QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Luglio 1980 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
Volume XI
[da pag. 561 a pag.568]
CONTRADA CHIUMENTI
di Carolina Chiumenti
Towradgi (New South Walles) Australia
Qui, lontana 20 mila km dalla mia terra natìa, circondata dall’affetto dei miei cari, la mia vita trascorre abbastanza serena, senonchè molto spesso la nostalgia della mia gente, del mio paesello e delle mie montagne si fa veramente penosa. E’allora che tanti ricordi della mia vita passata si fanno vivi come se fossero accaduti ieri.
Finchè era vivo mio marito Albino non era così, perché, specie negli ultimi anni, le cure continue che il suo stato richiedeva non lasciavano quasi il tempo di pensare. Povero Albino, la sua età ma soprattutto l’arteriosclerosi gli confondeva la testa che da un’ora all’altra non ricordava più niente.
Però quando si metteva a parlare di guerra i suoi ricordi erano ancora lucidi! Era Cavaliere di Vittorio Veneto, e la guerra l’aveva fatta dal primo giorno all’ultimo come guida alpina sul Pasubio che lui conosceva come le sue tasche. Si era guadagnata anche una medaglia di bronzo al Valore Militare.
Era sempre stato un uomo forte come l’acciaio, ma ultimamente, quando riviveva i suoi ricordi, finiva sempre che piangeva come un bambino. E’ morto un anno fa, alla bella età di 82 anni. Io, di anni ne ho 75 e sono una vecchietta tutta grinze e acciacchi. Come mio marito dimentico le cose vicine, mentre quelle lontane….A volte mi trovo a fare dei confronti con questa pacifica terra d’Australia, dove i miei nipoti, che i ventanni li hanno passati, non sanno neanche cosa sia la vita militare, la naia, mentre nella nostra Italia la pace, specie negli anni della mia giovinezza, era sempre stata una chimera.
E dietro a questi ricordi la mia mente ritorna al tempo beato di quando ero una ragazzina felice in una famiglia felice. Era una povera casa di contadini la nostra. Lassù sui pendii del monte Pasubio, a due passi dal confine italo-austriaco.
Quanto avevano sudato i miei su quella poca terra sparsa a fazzoletti su per la collina! Questo però non vuol dire che fossero malcontenti o infelici; anzi, i miei genitori non chiedevano di più, perché sapevano di possedere già i più grandi tesori: i figli. Avevo tre meravigliosi fratelli, Antonio del 1894, Giovanni del 1896 e Paolo del ‘99; l’ultima ero io, Carolina, del 1902, una nullità in confronto a loro.
Però il mio ruolo ce l’avevo anch’io, se mia madre – quando faceva le confidenze alle amiche – diceva: “Ora che ho avuto la grazia di avere la bambina tanto desiderata, non saprei davvero cos’altro chiedere al Signore”. Mia madre era analfabeta, non era mai entrata in una scuola. Invece mio padre...certo non era andato oltre la terza elementare, come tutti noi, però era un appassionato di letteratura e alla domenica e nelle lunghe sere d’inverno, seduto al focolare o nella stalla, al chiarore di un lume a petrolio leggeva i libri che andava a prendere nella piccola biblioteca parrocchiale. E poi raccontava: e pareva che avesse girato tutto il mondo! Non comperava giornali, però era abbonato all’Operaio cattolico, che distribuivano tutte le domeniche in Sacrestia.
Ma nell’estate del 1914, quando la Germania si era messa in guerra, incominciarono a circolare in casa anche altri giornali, come il Corriere della Sera o il Gazzettino, secondo quello che era riuscito a trovare in paese. E man mano che passavano i giorni ed i mesi si faceva sempre più preoccupato, finché nella primavera del 1915 non ebbe più dubbi.
Mentre fervevano i lavori della semina, pur tornando stanco alla sera dai campi, se non trovava il giornale andava lui stesso a piedi per quei tre Km. che ci separavano dal paese. Un giorno che mia madre gli aveva posto la solita domanda – “Ci sarà la guerra?” - lui rispose: - “Sì, ci sarà e sarà una guerra lunga e spaventosa. Purtroppo noi abbiamo tre figlioli…” e le lacrime gli rigavano la faccia, proprio lui che non avevo mai visto piangere.
Povero papà, non seppe mai che le sue previsioni si sarebbero avverate, perché venti giorni prima della dichiarazione di guerra lasciò questa valle di lacrime. Aveva 51 anni. La guerra venne e passò come un uragano che tutto travolge e distrugge: e la mia famiglia si trovò nell’occhio di quel ciclone!
Quando arrivò la pace, ci trovammmo sole, la mamma ed io, profughe a Vinovo P. di Torino. Tutte le finestre erano imbandierate, le campane delle Chiese suonavanoa distesa e la gente usciva festosa per le strade ad incontrare i primi soldati che tornavano alle loro famiglie. Ma la porta e la finestra dell’unica stanzetta dove abitavamo noi erano sempre serrate, perché mia madre non voleva vedere quelle bandiere e turava le orecchie per non sentire le campane.
Perchè noi non aspettavamo nessuno! Antonio e Paolo erano morti, e Giovanni….Giovanni era più di un anno che non dava notizie. Disperso! E mia mamma diceva che, senza nemmeno uno dei suoi figli, non sarebbe più tornata a casa a Valli.
Poi...contro ogni umana speranza arrivarono notizie di Giovanni: era all’Ospedale, il Lazzaretto di Vicenza. Le sue condizioni erano gravi ma lasciavano sperare. E fu per questa speranza che mia madre ed io tornammo a casa, se casa si poteva ancora chiamare, una vuota spelonca aperta al vento ed al freddo di quell’inverno 1918.
In primavera ci raggiunse Giovanni, guarito, anche se non dava neppure l’idea del bell’artigliere di montagna, pieno di forza e di gioia di vita che era partito 4 anni prima. I campi di battaglia, le febbri della malaria dell’Albania, una durissima prigionia lo avevano reso un invalido per tutta la vita. Ma con le cure assidue della mamma si era rimesso e piano piano, dall’abisso in cui la guerra ci aveva precipitati, incominciammo a risalire.
Ci siamo sposati tutti e due, Giovanni ed io, e nell’affetto delle nuove famigliee dei nostri figli, ritrovammo la serenità e la speranza di una vita migliore. Nel 1938 nostra madre se ne andò a raggiungere i suoi cari in un mondo migliore.
Eravamo sempre poveri, certo, ma neanche noi aspiravamo alla ricchezza; i nostri figli crescevano bene, bravi e buoni. Mio fratello aveva tre maschi ed una ragazzina, proprio come la nostra antica famiglia. A me il primo maschietto era morto ad un ano di età, poi era nato Paolo, poi Antonietta e infine Giuseppina.
Ma quando mai in Italia è lecito sperare in un po’ di pace? L’altra guerra io l’avevo odiata, ma in un certo senso l’avevo capita, perché Trento e Trieste sono città italiane. La gente parla la nostra stessa lingua, no? E molta gente, anche nei secoli passati, hanno combattuto e sono morti per l’unità d’Italia. In famiglia avevo sentito raccontare che il nonno Paolo, morto ala bella età di 88 anni (io ne avevo 4) quella volta che i Tedeschi erano stati buttati fuori dal Veneto e lui aveva ventanni, aveva capeggiato la gente della contrada Chiumenti ed erano andati nello stradone con forconi e bastoni a vedere se potevano dare una mano almeno nell’ultimo tratto per cacciarli oltre il confine.
Ma ora, nel 1939, l’ideale di questa nuova guerra? Che cose si proponeva? Perchè mandavano la più bella gioventù a morire, senza sapere il perché? Cosa volevano dalla Francia, dalla Grecia, dalla Russia? Comunque arrivò quel famoso 8 settembre 1943 e per fortuna i nostri figli erano tutti salvi: Bruno, il figlio maggiore di mio fratello Giovanni aveva avuto la fortuna di non essere stato mandato al fronte; Domenico, coscritto del 1924 con il mio Paolo, erano reclute da poco, mentre Luciano era ancora un ragazzino. Bruno, Domenico e Paolo, vestiti con stracci borghesi, tornarono a casa, salvi tutti e tre.
All’8 settembre sembravano tutti impazziti ed in contrada nessuno dormì. Una donna, che aveva il marito nella Milizia, ci disse: - Vanno in giro cantando come matti quei disgraziati e non sanno che al Brennero ci sono le divisioni tedesche che stanno arrivando!”.
Qualche tempo dopo, quando i nostri figli dissero che ne avevano abbastanza di stare rintanati come talpe ad aspettare che gli Alleati venissero a liberarci e che quindi volevano andare in montagna in cerca dei partigiani, noi li lasciammo liberi di decidere.
Non so, forse nei loro cuori aleggiava lo spirito del nonno Paolo, al tempo dell’unità d’Italia? Chissà?… Del resto, anche io e mio fratello Giovanni avevamo con i Tedeschi un conto in sospeso! E la guerra per noi cominciò proprio allora, una guerra spietata ed atroce, dove il fronte non era un posto definito, ma la potevi trovare dietro l’angolo o nella casa accanto, una guerra che non risparmiava nessuno.
Tutti sanno cos’è stata la lotta partigiana e la Resistenza. Ne hanno scritto quelli che sanno scrivere. Io voglio solo raccontare, nel modo che mi permette la mia ignoranza e la mia scarsa istruzione, alcuni episodi che non dimenticherò. Ma soprattutto voglio parlare della cara gente della mia contrada Chiumenti, che ci ha dimostrato la sua solidarietà ed il suo affetto da farsi sentire veramente tutta una grande famiglia. So che non potrò sdebitarmi, ma loro si accontentano di questo mio affetto. Purtroppo molti sono morti ed io li ricordo tutti i giorni nelle mie preghiere, però quanto sarei felice di attraversare l’oceano e rivedere ancora una volta quelli che sono rimasti!
Dunque, era un giorno dei primi di dicembre del 1944. Mezzogiorno era passato da poco, quando io col secchio di broda ero andata a portare da mangiare al maiale. In casa, seduti attorno al focolare, avevo lasciato mio fratello e la sua famiglia, che in quei giorni si trovavano ospiti a casa mia, perché all’improvviso e con due sole ore di anticipo per lo sgombero avevano avuto l’ordine di lasciare l’appartamento che occupavano nella Villa demaniale di S.Antonio, che occorreva ai Tedeschi.
La loro casa era il “Cason”, che si trovava in cima all’erta e, siccome non esisteva una strada carrozzabile, bisognava trasportare tutto a spalla. Noi posto ne avevamo perché i nostri ragazzi non occupavano camere, anche se venivano sempre per casa dopo che il proclama Alexander aveva imposto una tregua alla lotta partigiana.
In montagna era sempre più difficile rimanere e quindi i ragazzi erano tornati per aspettare la primavera ed eventuali ordini del Comando. Nel bosco vocino si era costruito un bunker sicuro per i soli casi di bisogno perché d’inverno era molto fredda; infatti per dormire si era ricavato un ripostiglio senza finestre nella stalla di un vicino dopo aver murato la porta: si entrava dal fienile soprastante. Ricordo che Bruno, quand’era in vena di scherzi e voleva far arrabbiare la cognata diceva: - “Mamma, noi andiamo a dormire, vieni a calare la pietra sulla nostra tomba”.
Due giorni dopo, ricevettero l’ordine che Paolo, Domenico ed un altro partigiano di nome Vittorio dovevano recarsi a Trento per ritirare una radio che era in deposito in una famiglia e portarla a Posina al comando. Senonchè Domenico aveva un ascesso al collo, che lo faceva spasimare, ed anche Bruno era occupato, non ricordo più per cosa. Restava solo Luciano!… Luciano aveva 17 anni ed era uno strano ragazzo, buono come il pane, ma che sognva solo la montagna e voleva diventare un alpino.
Anche da bambino, quando era ammalato e non voleva prendere una medicina, bastava gli dicessero: - “Ma tu non sei un alpino, perché gli alpini…” e trangugiava tutto senza fiatare. E quante volte, durante la lotta partigiana, aveva supplicato i suoi di lasciarlo andare con i fratelli e con il cugino; mio fratello però su questo punto era sempre stato irremovibile: - “Tu no – diceva – sei troppo giovane e saresti un pericolo per te ed anche per gli altri!”.
Quel giorno era tornato all’attacco ed aveva vinto, povero Luciano. Era una azione di poco conto, senza veri pericoli, perché sarebbero andati attraverso il Pasubio con gli sci e in tasca avevano il cartellino della TODT, compilato abusivamente ed a suo rischio dall’Anna, una impiegata del Comune. Così al posto di Domenico, andò Luciano, tutto felice e contento.
Improvvisamente, mentre ero ancora nel porcile, sento delle voci nella corte antistante, voci concitate e gutturali: i Tedeschi! Mio Dio, cosa succede? Mi affaccio alla porta giusto in tempo per vedere il calcio del fucile di un tedesco abbattersi sulla schiena di una donna mia vicina di casa. Un’altra donna mi passa vicino e mi sussurra: “Stanno cercando Paolo, tu scappa via”.
Ma io non ho la forza di muovermi ed è Giuseppina, la mia bambina di 6 anni, che mi prende per mano trascinandomi verso i campi. Io la seguo come inebetita, il pensiero fisso a Paolo. Ho appena svoltato l’angolo dell’ultima casa che un grido ci inchioda: “Alt!”. Sopra un‘altura vedo un tedesco col mitra imbracciato puntato su di noi. Corro a casa, salgo le scale e Bruna, mia nipote, mi viene incontro, non piange ma la sua voce è angosciata: - “Zia, ho paura che Luciano è morto”. “Perchè dici così’” “I Tedeschi volevano sapere dov’è Paolo, ma io ho sentito, mentre parlavano tra loro, che guardando il cartellino di Luciano hanno detto “caput”.
Un italiano vestito da SS, forse credendo che io fossi la mamma, mi domandò dove era mio figlio. Io, istupidita com’ero, ripetevo che era partito a fare il militare e non mi accorgevo che non potevo essere creduta perché avevano in mano il cartellino che lavorava alla TODT.
Passarono case, fienili, stalle e se ne andarono dicendo che nessuno doveva allontanarsi dalla contrada perché alla sera sarebbero tornati.
Solo allora potei sapere cos’era successo. L’Anna, la signorina dei cartellini della TODT, era venuta su in contrada in bicicletta e tutta sconvolta aveva detto che i Tedeschi stavano arrivando; Bruno e Domenico senza aspettare la fine del discorso, erano usciti dalla porta di dietro e attrversato il prato avevano raggiunto il bunker un attimo prima che arrivasse il camion dei Tedeschi.
Dopo che questi se ne erano andati arrivò mio marito Albino, che si era recato a Ponte Verde a tagliare un carretto di legna. La gente della contrada, in previsione del ritorno dei Tedeschi, presero la vacca ed il maiale e li portarono a Costapiana; purtroppo i tedeschi si erano già portati via quel po’ di grano che si aveva, qualche salame, due formaggi ed altri generi.
Il Titta ed il Vittorio ci consigliarono di metterci in salvo però mio marito era indeciso perché, se i Tedeschi non ci trovavano, avrebbero bruciato le case della contrada. Partì, ma lungo la strada fu assalito dai dubbi e tornò per presentarsi.
Appena lo videro gli saltarono addosso in 3-4 e quando lui indicò dove abitava gli gridarono: - “Allora tu sei il padre del bandito!”. Mio marito però si era preparato un piano e rispose: - “Sì, avete ragione, mio figlio è un bandito, un delinquente. Quante volte gli ho detto di presentarsi, l’ho anche minacciato, ma lui niente. Poi mi ha detto che lavorava alla TODT e mi mostrò il cartellino. Invece chissà dove andava quel birbante!”.
Insomma gli hanno creduto e lo hanno mollato. Intanto in contrada se la presero con me perché la sera prima non c’ero, poi perché la stalla era vuota, infine ci fecero addossare al muro della casa, mentre loro passavano e ripassavano trasportando sul camion la nostra roba; siccome la botte del vino non passava per la porta della cantina, la allargarono con un piccone; portarono via anche un grosso rotolo di corda di acciaio, che mio marito aveva comperato da poco per costruire una teleferica a mano per trasportare il letame ed altra roba.
Quando chiese se la lasciavano lì, i Tedeschi si misero a ridere facendo segni significativi attorno al collo e un italiano ci spiegò: - “Dicono che non la lasciano perché altrimenti vi devono impiccare con quella”.
Io a morire ero rassegnata, ma da una pallottola, non impiccata! Un italiano, che il giorno prima mi sembrava un caporione, ci apostrofò dicendo: - “Voi, cosa fate lì? Non sapete che adesso vengono ad uccidervi?”
Avevo stretto la mano alla mia bambina e detto a mio marito: - “Andiamo” ma lui mi agguantò per un braccio, proprio mentre si udiva un rumore di ferraglia di un mitra messo in posizione di sparo. Avevo dimenticato del tedesco fermo a pochi metri da noi, e che nemmeno un gatto si sarebbe allontanato dalla contrada senza essere visto-
“Disgrziata” – mi apostrofò Albino – “non sai che lo fanno apposta?” Sì, lo sapevo. E non erano morti così i quattro poveri giovani di Savena? Egli SS non avevano ammazzato una povera donna che andava per carità perché gli avevano trovato un po’ di pane e formaggio e due fette di polenta nella sporta? E quel povero giovane, che stava lavorando nel suo campo con la barba incolta e fu creduto un partigiano e quindi lo avevano impiccato lasciandolo penzolare per due giorni con un cartello sulla schiena dove era scritto “COSI' MUOIONO I BANDITI!”?
Dunque, che cosa potevamo aspettarci noi, genitori e zii di veri partigiani?
Il solito caporione mi disse: - “Siamo tutti italiani, ma i vostri figli ci sparano alle spalle. Noi siamo stufi e ormai non ci fate più pena, nemmeno voi genitori. Questa volta il Comandante vuol dare un esempio e quello è un uomo che quel che dice lo fa. Se i vostri figli non si presentano, sarete fucilati in venti della contrada”.
Io intanto mi ero fatta coraggio e risposi: - “Ma che colpa ne hanno quelli della contrada se i nostri figli non si presentano?!” E allora lui: - “E come no? In una piccola contrada si sa morte e miracoli di tutti e qui invece nessuno voleva indicarci la vostra casa. Siete tutti uguali!”
Viceversa anche quel giorno se ne andarono col solito ordine di non muoversi perché sarebbero tornati. Edio, in un 9impeto di riconoscenza verso Dio e la madonna, andai ad inginocchiarmi davanti alla statua della “Nostra Signora di Lourdes” che si venerava nel capitello posto in mezzo alla contrada. Così mi accorsi di un foro, chiamai gli altri e guardammo inorriditi. Qualcuno la notte prima aveva sparato nel fianco della Madonna. Poi mise al corrente di quello che mi aveva detto il caporione, ma dissero che probabilmente voleva solo spaventarci.
Entrai in casa per combinare qualcosa per cena, dato che non mangiavamo dal giorno avanti er eravamo tutti sfiniti. La casa, così spoglia, mi sembrò quella che avevamo trovato la mamma ed io quando siamo tornate da Torino dopo la prima guerra mondiale. Comunque da mangiare non c’era niente ed allora andai nel pollaio a raccogliere le teste delle mie povere galline (erano 15) e con queste avrei fatto del brodo. Finalmente arrivò in contrada una persona che ci riferì che Paolo era sano e salvo in casa dell’ingegnere (Perrone) a Posina, mentre di Luciano non si sapeva niente.
Era successo così. I tre, Paolo, Vittorio e Luciano, stavano tornando da Trento con la radio e proprio in cima al Pasubio, dove meno se l’aspettavano, erano incappati nei tedeschi. Subito avevano tirato fuori i cartellini e dichiarato che erano operai della TODT. Ma… dove andavano in giorno lavorativo? E quella radio dove la portavano? E Vittorio, che non aveva il cartellino, chi era?
Erano tempi che bastava anche molto meno a destare dei sospetti. In più Luciano si era spaventato ed aveva fatto un tentativo, subito fallito, di scappare. Cosicchè li avevano istradati verso la Vallarsa. Vittorio, dopo poca strada, aveva colto il momento buono ed era scappato sotto una grandine di pallottole; ma anche lui, come Paolo, erano vecchi partigiani, mentre Luciano…. Comunque ebbe fortuna. Purtroppo per gli altri due la fuga era diventata ora più difficile; e mentre a Luciano non badavano molto, Paolo aveva sempre la rivoltella di un tedesco puntata alla testa.
Ad ogni modo Paolo il suo piano l’aveva e, in vista di ciò, aveva sussurrato a Luciano: - “Tu stammi sempre dietro”. Quando arrivarono al posto giusto, popolato di alberi, Paolo disse: - “E’ ora!”. Con una scrollatina si era fatto cadere gli sci dalle spalle, che cominciarono a slittare sulla neve ghiacciata; quindi si era chinato come per voler raggoglierli e quando vide di essere fuori dal tiro immediato della pistola, così piegato si era slanciato.
Subito le pallottole cominciarono a fischiargli nelle orecchie: qualcuno lo inseguiva sparando all’impazzata, ma Paolo era come uno stambecco e conosceva tutti gli anfratti della montagna. Appena potè si era girato a vedere di Luciano. Però non poteva fermarsi, perché sapeva cosa sarebbe successo se avessero controllato quei benedetti cartellini: doveva tornare a casa prima dei tedeschi, e loro purtroppo avevano macchine e telefono, mentre lui aveva solo le gambe.
Giunto su un’altura, ormai era già notte fonda, si era fermato per respirare e proprio in quel momento vide due razzi levarsi dalla contrada. Restò come impietrito: era arrivato troppo tardi. Poveri cugini! Poi aveva saputo che si erano salvati, mentre era molto preoccupato per noi, tanto che si chiedeva se era meglio presentarsi.
“Ah, no!” - dicemmo insieme mio marito ed io. Intanto erano arrivati alcuni anziani della contrada con una proposta: - “Noi abbiamo parlato anche con gli altri e siamo venuti a vedere cosa ne dite voi; e cioè se non sarebbe meglio andare a dire ai tedeschi che la vostra casa è “il Cason”. E’ una casa isolata ed anche se la bruciano non sarebbe una gran danno di fronte a quello che minacciano di fare qui”. “Sì” rispose Giovanni “forse dopo di essersi sfogati a bruciare quella, ci lasceranno in pace”.
“Allora, se avete qualcosa da portar via…”. “Ah” disse mia cognata “quello che mi preme di più sono le galline, povere bestie. Per il resto cosa si può fare? Domattina appena fa chiaro vado a portarle via”.
Ma al mattino, assieme alla moglie, volle andare anche mio fratello Giovanni e, mentre sua moglie con le galline nel sacco se ne era andata verso Costapiana, lui si attardò, forse per quardare per l’ultima volta la sua casa prima che diventasse un muccio di macerie.
Intanto gli uomini erano andati dai tedeschi che, sentito di cosa si trattava, si erano precipitati al camion ed a grande velocità erano giunti in contrada. Dall’alto Giovanni li aveva visti arrivare e si era affrettato per raggiungere il bosco e mettersi in salvo. Ci sarebbe riuscito senza l’asma che aveva ereditato dall’altra guerra e gli impediva di correre.
E quelli pareva che avessero le ali, perché si arrampicavano sull’erta e lo agguantarono proprio al limitare del bosco. Urlando che avevano preso il capo dei partigiani, lo trascinarono come un sacco di stracci fino alla casa e, siccome qui frugando avevano trovato in un sacchettino una polverina, gli fecero levare le scarpe e, gettata una corda attraverso il ramo di un albero, si apprestavano ad impiccarlo all’istante.
Però quella polvere aveva un colore strano ed erano incerti: ne presero un pizzico e con un fiammifero provarono a bruciarla. Non prendeva fuoco. Per fortuna si avvicinò un italiano, che certamente in altri tempi aveva fatto il contadino, e dopo un’occhiata disse: - “Ma quello è zolfo per le vigne!”.
Povero Giovanni! Fra lo spavento e l’asma non era nemmeno capace di muovere un passo, sicché lo trascinarono fino al camion e ve lo gettarono come un sacco di patate accanto a mio marito; così li portarono via assieme.
Altri tedeschi andavano e venivano dal “Cason” portando tutto quello che c’era da portar via e facendone un muccio in attesa del ritorno del camion. Al mucchio avevano messo di guardia un italiano che, se era sicuro di non essere visto, prendeva gli oggetti migliori e li passava alla gente lì intorno dicendo: - “Poi glieli date indietro”.
Anche in caserma alcuni italiani avevano avuto cura di Giovanni perché, visto che respirava a fatica e tossiva, gli avevano portato del latte caldo e delle coperte. Mio marito tornò quella sera stessa, in quanto aveva fatto la solita commedia che aveva già imparato: al comandante domandò se lo lasciava andare in cerca del figlio; lo avrebbe portato da lui se gli prometteva che non lo avrebbe ucciso.
“No, non lo uccideremo” disse il comandante “sarà solo mandato in Germania. Potete andare”.
Così il mattino dopo Albino si mise in cammino alla ricerca del figlio, camminando tutto il giorno e chiedendo dappertutto se lo avevano visto, ma evitando accuratamente di avvicinarsi al luogo dove si trovava nascosto.
Putroppo quel giorno arrivò la notizia tanto paventata: qualcuno venne a riferire che a Valmorbia-Vallarsa c’era un giovane ucciso dai Tedeschi. Subito mia cognata ed io ci recammo dal Comandante per avere un lasciapassare; ce lo fece subito, ma ci voleva anche il visto del Municipio e qui l’impiegato ci guardò con compassione: - “Ma dove volete andare povere donne, a quest’ora e con l’aria che tira?”.
Era già passato mezzogiorno e d’inverno l’oscurità viene presto: per andare a Valmorbia ci volevano parecchie ore di cammino. Infatti quando si arrivò alle Dolomiti annottava già; qui si ebbe la fortuna di poter salire su di un camion di tedeschi che portavano gli operai della TODT lungo la Vallarsa. Salimmo e nessuno ci disse niente.
Si arrivò a Valmorbia che era notte inoltrata e chiedemmo subito del Parroco, il quale, appena ci vide, disse: - “Povere donne, lo so perché siete qui”. Poi, rivolto a mia cognata: - “E’ vostro figlio vero? Vi assomiglia. Lo abbiamo portato in una chiesetta che abbiamo in cima al pese, ma ora è troppo tardi per andarci. Questa notte sarete ospiti di una buona famiglia e domani andremo su assieme”. Povero Luciano, era proprio lui.
E pareva dormisse, senonchè sulla tempia destra aveva un foto ed un po’ di sangue raggrumato. Sull’altare c’erano molti fiori autunnali tardivi e una ragazza, che aveva notato il mio sguardo, mi si avvicinò: - “Non ci siamo fidati a metterli vicini, ma li abbiamo portati per lui”. Quando fu tutto finito, lasciammo riposare Luciano nel piccolo cimitero fra le montagne che aveva sempre amato.
Arrivammo in contrada Chiumenti che era quasi notte, ma io volli ugualmente recarmi dal Comandante a riferire, con la segreta speranza che anche Giovanni sarebbe stato rilasciato. E la mia speranza non fu delusa.
“Uno dei nostri figli lo abbiamo trovato morto” dissi al comandante “e degli altri non sappiamo niente”. Allora si rivolse ad un italiano e ordinò: “Vai a liberare il prigioniero”. Dopo un momento lo rividi risalire dallo scantinato delle Scuole, adibite a prigione, mentre il soldato lo aiutava amorosamente con un braccio attorno alle spalle. In quel momento, con la gola chiusa da un groppo, pensai che forse un domani quel soldato si sarebbe trovato di fronte ai miei figli a spararsi in faccia! Mio Dio no. Fate che questo non avvenga.
Ci trovammo davanti al tavolo del Comandante ed i nostri cuori avevano cessato di battere per ascoltare le sue parole pronunciate lentamente: - “Per questa volta potete andare. Ma ricordatevi che, se anche ad uno solo dei miei soldati accade qualcosa di male, voi sarete i primi a pagare con la vita. Andate”.
Fuori era notte ed aveva cominciato a nevicare, la strada era tutta bianca, dintorno oscurità e silenzio. Pareva il paese dei morti. Mio fratello tossiva e respirava faticosamente ed erano tre km. Da fare a piedi in quelle condizioni. Ci facemmo coraggio e picchiammo alla porta di una famiglia amica: anche loro non avevano mezzi di trasporto, ma fecero sedere Giovanni vicino alla stufa e gli fecero bere una tazza di brodo e poi un bicchiere di vino caldo per rinfrancarlo un po’.
“Andiamo” disse dopo un poco e così, piano piano, appoggiato al mio braccio, ci siamo incamminati. Il nome del figlio non fu pronunciato ma lui domandò: - “Lo avete messo bene?”
Con la primavera giunse la Liberazione, ma Giovanni da quel caolp non si era più rimesso. Visse ancora qualche anno, malaticcio e triste, poi il cuore cedette.
Morì nel gennaio del 1950.