QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Ottobre 1977 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
Volume II
LE ARMI DELLA GUERRIGLIA
di Valerio Caroti
Il partigiano si sentiva tale con un’arma e un paio di bombe a mano; egli raggiungeva la perfezione quando l’arma era automatica, con una dotazione di sei caricatori di scorta, e le bombe a mano erano « sipe ». La pistola, sul piano pratico, costituiva solo un vezzo o quasi. Armato così, il partigiano era certo del fatto suo e si sentiva il padrone del bosco; straordinariamente geloso dell’arma, sotto questo profilo era un individualista spinto perché, di frequente, si trovava ad operare anche isolato e da solo doveva cavarsela nelle situazioni più difficili e imprevedute.
Nell’autunno del 1943, il panorama degli armamenti dei primi, incipienti e occasionali nuclei partigiani era piuttosto sconfortante, quasi degno di una armata « brancaleone ».
Figurava in prima linea il vecchio « glorioso » fucile 91: si distinguevano i 91 che avevano fatto le battaglie del Carso, del Pasubio e degli Altipiani perché il loro calcio era in legno di noce invece che di faggio, ma non tutti gli attori del dramma erano in grado di apprezzare queste finezze storiche.
Comunque di questi cimeli ne era stata asportata una certa quantità dagli antifascisti di Schio durante il trambusto dell’otto settembre ma, peraltro, il munizionamento era scarso.
Inoltre erano state sottratte due mitragliatrici « Breda » cal. 8, chiamate per antonomasia « le pesanti » (lo stesso linguaggio corrente nell’ex regio esercito) e una Fiat antiaerea. Infine, erano saltati fuori un paio di mitragliatori che erano autentici gioielli di meccanica per il gioco dell’otturatore, percussore e piani inclinati, ma molto propensi a incepparsi.
Con le mitragliatrici era stata sottratta qualche cassetta di munizioni.
Poi grazie all’inesausto spirito inventivo e di ricerca proprio degli italiani oppressi e angariati, erano emerse, chissà da dove, pistole a tamburo di tutte le fogge ed epoche: non molte a dir la verità, ma in numero sufficiente per richiamare l’attenzione. Le pistole a tamburo apparivano decisamente più fantasiose e marziali delle tetre e monotone pistole automatiche. La pistola a tamburo più imponente era posseduta da un comandante di distaccamento: una «colt» calibro 13 autentico mostro di inusitata grandezza. Naturalmente aveva fatto la sua comparsa qua e là anche la pistola « Beretta » calibro 9 portata a casa da qualche militare dell’autocentro e forse da qualche ufficiale. Chiudeva il campionario qualche moschetto cal. 6,5 e una modesta rappresentanza di bombe a mano dell’ex regio esercito: S.R.C.M., O.T., Breda tanto villane nel botto quanto gentili e approssimative nelle conseguenze.
Quelle poche armi possedute e occultate contro il tirannico ordine costituito del momento, avevano un’« aura » di misteriosa e possente suggestione che infondeva coraggio e speranza.
Quel bottino iniziale fu il principio della lotta armata e servì a dare linfa per vari mesi trasmigrando spesso dalla zona di Schio verso altri lidi, a Conco, a Campetto ecc. ma tornando poi mediamente alla base. Comunque le mitragliatrici, a quel tempo, erano poco più di un conforto morale essendo al di sopra della capacità manovriera delle prime formazioni.
Poi, con il 44, incominciarono a spuntare i mitra « Beretta » cal. 9 (5) gli odierni MAB, frutto di qualche colpo di mano su caserme e depositi della g.n.r. o di finti colpi di mano su caserme di Carabinieri estremamente inclini ad aprire le porte; e ciò è tanto vero, che ad un certo momento, i nazisti deportarono in Germania i pochi rimasti che non avevano fatto a tempo a venire con noi. Il mitra « Beretta » era già un fatto apprezzabile: quando non s’inceppava, sparava lungo e preciso e la sequenza dei colpi era rapida.
Un buon passo avanti fu anche la comparsa della « machine pistola » cal. 9, perché le formazioni, man mano che andavano prendendo fiato, avevano preso interesse ai presidi, alle colonne e agli accantonamenti tedeschi. La « machine pistola » era una buona arma che s’inceppava di rado perché la percussione avveniva a mezzo « massa battente » e l’ingombro, volendo, era minimo essendo il calcio in ferro ribaltabile. Inoltre, ogni « machine pistola » rappresentava un fatto stimolante e i possessori erano guardati con molto rispetto perché il tedesco, specie un SS, era un nemico assai più ragguardevole di un qualunque scalcinato armigero della repubblica di Salò, anche se incattivito. Non che tutti i tedeschi fossero armati di « machine pistola », c’erano anche i « Mauser » a rimpolpare lo sparuto armamento e assieme al nostro 91, venivano buoni per i tiri lunghi.
Naturalmente comparve la « P 38 », un’ottima pistola che sedeva franca e sicura nella mano che la impugnava e costituiva soprattutto un trofeo ambitissimo perché dietro ad essa c’era stato di solito un ufficiale del grande Reich millenario.
A quei tempi la conquista di una « P 38 » era impresa alquanto rischiosa e ciò a differenza dei tempi presenti ove la stupida e feroce bravata della « P 38 » non è costata nulla o non costa poi granché, forse nemmeno un briciolo di emozione in chi la usa.
Successivamente con i pochi lanci a primavera inoltrata, vennero in relativa quantità gli « Sten » o « Parabellum » discretamente munizionati, le bombe a mano « sipe » e qualche sporadico « Bren », tutte armi che erano già piovute con una certa abbondanza sull’ Altipiano di Asiago (dove erano state ben immagazzinate e oliate futuro armamento della « Sette Comuni » e della « Mazzini »). Le « cose » piovute dal cielo qui in zona, furono afferrate da mani avide e distribuite equamente fino all’ultima pallottola.
Tutto ciò fece fare un salto qualitativo alla guerriglia e consentì di rendere più interessante e meno interlocutorio il dialogo con gli avversari. Lo « Sten » o « Parabellum » era un’arma leggerissima calibro 9 in acciaio lavorato rozzamente con sbavature da tutte le parti e non tirava lontano ma in compenso non tradiva mai: anche coperto di fango sparava sempre con raffiche velocissime.
Esso costituì l’arma per eccellenza per gli attacchi rapidi e per le imboscate. Le pallottole dello « Sten » andavano bene per la « machine pistola », per il « mitra », per le « P 38 » e per le pistole « Llama ».
Erano queste ultime delle pistole monumentali e bellissime piovute con i lanci; le poche giunte finirono requisite dai comandanti, i quali, in tutte le epoche e sotto tutti i cieli, sono pur sempre « comandanti ».
La « sipe », oggi volgarmente chiamata « ananas », aveva un’aria grigia e dimessa rispetto alle sgargianti bombe a mano dell’ex « regio esercito »; della dimensione di un bel limone, quella britannica pesava quasi un chilo e quella canadese un po’ meno, circa 880 grammi.
L’accensione avveniva a miccia della durata di 6 secondi e bisognava lanciare a tempo giusto per evitare che la bomba ti scoppiasse in mano o perché il nemico non facesse a tempo rilanciarla. Quando scoppiava era la fine del mondo e una sola, ben piazzata, vuotava un camion o determinava la resa di una casermetta.
Il « Bren » era invece un mitragliatore a massa battente che non si inceppava mai e sparava lontano con tiro gagliardo e preciso. Spesso, un uomo solo era sufficiente per portare e mitragliatore e munizioni. Uno poteva sparare con l’arma appoggiata per terra, ma, occorrendo, poteva sparare maneggiandola come un parabellum.
Il « Bren » fu veramente un’arma impareggiabile che se non aveva il tiro lunghissimo della mitragliatrice « Breda », in compenso aveva una maneggevolezza che compensava largamente la minore potenza; assieme allo « sten » fu il protagonista di molti scontri avendo la meglio sulla « MC » tedesca. Nella battaglia del Pasubio del 31 luglio-1 agosto 1944, un solo Bren manovrato con perizia, fece piazza pulita di interi plotoni di SS ubriache; per l’occasione gli furono degni ausiliari i vecchi « 91 » che beccarono un gran numero di nemici lontani, mentre gli « sten » vennero buoni solo per la sorpresa finale, un sorpresa, invero, assai spiacevole per le « SS ».
Piovve anche un mortaio da 81 mm., ma ai vecchi ex alpini che lo sapevano usare, scappò qualche bestemmia perché le bombe erano molte ma le cariche di lancio pochissime. Probabilmente il soldato che aveva appeso il mortaio al paracadute o era alticcio o aveva pensato che quei pacchettini insignificanti fossero superflui.
Naturalmente il dialogo sempre più confidenziale con i tedeschi incominciò a fruttare bombe a mano della Wermacht che come potenza stavano a 1/3 di strada tra quelle dell’ex regio esercito e le « sipe » britanniche, ma potevano essere lanciate molto più lontano essendo munite di manico in legno.
Fece qualche fugace apparizione la classica mitragliatrice tedesca la « MG 42 » che sparava benissimo, ma divorava con troppa avidità i pochi nastri di munizioni di cui era dotata diventando quindi inutile.
Il problema del munizionamento fu sempre piuttosto grave per le formazioni partigiane; anche se in talune occasioni poteva essere sviluppato un cospicuo volume di fuoco, la dotazione di munizioni non consentiva di prolungare il combattimento. Perciò gli attacchi dovevano essere fulminei per risolvere la partita nei primi minuti, giacché, in caso contrario, ci si doveva sottrarre rapidamente al combattimento ricorrendo, ove necessario, ad un attacco di diversione.
Questa fu una norma applicata ferreamente nelle formazioni partigiane scledensi durante tutto il periodo della guerriglia, salvo rarissimi casi di forza maggiore: qualche errore, in materia, è costato assai salato. Infatti, oltre alla scarsità della dotazione e dei depositi, non si poteva avere certezza dei successivi rifornimenti: quelli dei lanci erano sporadici e non programmabili nonostante la dichiarata buona volontà delle missioni alleate; più certi, più programmabili, anche se più aleatori e rischiosi, erano quelli dei colpi di mano. Proseguendo nel tempo, troviamo sempre nuove armi di foggia diversa frutto degli ormai numerosi assalti ben riusciti. Tra queste vi era la « Steyer » cal. 9, una buona pistola austriaca (14), o la nota « Luger » tedesca con il carrello che si rialzava.
I tedeschi erano molto affezionati alle loro armi tradizionali, ma negli ultimi mesi essi avevano armato la gente più incredibile come indiani, e mussulmani dando a loro armi di tutti gli eserciti europei.
Verso la fine, l’armamento in mitragliatrici, in « Bren » e armi automatiche individuali, divenne più considerevole, in uno alla comparsa di mezzi più potenti quale la mitragliera da 20 mm., il « bazooka » americano, e il « panzer¬faust » tedesco. Il «bazooka» era un arsenale perché bisognava essere in due; il « panzer faust », invece era più maneggevole ma molto meno preciso: in ogni caso erano due armi potentissime, ma non ci furono molte occasioni d’uso, preferendo il partigiano risolvere certi casi complicati con la « sipe » o la « ballerina ».
Erano poi venute per le mani delle pistole di rara fattura che qui non ricordo: molti ufficiali della repubblica di Salò avevano il vezzo, forse proprio dei capitani di ventura, di possedere pistole cesellate, miniate, infiocchettate che erano una meraviglia a vedersi, più idonee a figurare in una raccolta che ad essere usate in guerra. Ho in proposito il ricordo di due episodi distinti uno capitato al mio capo di Stato Maggiore ed uno al sottoscritto: verso la fine, due ufficiali superiori della repubblica sociale ci offrirono le loro pistole impreziosite come segno della cessazione delle ostilità, e noi le accettammo sportivamente. Un vero rituale da cavalieri della tavola rotonda, perché la «cavalleria» in certi casi, non era sempre morta del tutto.
Comunque l’auspicabile armamento di una pattuglia di 10/12 uomini era: un mitragliatore « Bren », due terzi di armi individuali automatiche, 1/3 di armi individuali a tiro lungo (fucili « 91 » e « Mauser ») e per ciascun partigiano almeno due bombe a mano « sipe ».
Tale perfezione purtroppo, non fu mai raggiunta, salvo che in qualche reparto verso la fine della guerra.
Un discorso a parte merita la dinastia degli esplosivi e degli accessori da sabotaggio. In principio venivano usati mezzi casalinghi quale la dinamite delle cave, la polvere nera e qualche raro reperto delle caserme dell’ex regio esercito.
Poi gli alleati si svegliarono e quanto furono parsimoniosi in armi e munizioni, altrettanto furono prodighi nel fornire esplosivo: una autentica valanga da mandare in fumo l’alto Vicentino. Siccome era potente, e ne bastava poco, a fine guerra ne avanzò così tanto, che per anni, i boscaioli dei nostri monti andarono avanti a far saltare le « soppe ».
Si trattava del « plastico », un composto colloidale della consistenza del pongo, formato da nitroglicerina, cotone collodio (nitrocellulosa) ed uno stabilizzante: esso aveva le proprietà dirompenti della nitroglicerina. Bastava appiccicare un salamino di quella roba con il suo detonatore ad una rotaia e la rotaia saltava via tranciata che era una bellezza. Nelle istruzioni stava scritto che il plastico aveva una potenza di 17-20 volte la normale dinamite di mina, ed era vero: con uno zaino pieno di quella pasta, il partigiano aveva con sé l’equivalente di 6-7 quintali di dinamite ed era in grado di far saltare qualsiasi ponte o strada.
Il plastico pioveva dal cielo in bidoni da 2 quintali appesi al paracadute ed era confezionato in salamini, tipo «cacciatora», avvolti in carta oleata. Il plastico si prestava anche ad usi diversi da quelli bellici: per esempio serviva egregiamente a scaldare il minestrone con piccolo fuoco e breve tempo: acceso, ardeva di una fiamma azzurrognola ma aveva l’inconveniente di far venire il mal di testa a maneggiarlo troppo. Ma come combustibile era decisamente eccezionale e in questo modo per nulla eroico, i partigiani ne consumarono una quantità di poco inferiore a quella impiegata in operazioni belliche.
Il plastico veniva usato anche per confezionare le « ballerine »: la «ballerina » consisteva in una scatola con un coperchietto che teneva ferma la sicura del detonatore e in una vera e propria sottanina rigonfia fatta di tessuto che partiva dalla scatola e in fondo veniva chiusa con i legacci: la si riempiva a piacere di plastico, (ne conteneva fino a 1 chilo e mezzo) ed ecco pronta una bomba di incredibile efficacia. Bisognava lanciarla piuttosto lontana e poi giù a terra per non essere investiti dal tremendo spostamento d’aria.
Per far funzionare il plastico occorrevano i detonatori e le micce. I detonatori erano di varie qualità: il detonatore semplice nel quale si infilava una miccia più o meno lunga a cui poi si dava fuoco, e i detonatori montati su speciali apparecchietti diabolici che si accendevano a tempo o a pressione. Ricordo il gesto abituale di schiacciare leggermente il detonatore comune con i denti per fermare la miccia.
Le micce in uso dalle nostre parti erano di tre tipi: miccia lenta di colore nero; miccia rapida di colore rosso-arancione; miccia istantanea o detonante di colore bianco.
La miccia nera era quella di uso più corrente; la miccia rossa serviva per le esplosioni da lontano e se ne poteva impiegare anche qualche centinaio di metri; la miccia bianca o istantanea o detonante, serviva sia per le esplosioni da lontano, ma più specificamente per l’esplosione simultanea di più cariche distanziate oppure di una grossa massa di esplosivo che veniva fasciata dalla miccia e lardellata di detonatori. La miccia detonante era usata per esempio per ponti con più piloni, per lunghe scarpate o sulle strade di transito con speciale predilezione per le ferrovie. Sui binari venivano collocate, distanziate tra loro, varie cariche di plastico (successivamente sostituite da apposite granate).
Ogni carica era collegata da miccia detonante che faceva capo a sua volta a un detonatore con apparecchio a pressione sistemato alla fine delle cariche dalla parte opposta di provenienza del treno merci o dalla tradotta. Per avere la sicurezza matematica di una buona riuscita, si impiegavano più detonatori con più apparecchi a pressione e una doppia mandata di miccia detonante: quando la locomotiva giungeva sui detonatori a pressione, tutto o gran parte del treno si trovava sulle cariche e saltava.
Una operazione ben riuscita fu quella del giugno 1944, in Val Lagarina condotta a termine da un gruppetto di partigiani della Garemi: i partigiani abbondarono un po’ troppo sull’esplosivo e assieme alla tradotta, andò a finire nell’Adige l’intera scarpata della ferrovia.
Non sempre si riusciva a fare dei lavoretti alla perfezione per mancanza di tempo, ma rischio più, rischio meno, si mettevano in ogni caso diverse micce e detonatori per rendere certa la deflagrazione; spesso il lavoro doveva essere compiuto tra il passaggio e l’altro di una ronda.
Tra i congegni a tempo, figuravano le matite. Queste contenevano una fialetta in vetro di acido corrosivo: rotta la fialetta, l’acido aggrediva una leggera lamina di rame che teneva fermo un percussore, che liberato, innescava un detonatore.
Successivamente furono lanciate mine calamitate, mine da applicare ai binari, da disseminare nelle strade di transito; speciali granate perforanti per creare camere da mina; granate al fosforo che erano inestinguibili. Tuttavia, salvo qualche mina calamitata e qualche mina per binari, questo sofisticato arsenale rimase inutilizzato e con molta parsimonia furono impiegate le matite a tempo per evitare ogni possibilità di danno a terzi estranei alla partita che si giocava.
A oltre trent’anni dalla partita si possono ormai fare delle constatazioni che quasi coincidono con un giudizio:
1 - Gli alleati furono molto generosi nel rifornire di esplosivo i partigiani, mentre furono piuttosto avari, anzi scozzesi, nel dare armi. Diciamo francamente erano restii. Infatti un esercito munito più di esplosivo che di armi è più facile da disarmare al momento giusto ed è più agevole inserirlo nell’« ordine costituito ».
2 - I partigiani ebbero le armi per la metà dagli alleati, e per la metà se le presero da soli. Nel primo caso siamo di fronte ad un fatto tecnico anche se interessante, nel secondo caso abbiamo a che fare con un fatto complesso che molte volte superava per fantasia le stesse situazioni dei films western più spericolati.
3 - I partigiani non usarono tutte le armi, ma solo le armi più adatte al tipo di guerriglia condotta. Nella nostra zona la guerriglia fu condotta sempre con rapidi colpi di mano, attacchi fulminei con diversioni altrettanto improvvise; per tale motivo le armi per eccellenza furono le armi individuali automatiche (tra cui si può annoverare il Bren anche se aveva la potenza di una mitragliatrice) e le bombe a mano. Le mitragliatrici « Breda » furono poco usate, le mitragliere e le armi più grosse quasi mai, perché nella nostra zona fu sempre rifuggito lo scontro a oltranza, salvo rarissimi casi di forza maggiore, o la resistenza statica, sperimentata con conseguenze funeste in altri luoghi della provincia e fuori di essa.
Un vecchio proverbio toscano dice: « Le nozze non si fanno con i fichi secchi », ma quando non si può fare in altro modo, talvolta si possono fare le nozze anche con i fichi secchi e l’entusiasmo ugualmente non manca.
Novembre 1977
Valerio Caroti