che era già a conoscenza del fatto. Lo stesso giorno giunse a Campiglia il maresciallo maggiore S.V.A., comandante la sezione dei CC.RR. Di Lonigo, tesserato del P.F.R., il quale diceva al Brigadiere G.S. con aria soddisfatta: “Hai visto se hanno saputo colpire bene?!”; inoltre imponeva che, sia con la segnalazione che nel rapporto giudiziario, il Brigadiere dovesse tenersi molto breve e senza dare particolari.

 

La sera del 7 maggio giunse a Campiglia un camion con 30 uomini della milizia al comando di un Capitano che si qualificò della “Compagnia della morte” e che schiaffeggiò senza motivo un tale B.A.

 

Allontanatisi, giunse poco dopo un altro camion con una trentina di uomini per prestare servizio di ordine pubblico fino al mattino successivo; l’ufficiale della milizia che li comandava così si espresse con il Segretario comunale di Campiglia: “GLI ESECUTORI MATERIALI DEL DUPLICE OMICIDIO DEI FRATELLI TAGLIAFERRO VENIVANO INVIATI DALLA FEDERAZIONE FASCISTA DI VICENZA PER RAPPRESAGLIA DELLA SPARATORIA CONTRO IL SEGRETARIO POLITICO G.I. E F.G. AVVENUTA LA SERA DEL 4 MAGGIO IN CAMPIGLIA DEI BERICI”.

 

 

Il giorno 8 maggio il dott. G., medico di Sossano e condotto interino di Campiglia dei Berici, venne convocato in Prefettura a Vicenza, dove gli fu imposto di tacere sulle persone che si trovavano nell’automobile che si recò a Campiglia per la rappresaglia; infatti il dott. G., che la sera dell’omicidio circolava in motocicletta per motivi di lavoro, era stato fermato e richiesto dei documenti proprio dai fascisti che poi uccisero i Tagliaferro.

 

Il 24 maggio il capitano della Milizia e Comandante della P.S. POLGA si recò a Campiglia per alcuni interrogatori ed indagini e risulta che cercò di mascherare il duplice omcidio facendolo figurare ad opera di malviventi e precisamente da compagni dei feritori del Segretario politico G.L. e del F.G.

 

Infine risultò che il Federale di Vicenza, alcuni giorni dopo il duplice omicidio dei Tagliaferro, si era interessato a mezzo del Segretario politico di Albettone T.A. per sapere se mons. Girolamo Tagliaferro arciprete di Schio, fratello degli uccisi, avesse passato la notte dal 6 al 7 maggio 1944 nel Comune di Albettone presso il Parroco o presso i parenti Castagnaro.

 

Dall’istruttoria, che ebbe luogo nel novembre del 1945, oltre agli esecutori materiali prima citati ed appartenenti alla “Compagnia della morte”, ed oltre al Segretario Politico di Campiglia, furono ritenuti responsabili del duplice omicidio anche: 1. Caneva, segretario federale di Vicenza; 2. Neos Dinale, prefetto di Vicenza; 3. Linari Cesare, questore di Vicenza; Gaddi Otello, comandante prov.le della G.N.R.; 5. Polga Giovanni B., capitano della Milizia e della Questura di Vicenza.

 

 

Il tragico fatto, per le persone coinvolte da entrambe le parti, assume un’importanza non trascurabile nella storia vicentina del tempo. In riguardo alla figura dell’arciprete di Schio mi sembra indispensabile uno studio nell’ambiente di Campiglia dei Berici per meglio approfondire la posizione “antifascista” dei Tagliaferro.

 

Risulta comunque evidente che lo scontro violento con i Fascisti per la “Fiamma” (Quaderni, pg. 344), l’uccisione di due suoi fratelli nel maggio 1944, l’uccisione a S.Rocco di don Franchetti il mese successivo non mancarono di rafforzare in mons. Tagliaferro un suo atteggiamento “antifascista” di vecchia data.

 

Di conseguenza l’arciprete di Schio venne costantemente tenuto sotto controllo dai Fascisti, sia localmente che nell’ambiente provinciale. Infatti nell’ottobre del 1944 ebbe luogo una perquisizione nella Canonica e nel Duomo di Schio, come appunto ha riferito in proposito G.B. Zilio (Il clero vicentino durante l’occupazione nazifascista, Vicenza, 1975, pp. 55 e 56), al quale si rinvia per la descrizione del fatto, sottolineando che l’ordine di perquisizione sarebbe venuto da Vicenza.

 


IV.
IDONEITA’ ALLA GUERRIGLIA IN MONTAGNA

 

 


La raccolta delle armi del disciolto esercito italiano ed il costituirsi dei primi nuclei armati, subito dopo l’8 settembre 1943, furono fenomeni spontanei conseguenti al trauma degli eventi, anche se alcuni, come a Schio, furono guidati da ex garibaldini di Spagna o da ex confinati antifascisti (Gruppo del Festaro).

 

L’autunno inclemente e piovoso, oltre che la prospettiva dell’inverno, raffreddarono i primi slanci armati e, salvo qualche nucleo isolato sui monti innevati, la Resistenza operò in ambito cittadino e si dedicò soprattutto ai collegamenti, all’identificazione delle persone disponibili, al recupero di armi, all’organizzazione, all’occultamento di militari sbandati, di ricercati, di prigionieri alleati. Per consistenza numerica il movimento autunno-inverno 1943-1944 fu nel complesso modesto ed elitario ed anche le vere e proprie azioni armate appaiono piuttosto occasionali o subìte in conseguenza di rastrellamenti.

 

 

In quel periodo ai militari sbandati, che non intendevano aderire alla R.S.I., si offrivano due possibilità: a) inserirsi in una attività produttiva o impiegatizia riconosciuta dai Tedeschi e così circolare con un documento ufficiale, b) tenersi nascosti presso qualche famiglia di parenti o di amici, in città, nella campagna o in montagna.

 

 

Con la primavera del 1944 i bandi di chiamata fecero però aumentare il numero dei giovani renitenti e l’intensificarsi delle perlustrazioni fasciste resero pericoloso l’imboscamento presso famiglie amiche. Siccome nello stesso periodo il movimento partigiano aveva avuto il tempo di organizzarsi nei collegamenti e nei quadri, sia pure in modo abbastanza informale, venne a prospettarsi ai giovani un’altra possibilità: c) l’inserimento nelle formazioni partigiane, qui da noi comunemente detto “il salire in montagna”.

 

 

Si verificò infatti ad un certo momento una “salita” massiccia, animata dal fascino dei monti in primavera, non disgiunta da una velleità avventurosa. Ma ben presto l’impatto con la realtà della situazione partigiana in montagna si dimostrò drammatico: dormire all’aperto con una coperta o nelle stalle, mangiare quando capita, insufficienza di armi, sensazione di essere braccati, organizzazione approssimata, contatto con le persone di più varia estrazione e provenienza, confusione e indisciplina.

 

 

A qualche giovane di buona famiglia, tutto perbenino, sembrò probabilmente di tornare al paleolitico, agli uomini delle caverne: qualcuno che aveva tentato l’esperimento discese disorientato e cercò altre soluzioni. Non trovo, in questo motivo di un senso di inferiorità o di vergogna, perché leggendo nei Quaderni il disagio e la drammaticità delle situazioni partigiane, è normale l’aver cercato altre possibili sistemazioni, mentre è eccezionale l’aver potuto resistere per mesi sui monti.

 

 

In un esercito regolare la visita di leva e le prove atttitudinali scartano subito gli elementi non idonei e per gli altri si procede ad una distribuzione per arma e specialità a seconda del fisico e delle attitudini, ma con una varietà di utilizzo che va dai lavori sedentari all’artiglieria di montagna.

 

 

Invece nell’esercito partigiano valeva unicamente la legge del “tutto o niente”, ciò a causa dell’imprevedibilità degli sforzi richiesti e dei disagi da sopportare (una lieve indisposizione nel momento sbagliato poteva costare la vita).

 

 

Dagli innumerevoli incontri con la curiosa fauna della base partigiana mi sono convinto che oltre che alla resistenza fisica tre qualità erano indispensabili: un istinto di sopravvivenza quasi animalesco, una furbizia volpina di fronte all’imprevisto, uno spirito di adattamento eccezionale. Si tratta di doti naturali, più o meno spiccate in un individuo, che però emergono e si sviluppano solo di fronte a situazioni negative, reali e concrete.

 

Se consideriamo i disagi delle classi sociali più povere (operai, emigranti, contadini, montanari), anche in un passato abbastanza recente, non vi è dubbio che in tali classi le doti sopradette avevano avuto modi di svilupparsi per necessità di sopravvivenza, e di conseguenza l’accettazione delle disagiate condizioni di vita della guerra partigiana non rappresentò un fatto traumatico ma solamente una negatività che si presentava in maniera diversa e insolita ma alla quale vi fu un adattamento quasi naturale.

 

Il fatto che la parte più dura e ingrata della guerriglia in montagna sia stata sostenuta dall’ambiente operaio e agricolo-montanaro più modesto e povero deriva in particolare dalla migliore “idoneità” psicofisica di queste classi sociali.

 

 

Nel caso invece dei giovani della piccola e media borghesia cittadina, abituati ad un tenore di vita più agiato ed a rapporti sociali filtrati dalle convenienze e dall’educazione, la realtà partigiana operò un’impietosa selezione ed espulse quasi subito i meno adattabili. Restarono in montagna per lunghi mesi e fino alla Liberazione solo alcuni pochi casi eccezionali. La maggior parte invece cercò sistemazioni marginali nella R.S.I., spesso molto di malavoglia, oppure si nascose presso conoscenti in zone relativamente tranquille.

 

D’altronde chi, in quei momenti, avrebbe consigliato un amico o un familiare a cuor leggero di andare in montagna con i partigiani, se non costrettovi senza alternative?

 

 

L’ambiente cattolico scledense giovanile (Azione Cattolica, FUCI, oratoriani salesiani) fu praticamente assente in Val Leogra nella guerriglia in montagna, sia a livello di base ma soprattutto nei quadri di comando dove teoricamente, almeno alcuni studenti, avrebbero potuto inserirsi.

 

Non mancarono a Schio ed in Val Leogra i giovani di sentimenti cattolici, non comunisti o anticomunisti, che fecero la guerra partigiana, ma decisamente non appartenevano a quella piccola e media borghesia cattolica che, culturalmente trainante in tempo di pace, avrebbe potuto giocare un ruolo di comando anche durante la Resistenza.

 

 

E’ curioso che a Schio la Resistenza cattolica sia stata invece sostenuta soprattutto da una parte del Clero e da alcuni “anziani” (Remo Grendene del vecchio Partito Popolare) o da coniugati o padri di famiglia (arch. Vincenzo Bonato, Amedeo Mazzon, Gerardo Perandini, Igino Rampon, solo per citare alcuni nomi). Più che dai “ventenni” l’impegno resistenziale cattolico fu assunto prevalentemente da “adulti” con esperienza e conoscenza del tessuto cittadino.

 

 

Tra le varie testimonianze sulla “iniziazione” traumatica alla vita partigiana ho sollecitato quella dell’avvocato Bruno Stocco, il qule salì a fare il partigiano con il vestito adatto ad un tè con le signore:

 

“Appena rientrato fortunosamente in famiglia (cfr. pg. 296) compresi che non potevo passare inosservato e che non potevo non giustificare a chi me lo chiedesse come mai non fossi né sotto le armi né in prigionia; altra alternativa, data l’età, non c’era.
Nei brevi giorni di questo incerto permanere in famiglia un mio ex professore di liceo mi aveva fermato proprio in pieno centro sotto i portici e mi aveva chiesto con voce alta (almeno a me in quel momento così era parso): “Come mai tu sei qui a Schio mentre i nostri figli si battono contro i Tedeschi?”. Io cercai subito di farlo tacere ma, conoscendolo, ritenni meglio salutarlo in fretta; era chiaro che non potevo restare a casa, ma non potevo neanche arruolarmi a fianco dei tedeschi, che pochi giorni prima avevano ucciso a sangue freddo sotto i miei occhi nella Caserma di Applicazione di Cavalleria di Pinerolo un maresciallo istruttore: c’era stata troppa determinazione repressiva in quell’atto, troppo disprezzo per la vita degli altri e, anche se eravamo in guerra, era stato solo un gesto bestiale.
Non sapevo però con chi poter parlare; purtroppo la gente non si fidava di me; ero partito volontario, avevo un fratello che era morto in guerra e decorato, un altro fratello anche lui volontario e decorato; ero, come si suol dire, etichettato; avevo visto però cose che mi avevano suscitato un senso di ribellione e che mi avevano naturalmente maturato.
Non potevo soprattutto rassegnarmi a vivere nascosto.
In quei giorni ebbi la fortuna di parlare con un amico, con Gigi Zen, che allora era impiegato alle Industrie Saccardo di Schio; egli mi ascoltò, comprese il mio sfogo, e mi promise, cosa che mi sembrava impossibile da lui, di mettermi a contatto con i “partigiani”.

Le cose stavano precipitando per me perché erano già venuti a cercarmi a casa e quindi Gigi Zen venne a prendermi e mi accompagnò in via Milano dove in fondo alla via c’era, anzi c’è ancora, una bella casa con giardino abitata da un certo Fulvio Veghini che da allora ricordo come un caro amico e che mi accolse con il suo indimenticabile sorriso dandomi quella fiducia di cui avevo bisogno.
Rimasi nascosto lì qualche giorno finché una sera venne a prendermi Mario Valmora un uomo bonario grande e forte; mi sentii sicuro di lui e con lui, sia pur nel timore di essere scoperto, attraversammo Schio e ci dirigemmo verso Poleo e di lì poi a piedi fino a quello che poi seppi essere il Creston del Varo: lì c’erano “i partigiani”.
Ero vestito con una giachettina verde, scarpe gialle, calzetti in tinta, camicia e cravatta.

La metamorfosi cominciò dai piedi che si dimostrarono subito sesibilissimi ai sassi che su un terreno accidentato si sentivano sotto le suole come se fossero sulla pelle viva. Eravamo arrivati vicino ad una fontana o meglio ad un tubo di ferro che gettava acqua, dove appunto vidi i primi partigiani. Chi erano? Uno lo conobbi subito: era Valerio Caroti un caro amico che mi abbracciò e mi diede il benvenuto nelle file della Resistenza; poi c’era Carlo Sartori ed altri che non ricordo più bene.
C’era stato poche ore prima, un’azione di guerra e lì presso c’era un morto. Stava facendosi notte e ci fu allarme perché era imminente un rastrellamento; mi fu dato uno Sten con due caricatori e dopo poco partimmo per salire fino alle prime falde del Novegno. Non posso dire che questi primi fatti siano stati per me una iniziazione “graduale” alla vita di lotta partigiana! Comunque l’affrontai di buon animo e soprattutto con la fermissima volontà di non cedere. Un groppo di malinconia mi serrava però la gola; forse non sarei più ritornato a Schio.
Alle falde del Novegno dove eravamo arrivati ci raggiunse un altro gruppo guidato dal “Turco” (Baron Germano da Poleo) del quale faceva parte anche “Acqua”, Zaffonato Angelo, che pure conoscevo; subito fraternizzammo e quando fu il momento di dividerci salutai fraternamente Giulio e mi aggregai alla compagnia del “Turco” scegliendo proprio volutamente tra le due condizioni quella più dura.
Passammo la notte sul pendio del Novegno appoggiati agli alberi e al mattino partimmo e arrivammo fino ai Casoni in cima al monte. Ricordo che in quei giorni soffrii per le scarpe; è una banalità ma purtroppo non erano adatte e dopo pochi giorni si erano trasformate in ciabatte, che dovetti anche legare con uno spago perché perdevano la suola; ciò finché non ebbi la fortuna di averne un paio di più resistenti.
La mia giacchettina, la mia camicia, la mia cravatta erano ormai un simbolo stonato e così indossai un più pratico grosso maglione. Poi ricordo ancora le prime notti sul cemento del casone del Novegno con una copertina militare troppo corta per tenere riparate le gambe e contemporaneamente anche il petto, di modo che per il freddo cane non riuscivo a dormire e aspettavo con ansia le prime luci del giorno, perché il camminare e il godere il sole per quanto sbiadito era un conforto.
Dovetti anche adattarmi subito all’impossibilità di lavarmi bene e di farmi la barba tutti i giorni ed al fatto di mangiare quello che c’era; piccoli sacrifici che al momento tuttavia avevano il loro peso. Il peggio era però il sentirsi solo o dover trovare in sé il modo e la forza di superare, per esempio, il pensiero di poter essere considerato ingiustamente un bandito; di non poter dire a tutti le ragioni per le quali mi sentivo un ribelle e perché anche altri avrebbero dovuto ribellarsi.
Ricordo che qualche notte non trovando sonno e sconfortato mi portavo da solo sulla parte del Novegno dove dall’alto, in quei primi giorni, prima cioè di allontanarmi dalla zona, potevo individuare qualche luce che mi indicasse dove era Schio e cercavo di convincermi che valeva la pena di sacrificare così per la patria; che anche se fossi morto, un domani, gli scolari, salendo in gita sul monte avrebbero parlato con riconoscenza di noi partigiani; e mi correva alla mente, forse poco adatto, il ricordo di come il Carducci, che allora era il nostro poeta e cioè il poeta dei giovani, aveva commemorato come in una leggenda la vita di Giuseppe Garibaldi nel centenario della sua nascita; tutto avrebbe potuto diventare un domani una leggenda.
Questi i miei primi giorni da partigiano: il mio impatto con la vita partigiana fu, se vogliamo, una necessità: dal momento che non potevo non ribellarmi alle atrocità viste dovevo diventare un partigiano; lo feci con una dura volontà e con senso di amor patrio. Non voglio qui ricordare episodi vissuti ma ricordo invece che un misto di orgoglio, di amor di patria, di non voler soprattutto arrendermi mi hanno fatto, come si dice, stringere i denti e tirare avanti anche nei momenti di scoramento e soprattutto hanno fatto sì che anche in seguito non dimostrassi agli altri né lo scoramento né la inevitabile paura di certi momenti”.  16-3-1980. Bruno Stocco.

 


V.
IL RUOLO DEL CLERO E DEI “CATTOLICI”

 

 

Il fascino della storia epica è così radicato nell’uomo, per un bisogno mitico trasfigurante la realtà, che ogni guerra porta ad una storiografia e ad una letteratura tendenti a privilegiare l’archetipo dell’eroe e del guerriero. In una certa misura anche le pubblicazioni sulla Resistenza, in chiave ideologica o in toni patriottici, hanno sempre esaltato gli “sàri”, cioè la guerriglia armata (scontri, battaglie, esplosioni, rastrellamenti).

 

In realtà, considerando le cose in maniera meno sentimentale e più ragionata, nessuna guerra può essere intrapresa o può durare a lungo se non esiste invece alle spalle un complesso apparato logistico. Le armi e le munizioni, il vitto, il vestiario, il denaro, l’assistenza sanitaria, i rifugi, le informazioni ed i collegamenti sono altrettanto importanti, che l’atto finale, dello scontro a fuoco.

 

Anche la pericolosità, nelle ultime guerre e specialmente nelle guerriglie, non è inferiore. In particolare nella Resistenza civile esistevano pericoli non indifferenti: delazioni, perquisizioni, retate, blocchi stradali, arresti e deportazioni, bombardamenti. Anche il cittadino più innocuo era coinvolto in questi pericoli giornalieri e lo stanno a dimostrare il numero maggiore di morti civili rispetto a quelli militari, un fenomeno che va sempre più accentuandosi di guerra in guerra (cfr. Arresti e deportazioni).

 

Nella Resistenza l’apparato logistico della guerriglia fu sostenuto da persone di tutte le età e di tutte le classi sociali. L’organismo ufficiale furono i Comitati di Liberazione, che si costituirono nei vari paesi, ma il tessuto più importante furono i familiari dei partigiani, le amicizie di fabbrica e di lavoro, i rapporti mantenuti clandestinamente dalle persone più varie ed impensabili. E’ in questo tessuto composito che a Schio si inserirono con un loro spazio sia il Clero che alcune persone dell’ambiente cattolico.

 

Nei Quaderni, in più capitoli e occasioni, si è cercato di sottolineare queste presenze, ma va anche considerato che buona parte della Resistenza civile, e cattolica in particolare, resterà ignota per la discrezione dei protagonisti.

 

Il fenomeno interessante per Schio e la Val Leogra, zona garibaldina, è l’accordo intervenuto a tutti i livelli fra quella parte del Clero e dei “cattolici” che aiutarono la Resistenza ed i Comunisti, i quali avevano il peso preponderante della organizzazione armata e di molta parte di quella civile. Domenico Baron (P.C.I.) e Remo Grendene (D.C.) costituivano coppia fissa in una precisa e fruttuosa comunità d’intenti, Gildo Broccardo (P.C.I.) era in reciproca simpatia con le suore dell’Ospedale ed anche nell’ambiente operaio e montanaro di base non traspaiono sostanziali contrasti, salvo inevitabili casi personali.

 

Fu probabilmente questo tipo di coesione uno dei motivi che resero particolarmente incisiva e soprattutto costante per venti mesi la Resistenza locale.