QUADERNI DELLA RESISTENZA 
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Ottobre 1977 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
 
 
Volume II 


L’UCCISIONE DI DON PIETRO FRANCHETTI

 

 

di Gian Paolo Resentera
 
 
 

 

 

IL FATTO

A S. Rocco di Tretto don Pietro Franchetti giunse da parroco a 47 anni, nel novembre del 1933, e vi rimase fino alla morte, avvenuta undici anni dopo. Ed è proprio per la morte che egli entrò nella storia della Resistenza scledense. Fu infatti assassinato proditoriamente la mattina di martedì 27 giugno 1944, subito dopo la messa delle sei, celebrata nella cappella in onore dei Caduti della grande guerra, che dista dalla chiesa parrocchiale una cinquantina di metri ed è posta sul lato sinistro della strada che conduce al cimitero e alla contrada Casalini.


Come il fatto fosse avvenuto è possibile ricostruirlo con la testimonianza di don Carlo Barban, allora parroco di S. Ulderico, cui andò subito a raccontarlo un testimone diretto. Passate le sette di quel giorno don Carlo Barban stava parlando con don Alessandro Martini, cappellano del duomo di Schio, il quale dopo alcuni giorni di permanenza alla colonia di Bosco di Tretto intendeva scendere in città. In quel mentre arrivò, di corsa e pieno di agitazione, un certo Pio Dalla Vecchia, gestore per conto dell’Azione Cattolica di S. Rocco dell’osteria esistente ancor oggi a destra dell’imboccatura della strada per il cimitero, a pochi passi perciò dalla cappella dei Caduti.


Alla cappella veniva detta ordinariamente una messa al mese. Quel giorno, essendo estate, la messa era stata detta alle sei e la poca gente se ne era già andata, quando il sacrestano, che ritornava per prendere i paramenti, trova il parroco riverso in un lago di sangue. Nel girarlo supino gli sembra che dia ancora qualche segno di vita. Si precipita fuori a chiamar aiuto. Esce dall’osteria per dare soccorso Pio Dalla Vecchia, ma ormai il parroco è morto.


Il Dalla Vecchia ricorda allora di aver udito poco prima alcune forti grida e prima ancora di essere uscito sulla porta e di aver visto due giovani vestiti in maniera anonima, cioè con camicia e calzoni (uno però aveva un fazzoletto annodato intorno alla testa) che si erano avvicinati al sacerdote, chiedendogli di accompagnarli in una certa località su nel bosco, per dare assistenza a dei feriti; ricorda altresì come il sacerdote fosse sceso dai gradini della cappella, l’avesse affiancata sulla strada e avesse indicato con il braccio, dicendo però che non sarebbe andato, ritornando quindi indietro. Pio Dalla Vecchia era poi rientrato in casa, e poco dopo aveva sentito le grida, ma non ci aveva badato.



Per curiosità, diremo che la strada fatta era una scorciatoia attraverso le contrade Bàllare, Pècare, Ròmare, Costa, tutte nella Valle dell’Orco, per la quale si può giungere a S. Ulderico in una mezz’ora, senza dover fare i circa quattro km. che occorrono a passare per Bosco di Tretto.



AZIONI SUCCESSIVE


Sentito il fatto, don Carlo Barban fu logicamente preso da notevole ansia e convinse don Martini a ritornare al Bosco, in quanto lui sarebbe immediatamente sceso a Schio ad avvisare mons. Girolamo Tagliaferro, vicario foràneo. A S. Ulderico esisteva per la verità l’unico posto telefonico pubblico del comune, ma don Carlo non credette opportuno limitarsi a telefonare, perché secondo lui questa era una notizia da dare di persona e in gran segreto.


Scese dunque a piedi fino alla località Màcina, dove prese la bicicletta che lasciava sempre in deposito e raggiunse la canonica di S. Pietro. Saranno state le otto e subito fu ricevuto da mons. arciprete, che, sentiti i fatti ed espresse tristi considerazioni, diede disposizione a don Mario Brun di salire al Tretto, andare a ordinare a don Alessandro Martini di non muoversi da Bosco e passare quindi a S. Rocco per assistere la popolazione. A questo punto è utile cedere la parola a don Mario stesso, oggi rettore della chiesa di S. Antonio, a quei tempi cappellano di S. Pietro.


Egli infatti ci ha gentilmente offerto il testo del discorso commemorativo da lui tenuto a S. Rocco nel 1975.

 

 

« La mattina del 27 giugno, dopo le ore 7, ero nel Duomo di Schio. Sono chiamato in fretta nell’ufficio di Mons. Arciprete, il venerato Mons. Girolamo Tagliaferro. C’è il parroco di S. Ulderico don Carlo Barban, col volto ancora teso e gli occhi sbarrati: ha portato la triste notizia che il parroco di S. Rocco era stato ucciso e che lui era stato consigliato a fuggire per non avere la stessa sorte. Si fa il nome di bande di ribelli. Cosa fare? Un parroco morto e uno fuggito e in pericolo. Mi offro di andare a S. Rocco, per provvedere alla povera salma; Mons. Arciprete accetta e così prendo la bicicletta e parto.

 

Era un mattino caldo, un po’ afoso; non ero mai stato a S. Rocco, giacché solo da cinque mesi ero a Schio. Alle prime salite devo farla a piedi. La strada era deserta e silenziosa. Le case avevano le finestre chiuse, non c’era nessuno, ma ero convinto che attraverso le fessure qualcuno osservava. Il pensiero dei « ribelli », la prospettiva di incontrarli – certamente spiavano dall’alto chi passava per la strada – rendevano più arduo il cammino.

Finalmente arrivo; un uomo con la barba, dell’Azione Cattolica, che avevo già conosciuto a Schio mi indica subito la cappellina senza proferire parola: un nodo gli chiudeva la gola. Dentro, una visione tragica, impressionante: il corpo del sacerdote a terra come rannicchiato su se stesso a proteggersi il petto o a fermare il sangue; una donna inginocchiata con la corona in mano e due operai del caolino imbrattati di bianco protesi su un banco a guardare il loro parroco straziato. Una mano pietosa aveva acceso una candela dell’altare e l’aveva posta accanto alla salma. D’intorno sulle pareti, anche in alto, gocce di sangue.

Dopo alcuni istanti di preghiera ho benedetto la salma. Poi rivolto all’amico: – Dobbiamo sistemarla alla meglio ... – Lui rispose: – Non si può toccare, bisogna attendere le autorità –. – Non verrà nessuno – aggiunsi; e non venne infatti alcuna autorità, né giudiziaria, né militare, né politica: neppure il medico per constatarne la morte. La costernazione e la paura o qualcosa d’altro aveva invaso un po’ tutti.

Ci fermiamo in tre, cerchiamo due panchine e lo strato mortuario e formiamo un piccolo catafalco, sul quale a stento riusciamo a collocare la pesante salma di don Pietro.

Era logico e giusto, non per curiosità, ma per amore della verità, anche da trasmettere agli altri, constatare come era stato colpito. Il sangue aveva inzuppato tutte le vesti ed a fatica riuscimmo a scoprire il petto: dappertutto si vedevano ferite: sette colpi alla spalla sinistra, poi al centro, poi in basso. Sedici ferite abbiamo sempre detto, però è altrettanto vero che la veste sulla schiena era strappata. [ ... ] Non un segno di ribellione, di colluttazione, benché fosse robusto, energico. Così, sistemata alla meglio la cara salma, aprimmo la porta della cappella per invitare i fedeli a visitare e a pregare. Alcune persone stavano già in attesa ».


Lasciamo ora don Mario Brun per ritornare a Schio, in canonica. Mons. Tagliaferro stimava troppo pericoloso che don Carlo Barban ritornasse in paese, perché quella poteva essere la prima di una serie di azioni contro i parroci dei luoghi; gl’ingiunse di scendere piuttosto a Vicenza per portare la notizia direttamente al vescovo. Nemmeno l’arciprete ritenne opportuno usare il telefono.


Don Barban ricorda ancora il timore di quel viaggio e la trepidazione che gli procurò la vista di un camion di tedeschi al ponte di Liviera.


Al vescovo, che non sapeva ancora niente, la notizia della morte di don Franchetti giunse perciò intorno alle undici, portata da don Barban. Nel corso del colloquio il vescovo fu chiamato al telefono e Don Barban comprese subito dalle rispose del vescovo che il suo interlocutore doveva essere o il prefetto o il questore. Mons. Zinato veniva in ogni modo informato che quella mattina il parroco di S. Rocco era stato ucciso in canonica a coltellate nella schiena dai partigiani, i quali avevano lasciato anche una testimonianza scritta. Il vescovo rispose in tono indignato che le cose erano andate diversamente e usò anche questa frase: « Ma se ho qui quello che ha visto tutto! ».


Ritorniamo a don Mario. Finito di sistemare la salma « era ormai passato mezzogiorno; in canonica mi offrirono da mangiare, ma subito dovevo andare a S. Ulderico, dove esisteva l’unico posto telefonico pubblico, per informare Mons. Arciprete di Schio. Lungo la strada fatta un po’ in bicicletta, un po’ a piedi, al termine di una piccola salita faccio un insolito incontro. Sette giovani, alcuni col classico cappello degli alpini, tutti armati, bloccano la strada. Lo dico sinceramente, avrei preferito un’altra via, ma era impossibile. Mi fermano, mi interrogano; sapevano della morte del parroco. – Ed ora daranno la colpa a noi –, disse uno che sembrava il capo, – ma don Pietro era il nostro parroco, come potevamo uccidere il nostro parroco? Ma vedrà che lo vendicheremo –.

Dico loro parole di conforto, sconsiglio a versare altro sangue. Sappiamo bene come sono andate poi le cose. [ ... ] Fatta la telefonata a Schio, seppi che Mons. Zinato, il nostro Vescovo, sarebbe venuto nel pomeriggio e che io potevo scendere: – Così ritornai a S. Rocco, avvisai della venuta del Vescovo, rividi la salma del povero don Pietro e presi la via del ritorno. Incontrai Mons. Vescovo che saliva in auto accompagnato da Mons. Tagliaferro e dal curato delle Piane don Antonio Grandi perché avesse da fermarsi per l’assistenza ai fedeli e per preparare i funerali ».


Il ritorno da Vicenza fu fatto dunque in automobile, sulla quale fu caricata la bicicletta di don Barban. Col vescovo, oltre a lui, quest’ultimo ricorda anche mons. Zilio, lo zio del vivente don Giovanni Battista. A Schio fu fatto salire mons. Tagliaferro e si raggiunse il paese che erano pressappoco le quindici.


Dopo la visita alla salma si passò in canonica, dove c’erano la sorella del parroco e il nipote Vito. Al vescovo fu mostrato un foglio trovato poco dietro la cappella dalla parte opposta alla strada. Era di carta bianca, di circa 20 per 25 cm., con sopra ben disegnata in rosso una stella, mentre sotto di essa era scritto: « i senza Dio ».


Per quel che riguarda don Carlo Barban, basta qui ricordare che fu dal vescovo incaricato di fare con grande discrezione indagini in paese. Esse furono poi trascritte in un questionario ed hanno grande importanza per chiarire un episodio oscuro capitato a don Franchetti qualche giorno prima.


A chiusura della seconda parte, riferirò che il nipote dell’ucciso, Vito Franchetti, ricorda come il vescovo già lo stesso giorno avesse manifestato la convinzione che non fossero stati i partigiani a uccidere il parroco.



ANTEFATTO


Verso le sette di mattino del 24 giugno due sconosciuti che si dissero partigiani si presentarono a don Franchetti, invitandolo ad accompagnarli nel bosco a portare assistenza religiosa a due compagni feriti in un’azione con i fascisti. Il parroco chiese il luogo e li mandò avanti; essi partirono pregandolo però d’esservi entro un’ora, perché dopo avrebbero dovuto spostarsi. Don Pietro chiese subito informazioni al nipote che teneva qualche contatto con i partigiani, ma Vito gli assicurò che uno scontro non c’era stato.


Allora il parroco mandò la nipote Maria, casualmente presente, a S. Ulderico a chiedere consiglio a don Carlo Barban, forse perché lo sapeva più abituato a trattare con i partigiani. Tra andata e ritorno ci volle un’ora e mezza. Don Carlo in un bigliettino consigliava don Pietro di prestare il proprio ministero, in considerazione del fatto che non doveva temere nulla, essendosi sempre tenuto fuori dalle questioni politiche. Don Pietro dunque s’incamminò verso la località, ma al ritorno appariva deluso e dispiaciuto, perché non aveva trovato nessuno. « Per colpa del mio ritardo – diceva – forse i feriti sono morti senza assoluzione».


Alla luce dei fatti seguiti, questo episodio acquistò subito il valore di una spiegazione: don Franchetti doveva essere ucciso nel bosco, con minor pericolo per gli esecutori.



I FUNERALI


I funerali, celebrati il giorno 30, ebbero un alto concorso di persone, cosa questa quanto mai straordinaria, a considerare i mezzi di allora e la paura che regnava. Quello che colpì fu l’assenza di ogni autorità, eccettuato il segretario comunale dei Tretti, poi ucciso nell’eccidio di Schio. Don Barban non ricorda altre persone distintamente. Vito Franchetti, che conferma la presenza del segretario comunale come unico rappresentante delle autorità, ricorda anche due persone di Santorso: il maestro Doppio e il prof. Greselin che era stato suo insegnante.


Il libro cronistorico della parrocchia afferma che « i funerali solennissimi ebbero luogo ... alla presenza di Mons. Vescovo, di 25 Sacerdoti e di una grande folla di fedeli accorsi anche dalle Parrocchie vicine ». Anche il manoscritto di mons. Caliaro sottolinea la solennità e la manifestazione di « stima di cui godeva l’umile e santo prete da parte dei confratelli, che, in numero mai veduto in quei luoghi, parteciparono alla funzione ».


Un’importanza rilevante assunse agli occhi di tutti la presenza ai funerali di un drappello di partigiani, ai quali peraltro il vescovo chiese la massima prudenza e discrezione, affinché non fosse compromesso il paese. Il libro cronistorico della parrocchia ricorda l’episodio. « Al funerale non furono presenti né Autorità, né fascisti, né carabinieri ma solamente un gruppo di 15-20 partigiani armati i quali dopo le esequie al passaggio della salma diretta al Cimitero, innanzi all’Osteria del Circolo si inginocchiarono per terra presentando le armi ».



CHI FU?


Due furono le domande a cui i parrocchiani volevano fosse data risposta: chi e perché.


Per quanto riguarda gli esecutori si può affermare che né da parte ecclesiastica né dei partigiani sorsero mai seri dubbi. Mons. Caliaro, estensore del manoscritto che è la fonte principale per il citato lavoro di don Zilio, parla di un campo « Dux » a Velo d’Astico, in cui s’incitava all’odio contro il prete, e di un battaglione, « M » accampato sul versante nord del Summano, battaglione che era famoso per le violenze compiute altrove. Vito Franchetti dice di ricordare che militi della X Mas di stanza a Velo si vedevano molto spesso al Passo del Colletto Grande, che separa Velo da S. Rocco.


Elenchiamo le testimonianze precise: due giovani forestieri furono visti parlare col parroco; un ragazzo, guardiano di bestie al pascolo, vide due giovani che senza darsi fretta, ma con circospezione, si dirigevano alla località Coste, uno con in mano una pistola, l’altro con un pugnale insanguinato; il foglio con la scritta « i senza Dio ».


Indizi di un certo peso sono da considerare: il fatto che nessun rappresentante dell’autorità civile o militare si fece mai vedere, non solo ai funerali, ma nemmeno per indagini; che la GNR e la questura di Vicenza si guardarono bene dal far qualcosa per ricercare i colpevoli, anche se il vescovo segnalò (ce lo conferma una minuta) « la convinzione comune diffusa a Velo d’Astico e paesi vicini che le indagini [si dovessero] in modo particolare svolgere fra i militi della IV compagnia d’assalto battaglione (ciclisti?) “M”, di sede a Velo d’Astico e proveniente da Ospedaletto (Brescia) ».


Altro indizio si può ragionevolmente ritenere la tiepidezza estrema con cui la stampa parlò dell’episodio: il « Gazzettino» se la cavò con un trafiletto il 30 giugno, il quotidiano cattolico « Avvenire d’Italia» pubblicò una colonna di resoconto meno generico in data 8 luglio, senza però impegnarsi in alcuna interpretazione. Soltanto il « Popolo Vicentino », quotidiano fascista, pubblicò il 30 giugno la notizia con qualche evidenza (due colonne in cronaca di Vicenza).


Quello che appare di estremo interesse è il corsivo redazionale, in cui si parla subito di assassinio politico, portando a prova – certo con lo scopo d’insinuare un parallelo – la clamorosa esecuzione partigiana di due fascisti, trucidati all’ospedale di Schio qualche settimana prima. A conclusione vi è poi un generico richiamo alla « reazione di tutti gli onesti ». A lettura finita si può sottolineare: 1) il falso dell’arrivo delle autorità; 2) che non c’è – come afferma la tradizione – una dichiarata accusa ai partigiani, la quale avrebbe obbligato a ben altra evidenza tipografica; 3) che si cerca, per quanto è possibile, di strumentalizzare l’episodio a fini di parte, ma soltanto per via di allusioni, usando a proprio favore di termini e di notizie ambivalenti e generiche.


A non contare la convinzione del vescovo, e l’uso di un’arma – pugnale o baionetta che fosse – tradizionalmente impropria per i partigiani, riteniamo indizio di un certo peso che il settimanale diocesano « La Verità » (l’odierna « Voce dei Berici ») pubblicasse in data 16 settembre 1945 un articolo dal titolo « I preti per la libertà », nel quale si ricordano don Bevilacqua ucciso dai Tedeschi e appunto don Franchetti « pugnalato da sicari fascisti ». Non è pensabile che si sarebbe arrivati a tale schiettezza, nemmeno in un clima di accensione e di euforia, se non ci fosse stata l’assoluta certezza di possedere la verità.


Da parte partigiana possiamo addurre come indizio quanto mai probatorio una testimonianza stesa apposta per noi dall’avv. Valerio Caroti, comandante della divisione Val Leogra, in cui si sottolinea la stretta amicizia con Vito Franchetti.


« Il dott. Vito Franchetti, nipote del defunto don Pietro Franchetti, aveva vissuto fin da bambino con lo zio prete e con la zia che faceva da perpetua. Essi erano originari di Durlo, nell’alta valle del Chiampo. Io e Vito, che ricordo ragazzo di viva intelligenza, eravamo assai amici e ci ritrovammo a frequentare assieme il liceo classico di Schio. I miei genitori furono ben lieti di tenere a pensione, per un importo molto modesto, il mio amico durante la settimana, per evitargli la discesa e la salita giornaliera da e per S. Rocco a piedi o in bicicletta, perché a quei tempi, anni scolastici 37-38, 38-39, 39-40 non c’erano mezzi di trasporto. Si studiava e si mangiava a casa mia e si andava a scuola.

Ricordo che in seconda liceo avemmo come insegnante di lettere il dott. Giovanni Bertollo, allora laureando, ed entrambi eravamo molto legati a lui. Anche don Piero, quando scendeva a Schio, era  sempre ospite a casa mia e io, a mia volta, ero spesso ospite a S. Rocco. Tra le due famiglie c’erano rapporti di autentica amicizia e di reciproca stima. Don Piero era un appassionato cacciatore a capanno e un buon fumatore di pipa che riempiva con del gagliardo tabacco di contrabbando. Anche i primi mesi di università io e Vitoli facemmo insieme [alla “Cattolica” di Milano e in filosofia, ndr], poi la mia chiamata alle armi ci divise.

Ci ritrovammo dopo il 20 settembre del 1943: con altri tre renitenti di Schio, tra i quali un certo Gino Berlato, ero salito in una baita dietro il Colletto di Velo con un armamento da ridere. Per il breve tempo che rimasi lassù, scendevo spesso in canonica a S. Rocco a trovare don Piero e Vito Franchetti e per incontrarvi i miei familiari.

Successivamente tornai in città entrando nel movimento clandestino. Seppi dell’uccisione di don Pietro il giorno stesso, mentre mi trovavo nella sede del Comando Partigiano in cima al Novegno: rimasi dapprima incredulo e poi sbigottito. In serata, con un gruppo di partigiani del paese e con altri, scesi a S. Rocco e incontrai in canonica Vito e sua zia. Vito era chiuso in un dignitoso dolore, ma sia lui che la zia erano terribilmente sgomenti e quasi trasognati, e così era tutta la gente che trovai dentro e fuori della canonica.

Mi fermai per qualche tempo a rendere omaggio alla salma del povero don Piero e a cercare di dire delle parole di conforto. Ma rimasi colpito da un fatto disarmante il cui ricordo è vivo: al di là del dolore e dello sgomento, sia Vito che sua zia dimostravano una “rassegnazione cristiana” al limite del fatalismo e non ebbero nessuna parola, non dico di odio, ma nemmeno forte, contro gli assassini.

Mi richiamarono alla realtà i miei partigiani, alcuni dei quali piangevano giurando che avrebbero fatto giustizia. Andandomene via, su richiesta degli stessi partigiani, detti disposizione che il distaccamento della zona S. Rocco-S. Ulderico presenziasse ai funerali per rendere gli onori a don Piero. E ciò fu fatto. Schio, 15 novembre 1977».



PERCHÉ UN PRETE?


Per documentare lo spirito decisamente anticlericale che si era diffuso in quel tempo tra i fascisti più convinti e le truppe della Milizia, trascriviamo in nota i titoli di alcune polemiche giornalistiche apparse in quel torno di tempo sulla stampa di regime circolante in provincia. È bene in ogni caso chiarire che i fascisti della RS si sentivano fortemente traditi dalla Chiesa, la quale infatti non li riconobbe mai ufficialmente quale autorità legittima e se ne tenne giudiziosamente ben distante. Comprensibile è perciò come essi dessero grande evidenza a qualunque gesto di stima da parte di sacerdoti isolati, specialmente cappellani militari, testimoni dello sfasciarsi dei reggimenti, come un certo padre Eusebio che fu ad arringare le folle anche a Valdagno e a Schio.


Di maggiore peso si deve considerare l’azione del periodico « Crociata italica » di Tullio Calcagno, prete sospeso a divinis, subito disapprovata dalla gerarchia e dalla stragrande maggioranza del clero. Il che suscitò anche nel Vicentino le più risentite proteste dei fascisti, necessitati a vincere l’isolamento morale prima che  politico in cui li tenevano le popolazioni. Si veda, al proposito, nel « Popolo Vicentino » l’articolo del 9 gennaio 1944 dal titolo « Cattivi pastori a Bassano come a Schio».


Anche a Velo d’Astico – ce lo ha confermato la sig.na Isetta Dal Bianco, che gestiva in quel tempo una bottega di frutta e verdura nella sua casa davanti alla chiesa – regnava tra i fascisti men che ventenni di stanza a villa Velo un acceso anticlericalismo, che si manifestava in frasacce anche all’indirizzo del papa.


Quale sfondo all’azione omicida dobbiamo perciò considerare l’anticlericalismo perfino esasperato; ma dobbiamo tener conto altresì dell’età e della povertà morale in cui erano tenuti questi giovani, sbandati se non proprio delinquenti liberati dalle patrie galere per necessità di manovalanza: bisogna immaginare come fossero vitalizzati a slogan carichi di fanatismo, come vivessero alla giornata, come le loro azioni di guerra si risolvessero spesso in braverie e saccheggi.


Ma questo teniamolo tutto sullo sfondo: l’ipotesi più consistente appare infatti quella di una finalità politica. Uccidere un prete, spargendo nel contempo prove a carico di rivoltosi « senza Dio », che si diceva avessero abbracciato il comunismo più feroce, poteva sembrare un’operazione quanto mai redditizia onde screditare una volta per tutte le bande presso la gente dei luoghi. Si sapeva infatti quanto essa fosse legata alle proprie tradizioni religiose, alla propria chiesa.


E si sapeva anche che le bande partigiane potevano vivere in montagna solo grazie all’appoggio e ai rifornimenti che i paesi sottostanti offrivano.


Don Antonio Morandi, parroco di S. Caterina di Tretto, nel libro cronistorico scrive: « I fascisti lo assassinarono per far apparire che il misfatto era stato perpetrato dai partigiani e per mettere in cattiva luce i partigiani presso le popolazioni dei vari paesi circostanti ».


PERCHÉ PROPRIO DON FRANCHETTI?


Certo è che, tra tutti i parroci delle montagne intorno, don Pietro Franchetti appare il meno esposto politicamente. Nel breve ritratto steso dal nipote per la pubblicazione del 1965 c’è una pagina che illustra chiaramente la sua personalità, il credo e la visione profondamente religiosa alla cui luce egli leggeva tutti i fatti della vita. Egli insomma visse la guerra e i giorni dopo l’8 settembre da prete, cioè vedendovi il male, il dolore inutile, regole di violenza che non sapeva comprendere, che si rifiutava di accettare. Anche don Carlo Barban. sottolinea il suo carattere mite, riservato, perfino la sua assenza, quando lui, più giovane e più acceso, gli parlava della situazione politica. Non è che non avesse alcun contatto coi partigiani, ma erano contatti esclusivamente di carattere pastorale.


Proprio questa sua distanza dal movimento partigiano fu secondo noi la motivazione che spinse i fascisti ad ucciderlo. Quale possibilità di credito avrebbe infatti avuto l’attribuire ai partigiani l’uccisione di altri sacerdoti conosciuti per meno tiepidi verso i « banditi »?


Come motivazione aggiuntiva possiamo considerare anche la facilità dell’impresa, nel senso che tra S. Rocco e il Passo Colletto Grande vi è un tragitto molto breve, per fare il quale non s’impiega più di una ventina di minuti: e dal Colletto fino a Velo il percorso era facile e sicuro, in quanto tali luoghi venivano considerati zona di transito e non vi giravano pattuglie partigiane.


Ci furono, immediatamente dopo il fatto, voci che parlavano di un errore. Si disse che avrebbe dovuto essere ucciso don Carlo Barban, oppure che avessero ucciso don Franchetti invece del parroco di’ S. Caterina, in quanto, dopo il rastrellamento del 17 giugno, erano stati provvisoriamente sistemati in un locale adiacente alla canonica due partigiani feriti, che vennero poi trasferiti a Poleo e a Schio. Per quanto infondata, la seconda ipotesi fu tenuta per verosimile dall’interessato, che scese infatti a Schio e il 30 giugno fu dal vescovo invitato a restar lontano per qualche mese dalla parrocchia.


È legittimo pensare piuttosto – anche per la superficialità e grossolanità dell’esecuzione: i partigiani si sarebbero mai sottoscritti « i senza Dio »? – che tale operazione potesse essere stata ideata autonomamente, in loco, senza l’avallo del potere centrale. Vicenza infatti mostrò di muoversi con grande difficoltà, sia nei confronti del vescovo, sia, come abbiamo visto, nei confronti dell’opinione pubblica.


È sicuro comunque che l’omicidio sacrilego non servì a rendere invisi i partigiani alla popolazione dei Tretti; si tramutò anzi in una sconfitta politica del fascismo locale, da cui la gente si ritrasse ancor più, colpita nelle proprie tradizioni più care, inorridita per la barbarie e il cinismo che non parvero spiegabili nemmeno dalla eccezionalità dell’ora.