QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Novembre 1980 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
Volume XII
[da pag. 627 a pag. 638]
STATO DI NECESSITA’
di E. Trivellato
Dopo la Liberazione in molte persone e soprattutto in alcuni ambienti e partiti nacque l’opportunità politica di denigrare i Partigiani, sia gli “autonomi” ma in particolare i “garibaldini” (considerati genericamente comunisti). Non vi è persona della Resistenza che non possa confermare un tale diffuso atteggiamento del dopoguerra, politicamente legato alla prefissata posizione dell’Italia nell’area di influenza americana ed al pericolo che i Partigiani specie comunisti potessero costituire una forza rivoluzionaria (1). Nell’impossibilità di cancellarli storicamente, si cercò di renderli innocui. Ho testimoniato di ex Partigiani che, negli anni subito dopo la Liberazione, eranocostretti a controllare, prima dell’uscita di fabbrica, che qualcuno non avesse inserito furtivamente nella borsa del pranzo degli oggetti di proprietà della ditta, in modo che al controllo di uscita venissero accusati di furto e licenziati. Fu per molti un periodo altrettanto duro quanto quello della guerriglia in montagna (2).
Questo clima denigratorio durò molti anni, almeno fino a quando i Partigiani non furono più pericolosi politicamente e si avviarono per età a diventare dei reduci.
Oggi si tende a dimenticare questo capitolo di storia italiana e locale, perché ad un certo momento gli stessi denigratori del dopoguerra trovarono comodo, entro certi limiti, recuperare i “valori della Resistenza” per la difesa delle istituzioni.
Le accuse contro i Partigiani sono piuttosto numerose. Innanzitutto il fatto di aver intrapreso una guerriglia contro i Tedeschi quando, “già tanto…”, gli Alleati avrebbero ugualmente liberato l’Italia con la loro strapotenza militare, in ciò dimenticando che la Resistenza fu un fenomeno di dimensione europea.
In secondo luogo vi è l’accusa di improvvisazione, di messa in pericolo della popolazione, di sconsideratezza in numerose azioni.
Inoltre vi è l’accusa di essere stati dei violenti e dei sanguinari per un uso troppo facile delle armi. Infine di aver rubato generi alimentari e di vestiario e di aver estorto denaro. Ognuno di questi argomenti richiede uno studio particolare su avvenimenti concreti, per evitare che fatti singoli vnegano riferiti come “dicerìa” e generalizzzati, o per comodità mentale o per fazioso spirito di parte.
In questo capitolo verrà riferito, sulla scorta di testimonianze scritte, il caso curioso di vari prelevamenti di zucchero da un magazzino di Isola Vicentina, avvenuti nel novembre del 1944. Ma la faccenda si presta per alcune considerazioni generali e merita una premessa.
Se è vero che l’uomo non vive di solo pane, è altrettanto vero che senza cibonon si può vivere e che quindi l’aria, l’acqua, il cibo, la protezione del corpo (vestiti e ripari dal clima), la tutela della salute sono delle “necessità” di diritto vitale.
L’affermazione è talmente ovvia che molti governi, anche di paesi cosiddetti civili ed economicamente floridi, la danno per scontata e se ne dimenticano, privilegiando il superfluo.
In tempo di guerra invece i generi ed i servizi di prima necessità riacquistano il loro vero significato vitale, la gente rinsavisce dagli sprechi, l’uomo ritorna ad essere un animale prudente e rispettoso dell’economia naturale.
Con ciò non si suggerisce, un metodo di cura ma si fa una constatazione. In periodo bellico vengono naturalmente privilegiati i militari mediante un complesso sistema di sussistenza che garantisca i generi di prima necessità alle truppe e che ha la stessa importanza del rifornimento di armi e munizioni.
Anche nelle esigenze della popolazione civile si dà la precedenza agli addetti alla produzione bellica, mentre via via scendono d’importanza tutti gli altri pur cercando di garantire un minimo vitale.
Chi è vissuto con le tessere annonarie e con le razioni alimentari dell’ultima guerra sa cosa vuol dire “fame” e ne parla con rispetto.
Il pane, il sale, lo zucchero, l’olio, il formaggio, il latte, le uova avevano un significato viscerale e non venivano esposti nelle vetrine per incentivare le vendite.
L’assillo quotidiano della gente, militari e civili, era quello di procurarsi del cibo con qualsiasi mezzo, con le tessere, al mercato nero, con gli scambi in natura, con sistemi legali o illeciti, con le buone o con le cattive.
Chi era il più forte economicamente o militarmente mangiava di più e, con l’aumentare della fame, i mezzi illegali erano più seguiti delle servere disposizioni in vigore.
Nel discutere quindi sui furti e sulle estorsioni in tempo di guerra bisognerebbe poter distinguere fra “appropriazioni per necessità” e “ruberie”, ma il problema resterebbe teorico per la difficoltà di discriminare in pratica le due intenzionalità.
Veniamo a dei casi concreti.
La requisizione di autoveicoli italiani da parte dei Comandi tedeschi poteva obiettivamente costituire un’esigenza bellica, però entro certi limiti. La Werhmacht superò il limite? Si è già scritto (cfr. pg. 168) che nel settembre del 1944 Mussolini scrisse testualmente a Rudolf Rahn: “La FIAT produce 50 automezzi al giorno, Ce ne lascino almeno 3 e in poco tempo avremmo quanto ci occorre per distribuire i generi alimentari alla popolazione. E non ci requisiscano quei pochi vecchi autocarri che ci fosse ancora possibile trovare”.
Se al massimo livello della R.S.I. ci si trovava in queste situazioni, è facile immaginare i sistemi e la prepotenza dei Comandi tedeschi in periferia. Su ciò ho avuto la fortuna di prendere visione di un documento interessante, sottratto dal Tar a due ufficiali tedeschi durante la ritirata: è la raccolta di tutte le Circolari della 3./le. Batterie Heeres-Flack. Art.
Si tratta delle K.T.A. (Kraftfahrttechnische Anordnungen = Disposizioni tecnico automobilistiche) del Comando di Batteria. Per l’argomento in discussione riporto il seguente stralcio, che ho tradotto, precisando che in quel periodo la Batteria si trovava nella zona fra Avezzano e Rieti:
“den 10. November 1943 – 8) a. Sulla requisizione di veicoli l’O.B. Sud ha decretato con disposizione Nr. 21692/43 del 17.9.1943 – L’arbitraria requisizione di veicoli civili italiani e di quelli con libretti di circolazione ha assunto una tale proporzione che il rifornimento dei generi di prima necessità per la popolazione è stato pregiudicato con la massima gravit.
Questa indisciplina indegna del soldato tedesco non sarà più tollerata. Proibisco perciò con effetto immediato di pena di morte aa) le appropriazioni arbitrarie di veicoli civili italiani da parte della truppa bb) la reciproca appropriazione di veicoli fra le truppe tedesche.
Sulla registrazione delle giacenze di autoveicoli italiani e sulla loro utilizzazione per le truppe sono stati emanati ordini particolari.
Condanne a causa di infrazioni contro questi ordini seguiranno a termine di legge.
I comandanti di truppa di ogni grado, nell’interesse della conduzione della guerra, pongano attenzione all’esecuzione attenta di questo ordine. Dovrà seguire subito l’opportuna informazione alla truppa.
L’ispettore tecnico (K) Hazenbein”.
In sostanza l’ispettore tecnico della Batteria svela che i soldati tedeschi rubavano arbitrariamente gli autoveicoli ai civili italiani e inoltre se li fregavano tra loro e che il fenomeno aveva assunto una tale gravità da essere costretto a minacciare la pena di morte; ammette egli stesso una “unwuerdig (indegna) Indisziplin des deuschen Soldaten”, che fa sbiadire il luogo comune: “italiani tutti ladri”.
Perlomeno a quel tempo gli Italiani non mancavano di senso dell’umorismo, se riuscirono una macchina anche alle S.S. tedesche di Adolf Hitler. Ciò risulta dal seguente stralcio:
“den 13 November 1943 – 3) Suchanzeigen (avvisi di ricerca) – Il 22.10.43 è stata rubata da parte di un volontario italiano una camionetta SS 163062del II. Pz. Gr. Rgt. “Leibstandarte Adolf Hitler””.
Sulle appropriazioni di generi di prima necessità da parte dei Comandanti e dei militari della Guardia Nazionale Repubblicana in occasione di rastrellamenti o di perquisizioni esiste già una consistente documentazione ed il minimo pretesto giustificava una vera e propria razzia vendicativa.
E va ricordato che i militi della G.N.R. mangiavano discretamente (a Staro, alloggiati nella Villa Rosa, usciva sempre un buon odore di caffè ed una testimonianza mi ha riferito che, al ritorno dal rastrellamento sul Grappa, i militi recarono gli oggetti più vari, quadri, cornici, un libro di fiabe, tutte cose che vanno oltre il limite della necessità “per la conduzione della guerra”).
In contropartita si registrano anche interventi dei Fascisti per evitare la rapacità o l’inflessibilità dei Tedeschi (cfr. pg. 567) e su questo aspetto sarebbe interessante raccogliere documenti e testimonianze.
Dalla parte della Resistenza, in tema di appropriazioni, è evidente che una guerriglia di montagna, all’aria fresca e con giovani affamati, aveva bisogno di vettovagliamento e di vestiario.
Questo fu possibile in vari modi. Innanzitutto vi fu l’invio di cibo e di vestiti da parte dei familiari e dei parenti, secondo il proverbio che “chi ga santoli, ga bussolai”; ma in proposito si deve sottolineare che le forze partigiane di Schio e della Val Leogra erano costiuite in prevalenza da operai o da agricoltori di montagna e quindi da famiglie di modeste possibilità economiche.
Era probabilmente più facile fare i “puri” e non rubare se un partigiano aveva alle spalle una famiglia danarosa, che sicuramente avrebbe inviato al proprio figlio sia denaro che generi di prima necessità.
Un secondo canale di rifornimento erano i locali Comitati di Liberazione che avevano sprattutto l’importante compito della sussistenza, e di questi Comitati si dirà più innanzi.
Un terzo canale era l’invio di generi vari e di denaro con gli aviolanci e su questo argomento sarebbe utile uno studio in campo nazionale per vedere i criteri seguiti dagli Alleati nel rifornire le varie formazioni, se vi furono cioè distinzioni di ordine politico e se l’entità del denaro lanciato debba ritenersi congruo rispetto alle necessità della guerriglia oppure se venne operato in economia al Nord rispetto al Sud, ponendo i partigiani nella condizione di arrangiarsi e di subire il danno e, nel dopoguerra, anche le beffe.
Per quanto riguarda poi la nostra zona non si può dimenticare che dal settembre del 1944 si trovava qui stanziata la Missione inglese del Maggiore Wilkinson (Freccia), il quale non era uno stupido e non poteva quindi ignorare i metodi di approvvigionamento dei partigiani ed i sistemi di raccolta del denaro.
Siccome era l’unico che avrebbe potuto ottenere via radio dei consistenti rifornimenti aerei e por fine ai prelevamenti in ambito locale, va a lui oppure ai Comandi a lui superiori la responsabilità della situazione (3).
Un altro canale erano le collette in fabbrica, a volte camuffate da motivi religiosi, ed in ciò esiste un’ampia documentazione. L’altra porta che veniva battuta era quella degli industriali locali, di cui si è già scritto. Vi erano poi i prelevamenti diretti (4) da parte delle stesse pattuglie partigiane ed anche in questo caso esistono testimonianze curiose, a volte abbastanza chiare nello svolgimento dei fatti (5) ma a volte piuttosto confuse.
Ma la confusione maggiore e il dissidio più acuto si ebbero a livello di Comitati di Liberazione: i partigiani di montagna non erano mai soddisfatti di quello che mandavano su i Comitati ed in qualche caso li accusavano di inviare meno di quello che avevano prelevato o di averlo ripartito male.
Sull’argomento avevo raccolto una serie di testimonianze relative all’ambiente di Torrebelvicino, dove sembra siano successi numerosi fatti curiosi.
Innanzitutto vengono qui riferiti degli stranissimi rapporti fra l’ambiente della Resistenza, i Fascisti e relativi parenti, i Comandanti del presidio tedesco. Poi l’ambiente di fabbrica testimonia alcune penombre: prelevamenti di generi che figurano a nome dei partigiani, mentre sembra non lo fossero; asportazione di cinghie di trasmissione ad opera di partigiani, arresto di ostaggi, ritorno delle cinghie per trattative con il Comando tedesco di Schio; appostamenti di partigiani “veri”, decisi a risanare l’ambiente, per individuare alcuni civili che rapinavano per fare il mercato nero; accuse verso un certo “Comitato grana” così detto in relazione alla spartizione di alcune pezze di formaggio.
L’impossibilità di andare veramente a fondo delle singole situazioni, le numerose discordanze di opinioni, il clima teso quando si rispolverano certe faccende, mi hanno sempre trattenuto dal riportare le notizie raccolte e mi hanno convinto che difficilmente si riuscirebbe a chiarire completamente la situazione; vi è anzi il pericolo di coinvolgere persone o partigiani che magari non avevano avuto alcuna responsabilità dei fatti avvenuti.
Mi sorge inoltre il dubbio che in varia misura situazioni simili siano presenti un po’ dappertutto, proprio per lo stato di necessità del tempo, ma che in alcuni luoghi tali fatti abbiano assunto una coloritura più accesa.
I prelevamenti di zucchero nel Magazzino di Isola Vicentina, pur non essendo anche questi molto chiari, sono perlomeno suffragati da alcune testimonianze scritte.
Seguiamo la vicenda sulla scorta di una dichiarazione datata 25 luglio 1945 a firma autografa di Bortolan Narciso (“Io sottoscritto Bortolan Narciso fu Carlo e di Biciato Regina, nato a Polverara (Padova) il giorno 12.8.1906, a precisione dello svaliggiamento del Magazzino di zucchero di Isola Vicentina, si pregia di portare a conoscenza i seguenti fatti”).
Per non coinvolgere nomi di persone ho seguito il criterio discrezionale di riportare in qualche caso, dal testo originale, le sole iniziali.
Chi prelevò lo zucchero?
“Il giorno 15 novembre 1944 alle ore 19,30 gente mascherata e armata fece irruzione nella mia casa dichiarandosi Partigiani. Rinchiuso il sottoscritto in cucina con tutti i membri della famiglia e tre operai di Recoaro (Storti Giuseppe, Asnicar Antonio, Pegrasso Giovanni) mentre ci trovavamo in quella posizione, i suddetti ruppero la porta del magazzino ed asportarono 16 quintali di zucchero che venne caricato in un camioncino.Inoltre vollero circa 20 litri di vino, pane e dei sacchi vuoti, dicendo che ciò era destinato ai Partigiani comunisti”.
E fin qui niente di eccezionale, senonchè:
“Il 23 novembre 1944 avvenne il secondo prelevamento da gente armata ed a viso scoperto questa volta. Ci rinchiusero nuovamente in cucina, si recarono nel magazzino e trovando la porta la sfondarono e asportarono in tutto 70 quintali di zucchero, vollero litri 50 di vino, pane e burro degli operai, lasciando però questa volta un buono, dicendo però che il prelevamento era stato fatto per i Badogliani”.
Sembra che i Badogliani siano andati con mano un po’ più pesante dei Comunisti nella quantità prelevata, ed in una notina a parte, che però è anonima, trovo scritto: “Q.li 15 di zucchero alla pattuglia che lo prelevò più L. 800 a G. per facchinaggio”.
Ma i prelevamenti ad Isola non finirono lì perché il Bortolan scrive ancora:
“La sera successiva 24 novembre 1944, mentre tutti si dormiva, arriva nella mia abitazione verso le 21.30 una pattuglia tedesca. Il capo bussò alla porta e, visto che nessuno rispondeva, si rivolse ad una famiglia vicina, un certo Canaglia. Tornò a ribussare alla porta dove dormivano gli operai della Ditta; questi mi avvertirono e così fui costretto ad aprire. La pattuglia era comandata dal Serg. Tedesco Peritit. Esaminarono il luogo dove erano successi i furti e mandandomi a letto mi dissero che ora erano loro i responsabili del magazzino”.
Con l’intervento dei Tedeschi si potrebbe pensare che finalmente lo zucchero si trovasse in buone mani ed al sicuro. Viceversa:
“A mattina del giorno 25 novembre 1944 una macchina tedesca, accompagnata dal Vice-commissario di Isola Vicentina, caricò diversi sacchi di zucchero ed appena la macchina fu partita chiesero il mio carro con i buoi e trasportarono altri sacchi di zucchero in una famiglia vicina.
Risposi che non potevo soddisfare la sua richiesta dato che i buoi erano nei campi al lavoro.
Si rivolsero nuovamente al Canaglia ed in una “barossa” trasportarono in casa del Canaglia 6 sacchi di zucchero e da lì furono trasportati nelola casa del G. Viste tutte queste manovre, mi recai a Recoaro il giorno 25 novembre alla Direzione e raccontai i fatti avvenuti in così breve tempo”.
Decisamente il gestore del Magazzino dello zucchero di Isola ebbe l’impressione che i prelevamenti del Vice-Commissario, d’accordo con i Tedeschi, non fossero del tutto regolari. Infatti egli scrive:
“Mentre mi trovavo a Recoaro il Vice-commissario di Isola Vicentina, unito all’incaricato dell’Annonaria A.G., mentre cercavao di tenere a bada mia moglie, con altre persone caricarono 5 sacchi di zucchero dicendo che erano per la popolazione e per l’Ospitale e che sarebbe stato rilasciato il buono di prelevamento. Solo una piccola parte però dello zucchero fu distribuito, mentre tutto il resto non si sa che fine abbia fatto. Questi prelevamenti furono fatti in presenza della guardia tedesca”.
A questo punto la Direzione del Magazzino volle andare a fondo sulla vicenda, e infatti il Bortolan scrive:
“Venuto il rag. Emilio Filiaci il giorno 28 novembre 1944 e informato del tutto, si cercò di andare a fondo della cosa e per risultato si ottenne che fu bloccato dai Tedeschi un camion carico con quintali 99 di zucchero, che era stato salvato perché situato in un altro magazzino. Detto zucchero doveva essere trasportato a Recoaro con regolare ricevuta; nella stessa sera, dopo varie discussioni con il Ten. Tedesco, fu deciso di lasciare il camion in paese accompagnato dal rag. Filiaci e dall’autista Zaccaria ritornante all’abitazione per passare la notte. Trovammo per la strada i Partigiani, che ci credevano Repubblicani fascisti, (ma), chiarita la cosa, ci lasciarono”.
Il Bortolan cercò allora di raccogliere notizie e difatti riuscì a sapere che:
“La sera stessa 28 novembre il fornaio di S.Tomio diceva in pubblico che aveva comperato un sacco di zucchero per Lire ventimila. Fatta una piccola indagine, il Go. Stesso (incaricato dell’Annonaria) diceva che un carretto era andato a finire dal sopranominato P.V. della G.N.R. di S.Tomio e lo stesso fatto mi confermava il figlio del castaldo, asserendo che proprio il fratello ve lo aveva portato da Isola Vicentina a S.Tomio.
Un altro carretto fu portato alla fornace dello stesso paese ed il carrettiere era da Castelnuovo. Il Go. Si è poi lamentato che i Tedeschi non gli avevano dato il denaro per lo zucchero che avevano venduto.
Il Vice-commissario F.G. disse che il Serg. Tedesco gli aveva dato solo mille lire per lo zucchero che avevano venduto, mentre ne avevano preso trentanovemila.
I suddetti soldi furono dati al cognato di P. al F. e alla presenza della Signora Baciliero di Isola Caffè Centro.
Il Serg. (tedesco) disse poi che aveva preso 5000 lire al quintale. - Isola Vicentina, 25 luglio 1945 – Bortolan Narciso (firma autografa)”.
Qui si concludono le inchieste del gestore del Magazzino dello zucchero condotte al fine di accertare i traffici di parte fascista e tedesca.
Quando Ferruccio Manea (Tar) di Malo venne a sapere della faccenda, andò su tutte le furie contro alcuni del Comitato e minacciò dei provvedimenti. Dopo la Liberazione il Tar raccolse alcune dichiarazioni al fine di dimostrare che una buona parte dello zucchero era stata venduta al mercato nero. A suffragare questa tesi stanno i seguenti documenti:
“Io sottoscritto Strobbe Bruno dichiaro di aver acquistato dal Signor…. Di Malo quintali 30 di zucchero a L. 110 centodieci, tale zucchero è stato preso in località Vallunga Folco, il predetto è stato scaricato a Torre, presenti erano signor Dalla Vecchia Romolo e il signor Trambaiolo Giuseppe. Tale dichiarazione fu redatta in presenza dei signori Calcara Giuseppe, Manea Zeffirino e Manea Ferruccio. In fede Strobbe Bruno – Torre 5.2.1947”.
Anche Giuseppe Trambaiolo dichiara:
“Io sottoscritto Trambaiolo Giuseppe di Benvenuto residente a Schio in via Centa 6 dichiaro di aver acquistato, in data 27 novembre 1944, Q.li 30 (trenta) di zucchero dal Sig…..di Malo a L. 120 (centoventi) al Kg. (kilogrammo). Tale zucchero fu prelevato in località Valugana (Folco) e scaricato in Thiene, presenti al trasporto i Sigg. Bruno Strobbe e Romolo Dalla Vecchia residente a Torrebelvicino. Sulla macchina, oltre i 30 (trenta) quintali di zucchero da me acquistato, ce n’erano altri trenta (30) quintali di cui non so la destinazione o l’acquirente. Tale dichiarazione redatta in data sottoscritta dinanzi ai Sig.ri Marchioro Gaetano, Manea Zeffirino, Calcara Giuseppe e Manea Ferruccio. - Schio, 5.2.47 – Io sottoscritto Trambaiolo Giuseppe”.
Le due dichiarazioni sono manoscritte ed autografe, inoltre il Maestro Trambaiolo ha riletto di recente il suo scritto e me lo ha riconfermato.
Ma alle tesi del Tar si può obiettare che probabilmente il Comitato di Malo ritenne più opportuno vendere la maggior parte dello zucchero al mercato nero ed inviare ai Partigiani il corrispettivo in denaro. Che, anche prima dei prelevamenti di zucchero, il Tar abbia ricevuto del denaro dal Comitato è dimostrato dalle seguenti ricevute firmate dallo stesso Tar e che mi sono state appunto consegnate dai difensori del Comitato:
“Dichiaro di aver ricevuto 5.000 mila + altre 20.000 Totale 25.000 lire per il fondo cassa. Dal capo pattuglia “Gianni” (6). Il Comandante Tar” (senza data).
“Ricevo 20.000 ventimila dal Capo pattuglia Gianni. 6.7.44. - Il ricevitore Tar”.
“Ricevo dal C.p. Gianni la somma di L. 34.000 (trentaquattromila) – 27.7.44 – Il Com.te Distacc.to Tar”.
Ma anche queste ricevute, da sole, non sono esaurienti. Il solo incasso dei 30 quintali di zucchero del Maestro Trambaiolo (L. 120 al chilo) danno un importo di L. 360.000 e ciò dimostra che le cifre in circolazione erano piuttosto elevate. Un giudizio attendibile potrebbe derivare dall’esame dell’intera contabilità del Comitato durante la Resistenza. Questa venne infatti esibita dopo la Liberazione, discussa e commentata.
Va tenuto presente che nella zona di Malo non operavano solamente le formazioni garibaldine del Tar ma anche formazioni “autonome” (7) e che il Comitato di Malo era in collegamento con tutte e quindi cercava di erogare generi vari e denaro un po’ agli uni ed un po’ agli altri.
A questo punto allora il problema della vendita dello zucchero viene a spostarsi sui criteri di ripartizione seguiti dal Comitato.
Fu quest’ultimo più largo verso alcune pattuglie e meno verso Tar? E se ciò realmente avvenne, quali ne furono i motivi?
A mio parere il nucleo della vertenza sta proprio in questa ripartizione e forse meno nella contabilità generale.
Ma nell’economia dei Quaderni non vi è possibilità di dedicare molto spazio all’intera faccenda, anche perché, a complicarla, risulta con certezza (nessuno lo ha negato) che “Gianni” ad un certo punto ebbe l’ordine di sopprimere il Tar.
Dopo la Liberazione “Gianni”, ora deceduto, non volle più parlarne. Sembra comunque che l’ordine provenisse dal Comando militare di Vicenza, peròè evidente che, se tale ordine ci fu, il Comando decise sulla scorta di fatti e di elementi, reali o presunti, riferiti e sottoposti al Comando da parte dell’ambiente di Malo.
Interpellato qualcuno in proposito, mi fu risposto che il Tar era ritenuto troppo autoritario e che si atteggiava a “re della foresta”, ma difficilmente si può far reggere una sentenza di morte su questioni di temperamento.
Sembra più attendibile l’ipotesi che il Tar fosse un elemento scomodo e minaccioso contro certe ripartizioni operate dal Comitato e che lui stesso, come appunto dichiara, avesse minacciato di far guerra a più di qualcuno di Malo, una volta sceso dalla montagna, come appunto fece dopo la Liberazione cercando di raccogliere documenti e testimonianze a dimostrazione delle sue tesi.
Furono costruite accuse contro il Tar presso il Comando di Vicenza in modo da giustificare l’eliminazione di un elemento così scomodo?
Il dubbio esiste.
Vi giocarono anche motivi di colore politico? Ritengo che sia veramente difficile venire a capo dell’intera faccenda perché, a distanza di 35 anni, la battaglia delle accuse e contro-accuse è ancora molto accesa e vivace.
L’argomento è stato qui accennato unicamente con lo scopo di dare un’idea di quali stranissimi “traffici” vi fossero a quel tempo, quando si trattava di mangiare. E si è visto quante vespe siano state attirate dalla dolcezza dello zucchero di Isola Vicentina (tedeschi, fascisti, comunisti, autonomi, comitati, impiegati, privati) e quante proteste e recriminazioni vi siano ancor’oggi nell’aria da parte di coloro che ritengono di essere stati esclusi dalla festa.
Dobbiamo concludere per un’assoluzione generale dei Tedeschi, dei Fascisti, dei Partigiani a causa dello “stato di necessità” oppure a causa della difficoltà di una ricostruzione dei fatti e quindi di una precisa attribuzione di responsabilità a singole persone?
Una tale conclusione sarebbe ingiusta verso coloro che soffrirono la fame in silenzio e sopportarono inauditi sacrifici per non essere nelle condizioni di “trafficare” o per un loro rifiuto morale a ricorrere a sistemi che di riflesso danneggiavano gli altri.
Il problema, a mio parere, va posto in termini generali cercando di stabilire alcuni criteri di valutazione.
Possiamo documentare che le truppe tedesche stanziate nella nostra zona soffrivano la fame o mancavano di mezzi di sussistenza? Se ciò non è dimostrabile, i traffici illegali di qualche soldato o graduato tedesco devono considerarsi indegni, in quanto i Tedeschi disponevano di mezzi di convincimento (disposizioni eccezionali, armi, terrorismo psicologico) per ottenere subito e senza discussioni ciò che volevano: dalla requisizione per necessità o per punizione (cfr. pg. 565) era per loro facile il passare alla ruberìa arbitraria e non indispensabile.
Il ricavato del traffico o della ruberìa veniva usato per generi voluttuari o per accontentare qualche ragazza compiacente, la quale risolveva così il suo problema della fame.
Qui ci addentriamo nella cosiddetta “morale del soldato” di tutti i tempi e di tutte le guerre, la quale trova ad un estremo il rigorismo di certi ufficiali che invocano la pena di morte per ogni infrazione (cfr. prima l’Ispettore Hazenbein) ed all’altro estremo la tendenza della truppa a godere il più possibile nell’imminenza di una morte probabile.
Storicamente, anche nell’ultima guerra, troveremo della documentazione ineccepibile di teutonica intransigenza nelle requisizioni, ma troveremo anche testimonianze e documenti di vergognose ed ingiustificate appropriazioni verso degli inermi.
Nell’ordine delle colpevolezze vengono subito dopo i militi della G.N.R. e quanti altri potevano usare l’appartenenza alla R.S.I. per commettere atti arbitrari e non indispensabili alla condotta della guerra (razzie indiscriminate e distruzioni per vendetta contro le famiglie dei partigiani, vessazioni, violenze carnali ampiamente testimoniate anche nella nostra zona, traffici equivoci, soprusi a sottofondo personalistico per antiche ruggini, ecc.).
Anche per essi, come per i Tedeschi, prima di trovare delle giustificazioni, devesi accertare il reale stato di necessità del singolo o l’effettiva “ragione di guerra”.
Ma forse, pure in questi, troveremo gli intransigenti del comportamento corretto accanto ad alcune persone veramente indegne, a giudizio anche dei Fascisti (sembra che qualcuno sia stato ucciso dagli stessi militi della G.N.R.).
Forse uno studio dei processi istruiti nel dopoguerra potrebbe far luce su molti avvenimenti, ma i processi sono dei casi limite, mentre è uno studio statistico che dovrebbe accertare in quanti e quali casi vi fu un indegno “abuso di autorità” favorito dalla situazione bellica.
Ogni guerra reca con sé una forte carica di negatività e favorisce il manifestarsi di alcuni aspetti deteriori dell’animale uomo.
Il furto in periodo bellico era per buona parte collegato al cibo per vivere, direttamente o per scambio di merci, ed è quindi importante distinguere fra i ladri “a pancia piena” e quelli a pancia vuota.
Un secondo aspetto indegno delfurto in periodo bellico fu l’appropriazione di beni (oro) e di denaro mediante un mercatonero intenzionalmente operato a scopo di lucro personale in un momento di generale sofferenza della popolazione.
Erano nella possibilità e nelle condizioni migliori per fare il mercato nero i produttori di generi alimentari e di articoli di prima necessità (agricoltori, coltivatori diretti, piccoli industriali), gli addetti alla burocrazia degli ammassi, i commercianti.
Senza dubbio, entro certi limiti, il mercato nero era una necessità di sopravvivenza né si può far colpa a coloro che lo praticarono per mantenere la famiglia e per sostenere modestamente il loro commercio fino alla fine della guerra: furono la maggioranza.
Alcuni anzi arrischiarono delle gravi sanzioni, la deportazione, la fucilazione, per aiutare parenti, conoscenti, amici, partigiani, bisognosi di generi alimentari o di articoli di necessità, svolgendo così una funzione illegale ma indispensabile.
Non mancarono però “i disonesti”, i cui nomi, in un paese, è abbastanza facile da individuare.
La migliore fonte di informazione sono certe persone curiose che sanno tutto di tutti: nascita, matrimoni, parentele, censo, proprietà, reddito, eredità, arricchimenti improvvisi, fallimenti, carattere, umori, correttezza o meno di comportamento.
Sulla scorta di queste segnalazioni si possono controllare le consistenze patrimoniali esistenti prima e dopo la guerra.
Direi che questo criterio “del prima e del dopo” è abbastanza importante per distinguere i ladri occasionali per fame dai ladri per lucro, cioè gli arricchiti dell’immediato dopoguerra.
Che sia questa la prima storia da scrivere in fatto di appropriazioni indebite potremmo trovare tutti d’accordo, sia il milite della G.N.R. che il partigiano, poveri e modesti prima della guerra, poveri e modesti dopo la guerra. E quando trovo persone che, fino a pochi anni fa, giravano con le scarpe con i buchi e vivono ancora di un modesto lavoro, sono piuttosto cauto nell’accettare senza attenuanti eventuali accuse di ruberie effettuate durante la guerra.
NOTE
(1) – Gaetano Salvemini e Giorgio La Palma, nel luglio 1943 a Cambridge Mass. (U.S.A.), nel loro libro “WHAT TO DO WITH ITALY?”, al Capitolo I. FASCISMO SENZA MUSSOLINI I. Progetti in preparazione, scrivevano (pg. 26 dell’Ediz. Italiana): - “Ancora più equivoco è stato, per usare un termine eufemistico, l’atteggiamento del Dipartimento di Stato di fronte all’Italia. Per quanto il pubblico americano è in grado di giudicare, da quanto è trapelatointorno ai piani escogitati segretamente con discrezione negli alti circoli, i nostri diplomatici a Washington sarebbero decisi a soppiantare Mussolini con un Darlan o Pétain italiano, tolto dai ranghi fascisti civili o militari.
Se un siffatto piano sarà portato a compimento, la monarchia dei Savoia rimarrà a garanzia contro ogni rivoluzione radicale.
Una coalizione di ex gerarchi, di grandi uomini d’affari e di clericali sostenuti dal Vaticano, assumerebbe il governo del paese, sotto la protezione degli eserciti di occupazione americani e inglesi. Alcune delle più estremiste leggi fasciste verrebbero abolite, qualche concessione verrebbe fatta per salvare le apparenze democratiche ed il nuovo regime, a quanto pare, sarebbe salutato come l’adempimento della Carta Atlantica e dei principi così energicamente proclamati dal Presidente Roosevelt”.
NOTA PERSONALE
Se le impressioni e le notizie raccolte da Salvemini e La Palma nell’ambiente americano nel 1943 corrispondevano realmente ai disegni di massima degli Americani in merito all’assetto politico dell’Italia post-bellica, devo concludere che gli Americani dopo la Liberazione, si sarebbero praticamente orientati nel senso di: a) impedire ogni movimento potenzialmente rivoluzionario rispetto ai piani americani ( in quel momento potevano essere tali le forze partigiane ed in particolare le brigate garibaldine in mano dei Comunisti) b) favorire la politica dell’”ambiente cattolico” e del Vaticano come elemento stabilizzante della situazione c) garantire il funzionamento dell’amministrazione pubblica mediante elementi conservatori e fautori dell’ordine, mantenendo quindi ai loro posti gli ex Fascisti del ventennio, anche se gerarchi, purché non si fossero compromessi clamorosamente con la R.S.I.; epurare i “minori” nei settori di poca importanza al fine di accontentare l’opinione pubblica d) conservare sostanzialmente la legislazione fascista (es. Codice Rocco), già ampiamente studiata e collaudata per mantenere l’ordine, procedendo con cautela nelle modifiche e) favorire il mantenimento della monarchia dei Savoia, però nella misura della sua reale utilità nel garantire la stabilità dell’ambiente italiano.
In rapporto alla Resistenza, questo “programma italiano” degli Americani non poteva sconfessare ufficialmente tutto il movimento partigiano ma neppure esaltarlo al punto da favorire la sua potenzialità rivoluzionaria. Così venne scelta la strada del disinnesco e del raffreddamento ad opera di coloro che in Italia, ed erano in parecchi avevano l’interesse economico o politico o personale per svolgere un ostruzionismo larvato o una denigrazione subdola verso i Partigiani.
Ma una politica denigratoria sotterranea e durevole contro un gruppo sociale porta sempre ad inasprire la coscienza di gruppo ed è causa di gravi conseguenze.
I Fascisti, contnuamente bersagliati o ridicolizzati nei loro aspetti negativi, hanno covato probabilmente un sordo rancore.
I Partigiani scesi dalla montagna teoricamente vincitori dopo mesi di sofferenze, si sentirono dei traditi e ciò avvenne anche in coloro che non avevano alcuna velleità rivoluzionaria ma unicamente l’intenzione di ricostruire un’Italia in macerie.
Un diffuso senso di tradimento si radicò nelle famiglie e la diceria astiosa, la calunnia, il ridicolo vanificarono quel naturale comporsi dell’animosità bellica e quell’affievolirsi dei ricordi più sgradevoli.
Ad esclusione di pochi studiosi addetti ai lavori, tutta la storia della R.S.I., specie quelle locali, non potè essere intrapresa con serenità.
Sicchè mancano le “ragioni degli altri”, che potremmo non accettare ma che abbiamo il dovere di ascoltare. Tutti i sacrifici dei soldati italiani sui vari fronti, la sofferenza della nostra gente, non hanno avuto lo spazio che meritano e solo dopo oltre trent’anni si comincia ad accorgersi dell’ingiustizia, dopo che ci siamo sorbiti sugli schermi televisivi i filmetti americani di guerra, indegni per la cultura europea.
L’omissione più lampante riguarda i militari italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943, che pure appartengono alla Resistenza, ma che sembrano quasi cancellati dalla storia.
Un’ottica culturale tutta incentrata sulla politica dello scontro fra i due blocchi (Americani e Russi) ha fatto dimenticare che il problema europeo della cultura nostra è invece il rapporto di amore-odio fra la mentalità germanico-nordica e lo spirito latino-mediterraneo.
Nessun astio contro la Coca Cola o la Vodka, ma che almeno non ci contrabbandino la birra o il vino con etichetta americana o in cirillico.
In Italia si parla di crisi dei valori dal tempo di Seneca, ma intanto si continua ad etichettare le persone con disprezzo (eretico, clericale, fascista, anarchico, comunista) cercando di scolorire l’immagine degli altri con la “diceria” e la corrosione. E poi si fa gran meraviglia che aumenti l’aggressività in luogo della tolleranza, dell’umorismo benevolo, della comprensione degli eventi e dei comportamenti.
(2) – “Le convocazioni di singoli partigiani avanti l’Autorità giudiziaria erano frequentissime per eventi che erano stati solo ed esclusivamente azioni di guerra (o determinate dalla guerra) e dei pochissimi episodi che con la Resistenza poco o nulla avevano avuto a che fare: tutto serviva per far aprire un’istruttoria. Ciò che ci faceva rabbia era la constatazione che noi eravamo le vittime della divisione del mondo in due blocchi e che la persecuzione era promossa dal cosiddetto ordine costituito composto di gente che non aveva né rischiato, né sofferto, né meritato la libertà.
Tale situazione cessò verso il 1955 con il necessario, anche se strumentale, recupero dei valori della Resistenza. Per fortuna, nella società c’è sempre qualche persona integerrima e di coraggio; in quegli anni giudice istruttore presso il Tribunale di Vicenza era il dott. Canilli, uomo di notevole umanità e di rara sensibilità, che sapeva valutare immediatamente il caso.
Assieme a lui ricordo un altro magistrato ora scomparso: il dott. Filippi, pretore di Schio.
Sono trascorsi circa sei lustri, ma l’amarezza di allora non è mai scomparsa del tutto” (Valerio Caroti “Giulio”).
Per una migliore informazione va letto il lavoro di Emilio Franzina, L’azione politica e giudiziaria contro la Resistenza (1945-1950), da pg. 220 a pg. 259 del volume AA.VV. “I cattolici dal fascismo al 18 aprile”, Marsilio Editori, Venezia, 1977. In esso vi è una bibliografia sull’eccidio di Schio ed alcune considerazioni dell’autore sull’argomento.
(3) – “Se avessimo dovuto mangiare, sparare e camminare solo con quanto vi veniva paracadutato, penso che non ci sarebbero stati dei sopravvissuti (vedi quanto scritto nel 2° Quaderno in “Le armi della guerriglia”). Solo negli ultimi mesi fu paracadutato tanto di quel plastico che se, per un incantesimo, si fosse trasformato in formaggio si sarebbe potuto sfamare il Triveneto. Le armi furono sempre poche nonostante gli eccellenti rapporti, anche sul piano dell’amicizia personale, tra il Comando delle formazioni scledensi e la Missione Alleata. Ho l’impressione che le disposizioni restrittive partissero da molto in alto giacché mi sono accorto più volte che i membri più giovani della Missione non riuscivano a mascherare, nonostante il classico riserbo inglese, un certo disappunto dopo ogni lancio. Debbo pur dire che dopo la morte di Freccia il lancio di armi pesanti ebbe un modesto incremento, ma ormai eravamo alle ultime battute” (Valerio Caroti “Giulio”).
(4) – “Quantunque i bisogni fossero ridotti al minimo indispensabile, i fondi raccolti dal C.L.N. di Schio tramite le collette tra gli operai e le sovvenzioni di industriali, commercianti, ecc. non erano sufficienti a sopperire alle necessità delle formazioni. Allora per forza si doveva andare “a credito”, ma sempre venivano rilasciati dei buoni firmati da me o da Alberto, o da Sergio, da Randagio, da Turco, da Braccio e da altri. Lo Stato italiano riconobbe quei buoni, che per la maggior parte furono rimborsati a quei pochi che li custodivano. Purtroppo il pagamento avvenne al valore nominale per cui il proprietario di un vitello pagato nel 1944 con un buono da mille lire, ricevette puntualmente nel 1970 mille lire. Fino a pochi anni fa la Guardia di Finanza veniva sistematicamente da me per il riconoscimento delle firme (Valerio Caroti “Giulio”).
(5) – “Il tessuto portante dei generi di conforto era dato dalla grappa distillata nel bosco e dal tabacco scuro conciato approssimativamente con il salnitro. Ogni tanto la grappa, causa l’eccesso di alcool metilico, procurava qualche leggero avvelenamento, ma erano inconvenienti di poco conto rispetto ai benefici che arrecava. Capitavano poi certe occasioni, colpi di mano su magazzini, su automezzi militari, che arrotondavano sostanziosamente i generi di conforto.
Un’occasione fu particolarmente di vasta portata. Nel luglio del 1944 venimmo a sapere che presso la Fabbrica Cioccolato “Dolomiti” di Santorso era celata tanta roba che il Comando tedesco intendeva requisire per le proprie forze armate.
Pensammo che invece quella roba poteva essere più utile a noi. Così due camions “Taurus”, requisiti nei giorni precedenti alla Wehrmacht, partirono da Posina, salirono al Colle Xomo e per le strade di Monte Alba scesero ai Tretti e di lì fino alla fabbrica Saccardo.
A mattino buio attraversarono Santorso fino alla fabbrica Cioccolato “Dolomiti”. Gli uomini trovarono presto la roba (mi pare ci fosse anche Turco), senonchè, caricati i “Taurus”, restava ancora della merce.
Allora prendemmo a prestito il motocarro elettrico della Saccardo e potemmo lasciare la fabbrica pulita. I due grossi autocarri partirono gagliardi, mentre il motocarro elettrico denunciò subito qualche difficoltà a tenere il passo, tanto che ai primi tornanti di S.Ulderico, perdemmo di vista il grosso del convoglio che giunse felicemente a Posina.
Il motocarro invece si arenò definitivamente sulla salita che da sopra contrà Vallortigara porta al poggio ove ora c’è il monumento ai Caduti della Val Leogra.
Situazione spiacevole perché potevo contare solo sul partigiano che conduceva il motocarro (Tokio) e su altri due. Di fatto scaricammo la merce nascondendola nel bosco e dopo tre ore venne un “Taurus” con adeguata scorta a ultimare il trasporto, mentre Tokio tornò alla Saccardo per avvertire chi di dovere che il motocarro non poteva essere restituito in sede.
La merce (circa 40 q.li di zucchero, 30 q.li di cremino, 2.400 bottiglie di liquori, se ben ricordo) fu euquamente divisa fra tutte le pattuglie e tra la popolazione che ci ospitava venne fatta una grossa distribuzione di zucchero.
C’erano molte bottiglie di liquori pregiati come Strega, Chartreuse, Brandy, ecc., ma c’erano soprattutto bottiglioni di anice e diversi partigiani per parecchi anni non vollero più sentire parlare di anice” (Valerio Caroti “Giulio”).
(6) – CLEMENTI GIUSEPPE (“Gianni”) – di Francesco e di Cerisara Maria. Nato a S.Vito di Leguzzano il 9.3.1921. - V Elementare. Soldato di leva Cl. 1921, quale ex marittimo reinserito sulla lista di leva di terra e lasciato in congedo illimitato, il 18 settembre 1940.
Chiamato alle armi l’11.1.1941 nel 232° Rg.to Fanteria Btg. Mitraglieri. Partito da Brindisi il 29.8.1941 per Corinto e rimasto in zona di guerra fino al 13.7.1942. All’8 settembre 1943 si trovava in Balcania. Ha fatto parte dall’1.3.1944 all1.5.1945 della Brigata Partigiana “Cesare Battisti” come capo-nucleo dall’8.3.1944 al 14.4.1944 poi di caposquadra del 15.4.1944 all’1.5.1945. Collocato in congedo illimitato dal 8.3.1946. - Vicenza 13.5.1965 (Dal Foglio matricolare gentilmente fornito da Totti Giuseppe di Malo).
TOTTI GIUSEPPE (Tito). Fu Francesco (operaio filanda deceduto per incidente nel 1962) e di De Marchi Maria (filandiera, casalinga). Nato a Malo il 16.7.1922. Artiglieria someggiata a Conegliano, poi un corso di contraerea. “Poco prima dell’8 settembre 1943 ci stavano rimpatriando per portarci a Roma, ma a Lavagna vicino a La Spezia i Tedeschi ci bloccarono sul treno. Io ed altri Vicentini siamo fuggiti e tornai a Malo a piedi, arrivando dopo una ventina di giorni.
Dopo una quindicina di giorni ebbi i primi contatti con Gigi e Bruno Meneghello, poi con Ghellini. Ricordo che andavo a Vicenza a portare i volantini della Giovnae Italia, con deposito in casa di Qualtiero Eugenio. Ebbi ulteriori contatti con giovani renitenti e soprattutto con “Gianni”, che merita di essere ricordato degnamente: partecipò ed ebbe un ruolo importante nella battaglia del Pasubio”.
(7) – Dalle notizie raccolte nella zona di Malo non mi è stato possibile chiarire del tutto la situazione “reale” durante i venti mesi della Resistenza a causa dei rapporti complessi e variabili tra le singole persone. Vi troviamo la garibaldina “ISMENE” con il Tar, ma è presente anche la “CESARE BATTISTI” autonoma, oltre alla cosiddetta “Pattuglia degli studenti”.
Di solito si rileva un buon affiatamento, una collaborazione d’intenti e l’intrapresa di azioni in comune, ma in qualche situazione, o nei rapporti tra alcune persone, si manifestano a volte degli attriti non solo tra formazioni ma a volte anche all’interno della stessa formazione.
Quanto venne ufficializzato dopo la Liberazione probabilmente non corrisponde del tutto alle vicende ed ai ruoli che si ebbero allora. Di qui i contrasti di opinione, le frequenti incomprensioni, i commenti a sfondo chiaramente personalistico.
Non è stata scritta una storia della “Cesare Battisti”, sulla scorta di documenti e di testimonianze, per cui vengono a mancare molte conoscenze di fatti e di personaggi operanti nella zona di Malo.