QUADERNI DELLA RESISTENZA 
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Marzo 1978 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
 
 
Volume III 

LA MISSIONE JUGOSLAVA « BERTO » E LA FEDERAZIONE VICENTINA DEL P.C.I.


Inchiesta di E. Trivellato
 
 

 

 

La Resistenza armata nella zona di Schio iniziò lo stesso giorno dell’occupazione tedesca del 10 settembre 1943 con il formarsi di un consistente gruppo armato verso le Aste, il Festaro, Formalaita e la zona dei Tretti (« Gruppo del Festaro »). Gli elementi trainanti furono i perseguitati politici comunisti, appena usciti dal confino, coadiuvati da amici di partito e di fabbrica, ai quali si aggregarono alcuni elementi locali.


Per eventuali collegamenti con Vicenza capoluogo e per avere un panorama più vasto della situazione autunnale si è voluto conoscere l’attività svolta dalla Federazione Provinciale del P.C.I. nell’autunno del 1943 ed a tale scopo ci siamo avvalsi di un testo dattiloscritto dal titolo: « Contributo per una storia della Resistenza nella Provincia di Vicenza » redatto nel 1972 a cura di Giordano Campagnolo, Luigi Cerchio ed Antonio Emilio Lievore (la testimonianza di Urban-Vràtusa fu aggiunta nel 1977, appena pervenuta).


Il testo citato costituisce, a nostro avviso, un « memoriale a tre », in quanto in esso appunto i protagonisti, sul filo del ricordo, raccontano gli avvenimenti di cui furono partecipi di persona, più o meno direttamente, corredando i fatti – in appendice – di alcuni documenti e testimonianze. Per completare le notizie ivi riportate in sintesi e per stimolare alcune opinioni e chiarimenti su fatti di nostro interesse è stata sollecitata una riunione con Giordano Campagnolo (nato a Vicenza l’8-7-1913) e con Antonio Emilio Lievore (nato a Schio il 3-2-1905), con la partecipazione anche di Alfredo Lievore e del Dr. Sergio Caneva di Arzignano.



Domanda. Qual'era la situazione della Segreteria Provinciale del Partito Comunista Italiano nell’autunno del 1943?

« La Segreteria Provinciale si era sempre mantenuta a Schio, malgrado gli arresti, le condanne e le deportazioni fasciste, specie nel 1937. Tuttavia anche in Vicenza capoluogo esistevano numerose cellule. Dopo il 25 luglio 1943 convocammo una riunione a Vicenza, nel retrobottega di Oddo Cappannari, presenti per Schio: Domenico Baron, Silvano Lievore ed altri (Alfredo Lievore era ancora in carcere a Castelfranco Emilia); per Arzignano e Valdagno c’era “Maestro”; per Vicenza: Carlo e Giordano Campagnolo, Oddo Cappannari, Gino Cerchio, Carlo Gabetti, Vittorio Giordana, Emilio Lievore, il quale ultimo rappresentava anche Bassano del Grappa. Dopo serena discussione, considerando il fatto che a Vicenza capoluogo ci sono la Prefettura, la Questura ecc., viene deciso il trasferimento della Federazione Provinciale del P.C.I. da Schio a Vicenza, con una segreteria collegiale composta da Gino Cerchio, Emilio Lievore, Giordano e Carlo Campagnolo ».


Domanda. In periodo fascista la Segreteria era stata mantenuta a Schio come il Centro industriale più importante del Veneto e quindi per avere un rapporto diretto con le masse operaie. Dopo il 25 luglio vi fu il passaggio da una rigorosa clandestinità ad una situazione di semi-clandestinità che consentì maggiori contatti fra i vari centri della Provincia e quindi si giustificò, tra gli altri motivi, il trasferimento della Segreteria nel capoluogo. A Vicenza essa rimase anche durante il successivo periodo nuovamente clandestino della Resistenza. Considerando che le formazioni partigiane e relativi comandanti garibaldini si trovavano in prevalenza nella zona nord-occidentale dell’alto Vicentino (« Zona Garemi »), vi fu o meno l’inconveniente di una difficoltà di collegamento o addirittura di uno scollamento fra il centro « politico » comunista di Vicenza ed il centro  militare» al Nord?



« Nell’incerto autunno del 1943 non vi fu una vera e propria “direzione generale” che impartiva ordini e coordinava le incipienti iniziative resistenziali; queste nacquero spontaneamente ad opera di gruppi di persone di varia provenienza, le quali mantennero una loro autonomia. Nella zona dei Tretti sopra Schio c’era il gruppo capeggiato dai Piva, ex garibaldini di Spagna, presso il quale si era recato Alfredo Lievore ed anche Domenico Marchioro; la componente comunista del gruppo di Fontanelle di Conco era analogamente presente per iniziative personali ed aveva quindi una sua autonomia; così pure nella Valle dell’Agno con Pietro Tovo e “Nave”.


Solamente nel 1944 cominciò a funzionare una certa organizzazione con collegamenti e ruoli abbastanza definiti, pur mantenendosi sempre una autonomia decisionale in alcuni problemi locali concreti e urgenti. C’è stata la richiesta dei Comandi garibaldini di trattare direttamente con il Comando Garibaldino Triveneto e noi abbiamo acconsentito di buon grado; infatti Nello Boscagli (“Alberto”) a volte prendeva contatti con Vicenza, mentre in altre occasioni si rivolgeva direttamente a Padova, probabilmente a seconda delle convenienze pratiche e non per rigorose scale gerarchiche, che nella guerriglia sono impensabili. Comunque non vi furono mai né scollamenti né contrasti fra il centro “politico” di Vicenza ed il centro “militare” garibaldino al Nord; ogni qualvolta richiesta, vi fu invece piena collaborazione ».



Domanda. Quale fu il ruolo di Domenico Marchioro durante mesi della sua permanenza a Vicenza?


«Domenico Marchioro, ex deputato, processato e condannato assieme a Gramsci nel 1928, ritornò a Schio il 20 agosto 1943 dopo 17 anni fra carcere e confino; gli esponenti provinciali del P.C.I., ritenendolo il più agguerrito e capace ed anche per una naturale e comprensibile deferenza, gli affidarono la Segreteria provinciale del Partito. Alcune settimane dopo vi fu l’occupazione tedesca e gli elementi antifascisti, che nei 45 giorni precedenti si erano maggiormente esposti si allontanarono dalla città; del nostro gruppo rimase soltanto Giordano Campagnolo a tenere i fili e dirigere l’organizzazione, anche se Gino Cerchio ed Emilio Lievore, rifugiati a Campolongo dei Berici, mantennero i contatti; Gino passò poi in casa Campagnolo verso il 15-20 settembre e Domenico Marchioro in casa Peruffo, per cui Giordano cedette nuovamente il timone a Marchioro che riprese i contatti con gli altri componenti del Comitato Interpartitico, diventato C.L.N.P. In quel periodo ed anche in seguito la Federazione provinciale del P.C.I. svolse tre principali funzioni: a) rapporti a carattere politico b) problemi sindacali trattati in particolare da Emilio Lievore c) problemi militari, nati dall’incipiente resistenza, ed affidati per parte nostra soprattutto a Gino Cerchio.

Ad esempio il 3 ottobre 1943 Emilio Lievore partecipò ad una riunione indetta nella “Casa dei Lavoratori” dalla Segreteria del Sindacato fascista e negò ogni possibile compromesso o forma di collaborazione con i Tedeschi. In accordo con altri antifascisti vicentini si collaborò alla raccolta di armi e di aiuti per gli sbandati e fu anche possibile salvare diversi prigionieri alleati ed inviarli a mezzo autocorriere a Trieste ed in seguito in Jugoslavia ».



Domanda. Domenico Marchioro era stato in carcere per 17 anni ed aveva probabilmente affinato la sua preparazione politica sotto il profilo teorico, ma questo lungo intervallo lo aveva tenuto lontano dai problemi reali e dalla conoscenza delle persone sia a Schio che a Vicenza. I primi gruppi armati avevano soprattutto esigenze pratiche ed organizzative, sia al Festaro che in tutto il Vicentino; quale fu quindi l’effettivo « ruolo» di Marchioro nell’autunno del 1943?


« Domenico Marchioro fu accolto con molta deferenza per il suo passato di confinato politico e ci sembrò giusto considerarlo un padre spirituale dell’antifascismo. Era soprattutto un idealista e, come tale, poco portato alla soluzione dei problemi organizzativi e pratici. Egli esponeva di solito dei concetti e delle direttive di massima, che poi venivano discusse, a volte rettificate, comunque tradotte in pratica a seconda delle effettive possibilità e con il buon senso di chi le applicava. Su alcune cose aveva idee tutte sue, come ad esempio l’arrivo ormai prossimo degli Alleati; su altri problemi si dimostrava addirittura intransigente. Tuttavia il funzionamento collegiale della Segreteria Provinciale consentì in ogni caso di arrivare, nei problemi più importanti, a decisioni e soluzioni concrete ».



Domanda. Nell’autunno del 1943 ogni « gruppo » armato o civile del Vicentino ebbe le sue « iniziative » locali più o meno importanti; quali furono le iniziative veramente di rilievo della Federazione del P.C.I. di Vicenza?



« A parte i numerosi problemi locali, ci sembra che l’invio di alcuni emissari fuori Provincia costituisca il fatto più importante. Già in ottobre Giordano Campagnolo e Mariano Rossi avevano avvertito la necessità di un collegamento con gli Alleati e con i Partigiani jugoslavi, per cui verso il 10-20 ottobre si tenne una riunione sull’argomento e vi fu una discussione piuttosto aspra con Domenico Marchioro, il quale riteneva superflua l’iniziativa in quanto convinto di un imminente arrivo degli eserciti alleati; la proposta, che minacciava di essere bocciata, fu avanzata a titolo precauzionale e così venne approvata. Poiché uno studente di Montecchio Maggiore diceva di avere buone conoscenze ad Avezzano, nell’ambiente del clero, venne colà inviato affinché cercasse di passare le linee: si trattava di Beniamino Pilati.

Ritornò negli ultimi giorni di novembre e dovemmo cercarlo a Thiene dove era andato presso conoscenti; ci riferì che gli Alleati erano perplessi, non sapevano cosa fare, ma avrebbero mandato quanto prima una loro missione. Il tentativo si concluse quindi con una delusione. Gino Cerchio era invece partito per Torino, dove si era messo in contatto con il Comando presieduto dal Generale Perotti; ma anche a Torino erano confusi e si davano da fare press’a poco come noi. Esito positivo ebbe invece l’invio di due emissari in Jugoslavia: vi si recarono i vicentini Giuseppe Rossi e Ferruccio De Marco. Tornarono verso la fine di ottobre 1943’ con il capopartigiano sloveno Urban-Vràtusa (“Berto”), che era accompagnato da due staffette, delle quali una (“Neva”) morì poi durante un rastrellamento in Slovenia.

“Berto” fu accolto in casa di Romeo Dalla Pozza nel vecchio rione di S. Lucia, ma con l’arresto della Bruna Dalla Pozza verso il febbraio del 1944 “Berto” fu accompagnato in via Gallieno da Lucia Campagnolo Peruffo, la quale ospitava in quel momento Domenico Marchioro (questi si allontanò da Vicenza non molto tempo dopo). Così “Berto” passò in casa della Ida Martello, dove ebbe anche un incidente con il gas; mentre era a tavolino a scrivere “Berto” cadde sul pavimento per un principio di asfissia; la Ida, non sapendo cosa fare, corse dalla Olimpia Menegatti a raccontarle iI fatto. Fortuna volle che l’Olimpia avesse del latte e con questo, con respirazione artificiale, con massaggi ecc. le due amiche gli provocarono il vomito e riuscirono a farlo rinvenire. A causa del coprifuoco l’Olimpia fu costretta a tornare a casa e lasciò “Berto” alle cure di Ida. Come accompagnatore e persona di fiducia di “Berto” vi era Gino Longhetto di Vicenza, che lavorava alla Sara. Nella sua prima venuta a Vicenza Urban-Vràtusa restò da noi all’incirca fino ai primi di marzo del 1944, poi ripartì per la Slovenia e tornò più tardi diretto a Milano ».



Domanda. Quali furono i rapporti di Urban-Vràtusa (o Berto ») con l’incipiente Resistenza armata e civile del Vicentino dall’ottobre 1943 al febbraio 1944?


« I capeggiatori del “Gruppo del Festaro” sopra Schio erano già stati catturati (17 ottobre 1943) prima dell’arrivo della missione jugoslava; non ci risulta che “Berto” abbia avuto contatti con Fontanelle di Conco, ma in proposito bisogna sentire Orfeo Vangelista, come pure su eventuali contatti con Nello Boscagli (“Alberto”) nel periodo di Malga Campetto sopra Recoaro nel gennaio-febbraio del 1944. A Vicenza Romeo Dalla Pozza, ottimo disegnatore, gli preparava alcune carte topografiche di posizioni strategiche (campo di aviazione, ferrovia ecc.) che “Berto” mandava in Slovenia tramite le sue staffette con la linea Vicenza-Padova-Mestre-Trieste; non aveva una ricetrasmittente come le missioni alleate.

A noi fornì varie informazioni sulla condotta della guerra partigiana, sui metodi e sulla tattica della guerriglia e con Emilio Lievore si recò a Bassano del Grappa per un esame della situazione del Grappa, che egli considerava geograficamente inadatto ad ospitare formazioni partigiane, ciò ovviamente in confronto ai boschi ed ai monti della Slovenia ».



Domanda. Nella sua prima permanenza a Vicenza sembra che Urban-Vràtusa (« Berto ») sia venuto soprattutto come un « osservatore » militare jugoslavo. come una « punta » nel Vicentino prima di avere le credenziali per stabilire dei contatti ufficiali con il CLNAI a Milano. dove infatti si recò più tardi. Una tale ipotesi è proponibile?


« Sembra l’ipotesi più probabile, dal momento che restò parecchi mesi a Vicenza. Forse il Fronte di Liberazione jugoslavo volle rendersi conto della situazione sia politica che della iniziale guerriglia prima di fare dei passi ufficiali presso il CLNAI di Milano. È certo in ogni caso che l’iniziativa di un contatto con i Comandi partigiani jugoslavi partì da Vicenza, fin dall’ottobre 1943, e che gli ulteriori sviluppi – testimoniati da Urban-Vràtusa – furono di molto successivi ».


Domanda. Come avvennero i primi collegamenti del P.C.I. vicentino con la Missione M.R.S. (Marini Rocco Service)?


« Ci risulta che verso la fine di ottobre del 1943 Elio Rocco cercò dei contatti a Vicenza e si incontrò con una sua compagna di scuola, la figlia della nostra amica Olimpia Menegatti; quest’ultima riferì a Domenico Marchioro della presenza dei Rocco e del Tenente Marini nella zona di Cittadella, ma Marchioro non prese in considerazione la cosa e sembra che abbia addirittura rifiutato un incontro, né mise al corrente Giordano Campagnolo.

Allora l’Olimpia lo disse ad Emilio Lievore e questi a Gino Cerchio, il quale di sua iniziativa fissò un appuntamento a Padova con il Tenente Marini. L’incontro, che avvenne nei pressi di un’edicola con Gino che doveva tenere in mano una Domenica del Corriere aperta, fu molto amichevole perché i due scoprirono di essere piemontesi. Tuttavia in quel periodo autunnale non vi furono risultati concreti perché la stessa Missione M.R.S. stava ancora organizzando la sua rete informativa e, dopo i primi assaggi, preferì probabilmente appoggiarsi soprattutto a persone dell’ambiente di Thiene. In seguito, nel 1944, i nostri rapporti con la Missione M.R.S. non furono molto fluidi e « spontanei » e riteniamo che ciò fosse dovuto alla nostra matrice comunista; essi venivano di solito mediati dal C.L.N. e da persone a più stretto contatto con il Tenente Marini. Abbiamo infine motivo di credere che il Marini non provenisse da Comandi inglesi e che fosse invece in forza al S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) ».



NOTA. Il testo è stato sottoposto a lettura ed approvazione di Giordano Campagnolo e di Antonio Emilio Lievore. Per gentile concessione degli Autori segue il testo integrale della testimonianza di Urban-Vràtusa (« Berto »).




CONSOLATO GENERALE della Repubblica Sociale Federativa di Jugoslavia. Trieste, 6 luglio 1977 - Prot. n° 2269/77 - All’A.N.P.I. di Vicenza.

Oggetto: Testimonianza del Dr. Urban-Vràtusa Vicepresidente del Consi¬glio esecutivo dell’Assemblea Federale della Rep. Soc. Fed. di Jugoslavia.


« Verso la fine del mese di ottobre 1943 una delegazione di due uomini arrivò a Sneznik (Monte Nevoso), dove si trovavano a quel tempo parecchie unità partigiane dell’Esercito di Liberazione Nazionale della Slovenia. Domandavano un collegamento diretto fra il nostro Movimento di Liberazione nazionale e le Unità di Resistenza armata del Vicentino. Siccome io conoscevo la lingua italiana in una maniera assai soddisfacente BORIS KRAJGER-JANEZ, Commissario del Comando generale dell’Esercito di Liberazione Nazionale e dei Reparti partigiani della Slovenia, e FRANC LESKOSEK-LUKA, Segretario generale del Partito Comunista della Slovenia, mi proposero di recarmi a Vicenza. Detto, fatto.


La stessa notte lasciai Sneznik assieme a due emissari di Vicenza, accompagnato da un bravo partigiano sloveno di Pivka (S. Pietro del Carso), con tutte le autorizzazioni necessarie per stabilire, nel nome del Comando generale sloveno, nel nome del Partito Comunista Sloveno e nel nome del fronte di Liberazione (Osvobodilna fronta) della Slovenia – come parti integranti del Quartier generale jugoslavo – una collaborazione organizzata coi dirigenti politici e militari sia locali sia di tutta l’Alta Italia. Siccome l’Esercito di Liberazione nazionale ed i Reparti partigiani della Jugoslavia erano riconosciuti dagli Alleati come parte integrante della grande coalizione democratica antifascista è naturale che questa Missione sia trattata come una « missione alleata ». Dopo un giorno di viaggio con il treno arrivai a Vicenza e presi tutti i necessari contatti. Seguirono i primi colloqui concreti con i rappresentanti dei reparti partigiani, con quelli della SAP e del GAP sul come condurre la lotta senza quartiere contro i nazisti e fascisti.


Non mi ricordo i dettagli. Posso dire però che i riferimenti nella documentazione e nelle testimonianze, che mi sono state presentate di recente, rispecchiano generalmente l’essenziale. Debbo aggiungere però che i dati pubblicati ed accessibili a me sono assai lontani per dare un quadro completo. Siccome l’indirizzo finale del mio viaggio in Italia era Milano (CLNAI, Comando dei Garibaldini, Comando del Corpo Volontari della Libertà), quella prima volta non mi trattenni a lungo a Vicenza.


Però, nel periodo seguente, frequentai parecchie volte non solo Vicenza, ma anche Padova, Venezia, Bologna ed altri centri dell’Alta Italia, i punti centrali rimanevano sempre però Milano e Trieste. Lì avevo contatti con i più alti dirigenti della lotta antifascista dell’Alta Italia e del Friuli-Venezia Giulia (Luigi Longo-Gallo, Ferruccio Parri, Leo Valiani, Rossi, Mario Lizzero e parecchi altri). Mi fa un gran piacere ed onore di aver stipulato con il CLNAI assieme con FRANC STOKA - RADO di Trieste un accordo (mese di luglio 1944) sulla collaborazione fra il Movimento di Liberazione nazionale della Slovenia e le forze antifasciste italiane.

Infatti questo era, dopo le dolorose esperienze del periodo fascista, il primo passo, di avvicinamento fra i due popoli vicini sulla base dell’autodecisione, dell’uguaglianza e del mutuo rispetto. Alla fine del febbraio 1945 lasciai l’Italia. Dopo un paio di settimane di lavoro al Comando generale della Slovenia fui trasferito dal territorio libero della Slovenia, via Bari, a Belgrado per continuare a lavorare come funzionario in diversi organi militari e politici del Governo popolare della Jugoslavia.

Per quanto riguarda Vicenza e Padova ricordo con sincera gratitudine molta brava e coraggiosa gente. Specialmente il giovane Gino Longhetto, il quale era addetto alla Missione e serviva da scorta e guida durante il mio soggiorno a Vicenza, Di Capannari, Romeo Dalla Pozza e la moglie Bruna, Ida Martello, Giordano Campagnolo, che mi ospitavano a Vicenza in circostanze difficilissime. A Vicenza, Schio, Bassano incontrai inoltre: NELLO BOSCAGLI, AURELIO PIVA, VANGELISTA, LIEVORE, CERCHIO ed altri. Non dubito che una ricostruzione più dettagliata porterebbe alla luce anche altri nomi di battaglia ». Con i più cordiali saluti.
Il Console generale Ivan RENKO.



CONSIDERAZIONI


Ad una lettura attenta della testimonianza, sopra riportata, di Urban-Vràtusa ci è apparso strano che -proprio in quel primo mese di incipiente Resistenza veneta, cioè nell’ottobre del 1943 -il Segretario del Partito Comunista sloveno LUKA ed il Commissario generale del Comando sloveno KRAJGER abbiano subito inviato a Vicenza Urban-Vràtusa (« Berto ») con due staffette e questo a semplice richiesta della Federazione vicentina del P.C.I., senza che siano intervenuti dei contatti preliminari in sede triveneta, cioè a Padova, o addirittura in sede Alta Italia, cioè a Milano (« gruppo dirigente comunista del Nord»).

Spriano infatti, nella sua Storia del P.C.I., riferisce che « le relazioni tra i partigiani italiani e sloveni non furono semplici» e che già in data 6 ottobre 1943 il P.C.I. aveva inviato al P.C. sloveno la seguente lettera: « Noi dobbiamo manifestarvi il nostro completo disaccordo con voi.

Noi siamo dell’opinione che, per il momento almeno, la nostra posizione di principio, dell’autodeterminazione dei popoli, dell’autodecisione sino alla separazione, sia assolutamente sufficiente alle necessità della lotta. Noi possiamo sostenere senza difficoltà, e sosteniamo, la parola d’ordine di una Slovenia libera ed unita, e quindi il diritto al distacco delle regioni slovene. Ma, beninteso, questo principio deve valere anche per quei gruppi etnici italiani che potessero venire a trovarsi in una situazione particolare, come, per effetto della guerra, quelli della Venezia Giulia ».


Ciò premesso, abbiamo allora cercato di individuare quali dirigenti comunisti si trovassero – nell’ottobre del 1943 – nel Veneto e se nello stesso mese vi fosse stata qualche riunione in sede triveneta (Padova) per discutere il problema jugoslavo e gli eventuali rapporti tra partigiani sloveni e veneti.


A Padova in ottobre, sulla scorta del memoriale) di Amerigo Clocchiatti, sarebbero stati presenti – stabili o di passaggio – i seguenti dirigenti del P.C.I.: ANTONIO ROASIO, ALDO LAMPREDI, MARIO LIZZERO, BONOMO TOMINEZ). D’altronde Antonio Roasio fu anche in seguito ispettore responsabile del P.C.I. per l’Emilia ed il Veneto e nel « triumvirato insurrezionale del P.C.I. » nel Veneto troviamo, nel giugno del 1944, come dirigenti: Aldo Lampredi (« Roberto » - «Guido»), Attilio Gombia (« Ascanio »), Bonomo Tominez (« Antonio »).


Per quanto riguarda il secondo quesito, se cioè a Padova ebbe luogo nell’ottobre del 1943 una riunione ad alto livello tra comunisti italiani e sloveni, abbiamo in proposito la testimonianza di Amerigo Clocchiatti (« Ugo ») che riportiamo testualmente (2 - p. 209): «I rapporti con i compagni jugoslavi erano tenuti da “Andrea” (Mario Lizzero -6).


Non so per iniziativa di chi, ci incontrammo a Padova in casa ai Leone Turra, verso la metà di ottobre (1943), tra i rappresentanti del movimento di liberazione jugoslavo (solo dopo la guerra seppi che c’era Krajger, un pezzo grosso del movimento) e Antonio Roasio, Aldo Lampredi, Bonomo Tominez, Mario Lizzero ed io. Krajger espose le linee informatrici del movimento partigiano e di “governo” del suo paese, da cui risultava chiarissimo ed esplicito che l’obiettivo era di ricostruire la “grande Jugoslavia”, comprese Trieste, Gorizia e Udine fino al Tagliamento, poiché – secondo lui – la storia passata dimostrava che tutta quella regione spettava alla Jugoslavia.


A parte i sorrisini degli uni e degli altri, obiettai con altrettanta chiarezza che quelle erano idee fuori orario, tanto più che nessuna delle due parti aveva ancora la pelle dell’orso, cioè delle armate nazifasciste. Trieste, Gorizia, jugoslave? Udine? » La riunione di Padova sembra confermare la posizione del P.C.I. espressa nella lettera del 6 gennaio 1943 dianzi riportata: in ogni caso una situazione non proprio da « embrasson nous ».


A questo punto si inserisce, nella seconda quindicina di ottobre 1943, l’invio dei due emissari vicentini, su proposta di Giordano Campagnolo e di Mariano Rossi e con la perplessità di Domenico Marchioro che ritiene superflua l’iniziativa. I due emissari, giunti in zona, stabiliscono dei « contatti » e alla fine il segretario del P.C. sloveno Luka e il Commissario generale Krajger fanno partire per Vicenza Urban-Vràtusa (« Berto ») con due staffette, i quali giungono verso la fine di ottobre.


Era concordato quell’invio « a livello superiore »? In altri termini, Roasio o Lampredi o Clocchiatti o qualche altro dirigente di Padova ne erano al corrente? Oppure Luka e Krajger colsero la palla al balzo della richiesta vicentina per inviare intanto un « osservatore » politico e militare, in attesa che si chiarissero i rapporti fra P.C.I. e P.C. sloveno?


Sta di fatto che Amerigo Clocchiatti, sempre attento ad ogni più modesto incontro avuto, nel suo memoriale accenna ad Urban-Vràtusa (« Berto ») solo nella primavera del 1944 ed in questi termini (pag. 243): « Giunse a Padova “Ascanio” (Attilio Gombia), lo portai a dormire con me nella casa della fabbrica di biciclette, in quel letto che aveva ospitato anche “Alberto”, un simpaticissimo rappresentante delle forze partigiane jugoslave che aveva visitato le nostre formazioni nel Veneto. “Alberto” poi lo avevo accompagnato a Bologna da Roasio (Antonio), massimo esponente del P.C.I. per il Veneto e l’Emilia) e, per una volta, fu un bombardamento aereo a salvarci (. . .). “Alberto” non l’ho più rivisto ».

 

 

Purtroppo le datazioni non sono indicate. Comunque, tornando al periodo autunnale del 1943, Spriano (pg. 433) riporta che il 23 novembre di quell’anno, quindi mentre Urban-Vràtusa era a Vicenza, ebbe luogo un incontro fra Mario Lizzero,  Aldo Lampredi e due alti dirigenti del P.C. sloveno, i quali ultimi sostenevano una « sbrigativa, e anche altezzosa, impostazione annessionistica » su Trieste e la Benecia.


Lampredi dice: « Non sono d’accordo. Per la necessità .della lotta comune è necessaria la posi¬zione di autodeterminazione dei popoli ». Persistendo in quelle settimane dissensi e tensioni, il « gruppo dirigente del Nord» del P.C.I. inviò, alla fine del 1943, un messaggio a Dimitrov, criticato da Scoccimarro, il quale riteneva che non si dovesse rimettere la questione al giudizio di Dimitrov, ma si dovesse avvertire « Ercoli » (Palmiro Togliatti).


La risposta di Dimitrov giunse il 10 aprile 1944 con un telegramma diretto in Jugoslavia a Kardelj (« Birk ») ed in Italia a Massola (« Quinto »). Il testo diceva: « Riteniamo che è politicamente sbagliato quando si sta combattendo contro il nemico comune acuire i reciproci rapporti tra i partigiani italiani e sloveni con disaccordi territoriali riguardanti Trieste e la zona tra Cividale e Gemona stop. (.. .).


Dimitrov dichiarava indispensabile una stretta collaborazione di lotta e un mutuo aiuto negli uomini e nell’armamento. È quindi documentato che il dissidio iniziale fra P.C.I. e P.C. sloveno venne a soluzione il 10 aprile 1944 e ciò è in accordo con la testimonianza di Giordano Campagnolo e di Antonio Emilio Lievore che Urban-Vràtusa (« Berto »), verso fine febbraio-marzo del 1944 effettuò numerosi viaggi da Vicenza alla Slovenia probabilmente per ottenere le autorizzazioni e le credenziali che in seguito lo spostarono a Milano presso il C.L.N.A.I. ed in varie città dell’alta Italia. A questo secondo periodo dovrebbero quindi appartenere gli incontri di « Berto » con Nello Boscagli (« Alberto ») e con Orfeo Vangelista (« Aramin ») nell’area garibaldina della « Garemi ». Risulta infine documentato che Urban-Vràtusa venne anche a Schio.

Emilio Trivellato



Per una ulteriore documentazione sulla Missione jugoslava  « Berto » riportiamo integralmente il testo di un dattiloscritto (consegnato il 27-3-1978) di GIUSEPPE ROSSI, Il vicentino che si recò presso i Comandi jugoslavi nell’autunno del 1943 e che poi tornò a Vicenza con « Berto » e con « Silvio ».

GIUSEPPE ROSSI. Figlio di Giuseppe. Nato a Vicenza il 23-4-1915, commerciante. Appartenente, durante la Resistenza, assieme alla moglie, alla Brigata « A. Segato» della Divisione Vicenza.

ROMANA BICEGO in Rossi. Figlia di Pacifico (Tranvie Vicentine). Nata a Vicenza il 22-4-1914. Considerata come arruolata nell’Esercito, con la qualifica di partigiana combattente, per aver fatto parte dall’1-10-1943 all’1-5-1945 della formazione partigiana Brigata « A. Segato » In zona di Vicenza -Divisione Vicenza. Le sono state assegnate due Croci al Merito di Guerra.


« Con ausilio della memoria cercherò con questa narrazione di mettere in evidenza la tragica situazione che si è venuta a determinare con l’annuncio di un bollettino straordinario del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, col quale annunciava alla Nazione la firma della resa incondizionata dell’Italia nei confronti delle Nazioni Unite.


A quell’annuncio è evidente che nei volti della popolazione sia apparso un senso di giubilo, di sollievo e di entusiasmo perché si riteneva la cessazione definitiva delle ostilità. Ma, è giusto il chiedersi quale sarà la reazione dei tedeschi all’ultima frase del comunicato di Badoglio: la guerra continua contro i tedeschi e i fascisti. Infatti, questa non tardò a farsi sentire, tanto che, con brutale ferocia, già al giorno 9 e 10 settembre l’intero territorio italiano era occupato dalle forze nazifasciste, seminando un panico di terrore bestiale nei confronti della popolazione inerme, e indifesa, ma, essendo viva in noi la fede nel senso di giustizia che anima il popolo italiano, subito ci siamo adoperati, io e il De Marco Ferruccio, alla costituzione di un gruppo armato per controbattere la ferocia tedesca contro i nostri fratelli, il gruppo aveva la sua base sulle pendici di Monte Berico.


La furia tedesca non risparmiò nessuno; militari e civili presi in massa venivano rinchiusi in carri bestiame per essere deportati in Germania. Si udivano grida di terrore e di invocazione d’aiuto. Come si poteva rimanere indifferenti a quelle invo¬cazioni di aiuto? Visto in quale tragica e triste situazione essi si trovavano, immediata fu la nostra reazione contro i tedeschi e nel mentre noi tenevamo a bada con un conflitto a fuoco i tedeschi, altri erano incaricati ad aprire i carri bestiame per far fuggire i fratelli rinchiusi; la nostra azione ebbe l’esito sperato in quanto tutti furono liberati.


Da parte nostra si ebbe un ferito non grave agli arti inferiori nel mentre da parte loro ebbero un morto. Si ebbero subito contatti con Mariano Rossi, Giordano Campagnolo, Gino Cerchio, Mario Segala, Licisco Magagnato; con i quali si ebbe una riunione in casa di Mariano Rossi al Ponte delle Belle, ed in quella riunione si decise di approntare una ulteriore consistente lotta contro il tedesco invasore ed il fascismo, con atti di sabotaggio. All’aeroporto di Vicenza vengono sabotati  ben 5 trimotori e recuperate, radio riceventi e trasmittenti, mitragliatrici e diversi fusti di benzina. Dalla Misericordia, vengono trafugate casse di bombe a mano e armi e munizioni.


Dalla casa ex GIL si asportarono armi e munizioni e una cassa di bombe a mano. Da un magazzino vengono trafugate centinaia di paia di scarpe. Da un comando tedesco viene trafugato un rigeneratore di energia e diverse armi e munizioni. Da un deposito di macchine requisite dai tedeschi vengono asportate due autovetture. Interruzioni di linee telegrafiche e telefoniche. Dall’Ospedale di Conegliano vengono trafugate coperte ed un ingente quantitativo di medicinali.


Dall’Ospedale Militare Territoriale di Vicenza, tramite Rossi Mariano vengono fatti fuggire circa trecento degenti in pericolo di deportazione in Germania, fornendoli di regolare licenza di convalescenza di 90 giorni, e prelevato altresì un ingente quantitativo di materiale sanitario. Le armi e munizioni venivano consegnate al gruppo costituito a Fara Vicentina del quale erano responsabili i fratelli Paletti, e al gruppo di Thiene al comando del ten. Zanchi.


In una riunione in casa di Rossi Mariano si gettarono le basi per un collegamento con il movimento Jugoslavo partigiano, ma dopo tante discussioni circa il compimento di questa azione rischiosa e delicata a nessuna conclusione si era giunti, in quanto tutti la volevano, ma nessuno si sentiva di compierla, per i rischi che richiedeva. Visto, che nessuno dei presenti voleva compierla spontaneamente mi offersi compiere questa delicata e pericolosa missione in terra straniera, cioè nella vicina Jugoslavia per collegare il movimento partigiano Italiano a quello jugoslavo. Infatti, fornito di false documentazioni ed in possesso del codice cifrato per un eventuale collegamento via radio in caso di riuscita della mia missione, intrapresi il cammino verso la vicina Jugoslavia.


Via treno giunsi sino a San Pietro del Carso. Da San Pietro del Carso seguendo l’itinerario che mi ero fatto, tra valichi e sentieri, giunsi nel fondo di una grande boscaglia, dove ravvisai un accampamento con delle sentinelle che portavano sul berretto una stella rossa. Certo di trovarmi dinanzi al Quartier Generale di Tito, con coraggio mi avvicinai con il saluto a pugno chiuso, e chiesi di essere presentato al Comando in quanto dovevo spiegare la ragione della mia presenza legata ad una importante missione.


Venni presentato ad un maggiore italiano di origine cremonese, aiutante maggiore di Tito, e dopo avere parlamentato spiegando lo scopo della mia visita mi presentò al Comandante che non era altro che il Maresciallo Tito. Fornii i dati codificati per il congiungimento via radio con il nostro movimento. Non nascondo che da parte loro nei miei confronti era subentrata una forte diffidenza sospettandomi per una spia, diffidenza giustificata e che era da parte mia giustificata in quanto non sapevano chi io fossi.

Avvenuto il collegamento con il nostro movimento via radio ed avutone tutte le informazioni sulla mia persona, fui oggetto di ogni premura da parte loro. Dopo aver soggiornato qualche giorno nell’accampamento venni chiamato nuovamente da tito e fattomi il discorso di prammatica mi affidò la missione jugoslava da portare in Italia guidata da Anton Vatrusa (Berto). Lo scopo era stato raggiunto in quanto la Missione Jugoslava era giunta con me in Italia e giunti a Vicenza venne presentata in casa di Mariano Rossi.

La Missione ebbe la sua base operativa inizialmente in casa di Oddo Capannari, poi dalla Olimpia Menegati ed infine in casa di Romeo Dalla Pozza in Via Santa Lucia. Alla Missione sono state fornite prontamente tutte le informazioni relative al movimento delle truppe nazifasciste, e al loro potenziale aviatorio e bellico, nonché la dislocazione dei Comandi e quasi tutte queste notizie riescono a raggiungere i servizi di sicurezza dell’VIII Armata.

In una missione compiuta a Schio assieme al De Marco Ferruccio, Luciano Rotta e Abramo Busetto, nel viaggio di ritorno fummo oggetto di una delazione da parte di una persona di Thiene, e, giunti alla Stazione di Thiene, veniva da parte dei tedeschi bloccato il treno con l’intimazione che nessuno scendesse dal convoglio. Consci di essere ormai braccati, si cercò di liberarsi delle armi in nostro possesso e messele in una borsa di pelle si fece scendere il Luciano Rota da un finestrino che si dileguò nel buio.

Visti salire sul treno i tedeschi si cercò di dividersi ma il nostro sistema non funzionò in quanto assieme ai tedeschi c’erano pure i fascisti che avevano ricevuta la delazione e che si trovavano anch’essi nel Bar dove eravamo noi a Schio. Venimmo arrestati, io, mia moglie ed il Busetto Abramo e condotti con un camion, scortato da due auto di tedeschi con mitra, alle scuole elementari di Thiene sede del Comando tedesco e interrogati per tutta la notte. Nelle fasi dell’interrogatorio volevano sapere a quale gruppo partigiano noi appartenessimo, dichiarandoci traditori.


Cercai in tutti i modi di convincere il Capitano tedesco che si trattava di un errore in quanto nulla noi avevamo a che fare con i partigiani, ma che eravamo all’opposto di quello che ci veniva attribuito, e feci vedere al Capitano tedesco un tesserino personale di invalido di guerra ed uno che ero interprete in Germania e così riuscii a convincerlo di rilasciarci. Infatti al mattino, venimmo rilasciati io, mia moglie e il De Marco Ferruccio nel mentre il Busetto venne trattenuto, in quanto era stato trovato nel suo bagaglio un caricatore di pistola simile alla pistola che era stata rinvenuta nello scompartimento del treno dai tedeschi.


Il giorno seguente i tedeschi consegnarono il Busetto alla Polizia Italiana e precisamente al Capitano Polga, ed è cosa ancor oggi incomprensibile per me il valutare come il Capitano Polga abbia potuto venire a conoscenza del mio nascondiglio in quanto me lo vidi di fronte con i tedeschi e mi arrestò per intelligenza con il nemico, gravi atti di sabotaggio e appartenenza a bande armate. Certamente che nella mia testa stava per formarsi uno stato confusionale nel pensare chi potrebbe essere stato il delatore, ma per fortuna venni subito in possesso della mia lucidità mentale e negai decisamente tutte le accuse che mi venivano attribuite definendole una infame macchinazione calunniosa nei miei confronti.


Allora il Capitano Polga mi disse che avrei avuto ancora la possibilità di salvarmi. e per far ciò era sufficiente che io aderissi alla Repubblica Sociale Italiana; nel frattempo si era giunti all’altezza del ponte Santa Libera e con uno slancio riuscii a saltare dalla macchina in movimento e gettarmi nel fiume Retrone facendo perdere le mie tracce. Venni assistito dal signor Tonin Giuseppe, titolare della Trattoria Scanferla, che mi sostituì gli indumenti personali bagnati.


Cercai con tutti i mezzi di avvisare il De Marco che eravamo ricercatissimi e poi mi allontanai da Vicenza per Milano, dove contavo delle amicizie, e venni indirizzato all’Hotel Ausonia in Via Victor Pisani di proprietà di una signora di Brescia, che mi ospitò senza essere notificato alla polizia e mi aveva riparato in uno sgabuzzino introvabile. Mi fece conoscere molte personalità del movimento clandestino, come l’Avv. Antonio Greppi, l’Avv. Ezio Vigorelli, Bucalossi, Enrico Mattei, Giovanni Bracco di Biella e Rivetti di Vercelli, dai quali ebbi ogni sorta di aiuto.


Tramite Giovanni Bracco ebbi contatti con i partigiani di Oropa ed ebbi a svolgere delicate missioni tra i partigiani del Biellese, del Vercellese e della Val di Lanzo e Milano compresa, con contatti con la Primula Rossa Italiana, Gino Dainese mio concittadino. Arrestato dalle SS riuscii nuovamente e fuggire rendendomi uccel di bosco e per cambiare un po’ d’aria mi recai a Castelnuovo di Vicenza, dove era sfollata la famiglia di mia moglie, per avere notizie dell’arresto di mia moglie.


Trovandosi lei ancora in stato di arresto, come mio ostaggio, e pensando alle torture che veniva sottoposta per por fine alla condizione triste e pietosa in cui lei si veniva a trovare ero deciso di presentarmi ma chi mi fece desistere dalla mia intenzione furono le lacrime ed il convincimento di mia madre che era il desiderio di mia moglie che non mi presentassi in quanto ero stato condannato a morte dal comando tedesco di Verona.


Mi resi irreperibile fino al 15 agosto 1944 giorno in cui venni arrestato dal Capitano Polga a Castelnuovo per una delazione, dopo aver svolta l’ultima mia azione proprio a Castelnuovo, facendo consegnare, armi in pugno, tutto il grano agli agricoltori del luogo che era stato tolto loro dalle autorità locali fasciste e feci fuggire il controllore alla requisizione, un ex appuntato dei carabinieri. Arrestato il 15 agosto 1944 venni condotto in Questura e, per il fatto che si erano avvicinati, vennero pure arrestati mio cognato Pellizzari e certo Barba.


La furia tedesca e fascista nei miei confronti non si arrestò, in quanto in seguito alla mia fuga dai tedeschi (4 novembre 1943) venne arrestata mia moglie come ostaggio e condotta alle carceri giudiziarie di Vicenza rimanendovi sino al 9 novembre per essere poi nuovamente prelevata dai tedeschi e condotta alla Caserma Sasso e sottoposta alle più atroci torture e maltrattamenti, perché svelasse il mio nascondiglio e quello dei compagni di lotta.


Essendo nel frattempo arrestato Alessandro Stefani mio compagno di lotta e messolo di fronte a mia moglie per un riconoscimento al Comando tedesco dell’Albergo Roma, mia moglie rispose di non averlo mai visto e conosciuto, accentuando così le ire dei tedeschi. Dalle Carceri di Vicenza venni passato al centro di deportazione in Germania della Misericordia e mia moglie venne passata a questo centro dalla Caserma Sasso per essere avviati tutti e due in un campo di sterminio e precisamente Buchenwald, ma ringraziando il Signore per un attacco al convoglio da parte dei partigiani che avevano fatto saltare la linea ferroviaria si riuscì, dopo essersi dileguati, partire con un altro convoglio con destinazione Mannheim.


Dal campo di lavoro di Mannheim e precisamente il giorno 15 ottobre 1944 in quanto la moglie con febbre a 40 doveva ugualmente sottoporsi a pesanti lavori pensai di fuggire per ricoverare la moglie in una Klinika della vicina Heidelberg. Infatti recatomi alla Frau Klinik, ebbi a trovare una Prof.ssa Austriaca ed un Prof. Spagnolo ai quali ho raccontato la mia odissea; con gesto di umana bontà mi ricoverarono la moglie in Klinika assicurandomi ogni cura e custodia.


Rimasi sempre uccel di bosco per la città di Heidelberg e dintorni e mi rifocillavo con i panini che mi conservava la moglie e le amiche ricoverate. Non passarono diversi giorni che ebbi l’opportunità di incontrare un amico vicentino certo Franzina Erminio, anche lui internato militare poco lontano da Heidelberg, e gli raccontai di andare a trovare mia moglie e vedere se avesse bisogno di qualche cosa, in quanto io non potevo mettermi in evidenza dai tedeschi in quanto ero ricercato, ed infatti dopo pochi giorni venni arrestato dalla Gestapo e condotto alle Carceri di Mannheim, dove subii ogni sorta di maltrattamenti senza sapere più nulla della moglie.


Passarono così ben quattro mesi, era il mese di febbraio 1945, venni chiamato e condotto in una stanza e subito pensai al mio turno, in quanto molti compagni di sventura ho visto sopprimere con il tradizionale colpo alla nuca, ma anche questa volta per me era andata bene in quanto in quella stanza rividi mia moglie, perché tramite l’Ospedale che si era interessato le era stato concesso di farmi visita per soli cinque minuti in quanto doveva rimpatriare per malattia. L’incontro fu tragico in quanto ero andato in escandescenze imprecando contro la malvagità dei tedeschi e solo la bontà dell’interprete poté salvarmi dalla morte sicura, in quanto egli richiesto di ciò che io avevo detto alla moglie, rispose che avevo detto che mi trovavo bene e che ritorni più che tranquilla e che cerchi di curarsi.


In seguito ad un bombardamento aereo, in quanto Mannheim era quotidianamente soggetto ad incursioni aeree, venne dimezzato il carcere mietendo ben 280 vittime, ed in tale circostanza incurante del pericolo riuscii a fuggire calandomi per le grondaie a tubo dell’acqua, e con mezzi di fortuna ma il più a piedi raggiunti Innsbruk, dove ebbi la fortuna di incontrare due coniugi da Vicenza, certi Bolcato, che mi condussero nella loro abitazione e rifocillarmi in quanto loro erano dei lavoratori liberi, ed il giorno seguente sapendo che ogni giorno partiva un treno ammalati mi condussero alla stazione e mi fecero salire, arrivando così indisturbato sino a Bolzano ».