QUADERNI DELLA RESISTENZA
Edizioni "GRUPPO CINQUE" Schio - Luglio 1980 - Grafiche BM di Bruno Marcolin - S.Vito Leg.
 
 
Volume XI
[da pag. 590 a pag. 599]


SETTIMA BRIGATA MACEDONE


di E.TRIVELLATO

 

 

 

APPUNTI INTRODUTTIVI SULLA STORIA DELLA RESISTENZA JUGOSLAVA


(Stralci da R. Colakovic, D. Janjovic, P. Moraca – Storia della Lega dei Comunisti della Jugoslavia, Beograd 1963, Ediz. Del Gallo, Milano, 1965)

 

1941 – “Il 1° marzo 1941 il governo bulgaro firmò il protocollo di adesione al Patto tripartito e lo stesso giorno le truppe tedesche entrarono in Bulgaria. Nello stesso momento Hitler decise di costringere la Jugoslavia ad aderire al Patto tripartito. La sera del 24 marzo Cvetkcovic e Cincar Markovic (ministro degli esteri), previo consenso del principe Pvale, partirono alla volta di Vienna dopo aver ordinato il più severo stato d’allarme alla polizia e alla gendarmeria.

 

 

Il 25 marzo 1941 essi firmarono a Vienna l’adesione della Jugoslavia al Patto tripartito. Il Partito Comunista Jugoslavo denunciò il tradimento con un proclama diffuso a migliaia di volantini ed in tutti i paesi si ebbero dimostrazioni e proteste di proporzioni imponenti.

 

 

Il mattino del 27 marzo con un colpo di stato venne defenestrato il governo Cvetkcovic-Macek ed assunse i poteri il generale Simovic. Alla notizia dei fatti jugoslavi Hitler deliberò che si intraprendessero tutti i preparativi per sbaragliare la Jugoslavia e militarmente e statalmente, senza attendere la eventuale dichiarazione di lealtà del nuovo governo.

 

 

Ciò lo costrinse a differire l’aggressione all’Unione Sovietica, prevista per il 15 maggio 1941. L’aggressione alla Jugoslavia cominciò il 6 aprile con circa 50 divisioni tedesche, italiane e ungheresi. La mattina di quel giorno, senza dichiarazione di guerra, gli aerei tedeschi cominciarono il bombardamento terroristico di Belgrado indifesa, mentre le divisioni fasciste davano inizio ad un attacco concentrico su quasi tutte le frontiere jugoslave.

 

 

Mentre l’esercito si ritirava sfasciandosi e la maggioranza dei generali e degli ufficiali superiori trovavano unico scampo nella resa al nemico, i numerosi elementi della quinta colonna svolsero la loro azione distruttiva.

 

 

Lo stesso giorno in cui le forze germaniche entrarono a Zagabria, il 10 aprile 1941, e in cui proclamarono la creazione dello “Stato indipendente di Croazia” ustascia, Macek invitò il popolo croato ad essere leale e “a collaborare sinceramente con il nuovo governo”.

 

 

I separatisti montenegrini e gli elementi filobulgari della Macedonia si preparavano ad accogliere come liberatrici le truppe degli aggressori. Il governo del generale Simovic perse ogni potere reale, il 15 aprile deliberò di chiedere l’armistizio e lo stesso giorno abbandonò il Paese insieme con il re, portando seco l’oro dello stato”.

 

(NOTA d.A. - Questi stralci sono stati qui riportati per considerazioni parallele con l’8 settembre 1943 in Italia).

 


“La situazione dei popoli jugoslavi durante l’occupazione divenne eccezionalmente difficile: le misure di terrore e di oppressione impiegate fin dall’inizio in Jugoslavia dai fascisti superarono per proporzioni e brutalità tutto quanto essi avevano fino allora commesso nei paesi soggiogati d’Europa.

Oltre 300.000 dell’esercito jugoslavo vennero condotti in prigionia. L’economia del paese fu messa al servizio del potenziale bellico delle potenze fasciste. L’occupatore pose sotto il suo diretto controllo tutte le fabbriche e le miniere di una certa importanza. I Tedeschi cominciarono subito a mobilitare manodopera per la loro economia. Il governo di occupazione introdusse la requisizione sistematica dei prodotti agricoli. In Croazia si crearono squadre armate “ustascia” di tipo fascista ed un esercito regolare chiamato “dromobranstvo”; in Montenegro si cercò di sfruttare i separatisti montenegrini ed in Macedonia i filobulgari appoggiarono le orgnizzazioni fasciste dell’ORIM e gli “Ilindenci” (nazionalisti macedoni).

La maggior parte della borghesia jugoslava, fondamentalmente filo-occidentale, rimase confusa, indecisa e priva di qualsiasi unità d’azione; tentarono di conservare la pace interna, asserendo che la lotta armata contro gli occupatori sarebbe stata solamente un’avventura, origine di nuove distruzioni e nuove vittime; e che sarebbe stato possibile dare inizio alla lotta soltanto quando il grosso delle forze dell’Asse sarebbe stato decisamente sconfitto dagli Alleati.

Nella sessione tenuta a Zagabria il 10 aprile 1941 l’Ufficio politico del CC del PCJ (Partito Comunista Jugoslavo), analizzando la dissoluzione dell’esercito, invitava i comunisti a non lasciarsi prendere prigionieri, a mettere in salvo le armi, ad essere in prima linea nella lotta popolare contro i conquistatori.

Stabiliti dei contatti con diversi gruppi e leaders dei partiti borghesi, si costituì il 27 aprile 1941 un Fronte di Liberazione, nel quale entrarono, oltre al PC sloveno, i socialisti cristiani, la frazione democratica del “Sokol” ed altri gruppi politici minori.

Nei mesi di maggio e di giugno venne organizzata la rete dei Comitati militari presso le direzioni di Partito: raccoglievano armi, munizioni, materiale sanitario, creavano centri di resistenza tra gli ufficiali ed i soldati mobilitati nelle formazioni collaborazioniste, organizzavano corsi di addestramento militare, formarono gruppi di assalto nelle città e nei centri industriali per sabotaggi e colpi di mano, organizzarono servizi d’informazione.

Il Partito richiamò in patria degli Jugoslavi che, volontari nell’esercito repubblicano spagnolo, si trovavano allora nei campi di concentramento francesi; essi tornarono in patria superando difficoltà eccezionali e la loro esperienza bellica e rivoluzionaria fu un grande apporto alla vigilia dell’insurrezione armata.

Purtroppo i gruppi borghesi ribadivano che una lotta era impossibile e che il destino della Jugoslavia sarebbe stato risolto dall’esito della guerra tra le grandi potenze”


(NOTA d.A. - Pur mancando gli elementi per una vera e propria “Resistenza comparata”, questi stralci sulla genesi della Resistenza jugoslava permettono alcune considerazioni parallele con la genesi della Resistenza gaibaldina a Schio ed in Val Leogra).

 

 

Insurrezione armata“All’alba del 22 giugno 1941, senza alcuna dichiarazione di guerra, la Germania aggredì l’Unione Sovietica. Lo stesso giorno il PCJ indirizzò un proclama alla classe operaia. 

Il 27 giugno si costituì il Comando supremo dei distaccamenti partigiani di liberazione popolare della Jugoslavia e venne nominato comandante il segretario generale del Partito, Tito, che aveva già fino allora ricoperto l’incarico di presidente del Comitato militare.

Il proclama del CC del PCJ che invitava i popoli jugoslavi all’insurrezione armata fu pubblicato il 12 luglio 1941. Nello stesso mese cominciarono gli scontri armati in Serbia, Montenegro, Bosnia ed Erzegovina, Croazia e Slovenia. L’intero territorio del Montenegro, ad eccezione di Cetinje, Podgorica, Niksic e di alcune località sul mare, venne liberato.

Durante questi combattimenti, in tutta la Jugoslavia, si fece bottino di notevoli quantitativi di armi e materiale bellico, ciò che permise il potenziamento dei distaccamenti partigiani e la creazione di formazioni più consistenti. Via via che l’insurrezione andava diffondendosi, i distaccamenti, inzialmente composti di alcune decine di combattenti armati, divennero formazioni che contavano alcune centinaia e, in parecchi casi, anche alcune migliaia di combattenti, armati tutti con materiale tolto al nemico. Era la prima insurrezione nell’Europa occupata.

La Jugoslavia, anziché essere una base di cui servirsi per la guerra di conquista, si era trasformata in un nuovo, inatteso fonte per le potenze dell’Asse, proprio quando la Germania era all’apogeo della sua potenza militare”.

 

 

La reazione tedesca . “Numericamente e tecnicamente molto preponderanti, le forze occupatrici e collaborazioniste riuscirono di solito a ricacciare del tutto o in parte i distaccamenti partigiani ed a rioccupare numerosi centri già liberati, attuando le più feroci rappresaglie contro la popolazione inerme, incendiando interi villaggi, massacrando la popolazione senza curarsi di risparmiare bambini, donne e vecchi. Decine di migliaia di persone vennero deportate nei campi di concentramento che cominciarono a sorgere in tutto il paese o nei tristemente noti campi della morte creati in altri stati europei; i Tedeschi deportarono migliaia di donne e di uomini ai lavori forzati in Germania. I crimini più impressionanti furono compiuti dalle truppe tedesche durante l’offensiva in Serbia, dove nella sola Macva uccisero 6.000 persone, a Kraljevo 2.000 e a Kragujevac 7.000 tra uomini, donne e bambini".

 


1942 – Lotta per il consolidamento e l’allargamento dei successi del movimento di liberazione popolare.

 


1943 – La fase delle decisive vittorie politiche e militari del movimento di liberazione.
“Nel mese di Luglio cominciò l’invasione anglo-americana della Sicilia. Si arrivò ben presto alla caduta di Mussolini e a trattative per la conclusione dell’armistizio tra gli Alleati e l’Italia.

La Germania però riuscì ad anticipare questa azione, a disarmare l’esercito italiano, ad occupare il territorio italiano e ad arrestare l’avanzata alleata. In questo modo la capitolazione dell’Italia, avvenuta l’8 settembre, non portò i risultati che gli Alleati speravano. Nell’autunno 1943 continuò la lotta sul fronte italiano. Nel 1943 divennero più forti anche i movimenti di resistenza in tutti i paesi dell’Europa soggiogata, soprattutto in Polonia ed in Francia e, nell’autunno anche in Italia.

Alla capitolazione dell’Italia fascista scoppiò l’insurrezione popolare nel litorale sloveno, in Istria, nel Litorale croato ed in Dalmazia.

 

Una imponente ondata insurrezionale si ebbe in tutti i territori jugoslavi dove si trovavano le forze di occupazione italiane: in Erzegovina, Montenegro, Sangiaccato, Cossovo e Metochia e nella Macedonia occidentale. L’esercito di occupazione italiano venne disfatto e in gran parte disarmato. L’Esercito popolare di liberazione ed il popolo si impadronirono di armamenti per circa 80.000 nuovi combattenti.

 

Quasi tutti i territori nominati vennero liberati assieme alla costa ed alle isole adriatiche e a numerose città. Verso la fine dell’anno, dopo aver inviato in Jugoslavia nuovi rincalzi, i Tedeschi riorganizzazono il proprio esercito di occupazione. 

 

Nel 1943 si giunse ad una svolta anche nel consolidamento del Partito in Macedonia. Questa evoluzione permise al CC del PC macedone di formare le prime brigate. Nel 1943 vennero formate anche unità dei gruppi etnici di minoranza: cecoslovacco, ungherese, italiano e tedesco. Si formarono anche alcune unità partigiane bulgare.

 

Il PCJ continuò ad essere l’iniziatore di forme di collaborazione con tutti i movimenti di liberazione dei paesi vicini. Nel 1943 si svolse unafertile ed utile collaborazione nella lotta contro l’occupatore con i movimenti di liberazione albanese, greco ed italiano.

 

In Jugoslavia i nostri organi territoriali dell’amministrazione militare svilupparono la loro rete specie nel 1943. infatti, oltre ai comandi di piazza e di zona, erao state formate regioni militari, col compito di organizzare i trasporti militari, gli ospedali, la produzione bellica, i centri di reclutamento, i magazzini, ecc.

 

Con i suoi 300.000 combattenti armati, incorporati in 8 corpi d’armata e 26 divisioni, in moltissimi distaccamenti, brigate e battaglioni, l’Esercito popolare di liberazione era divenuto, alla fine del 1943, una forza notevole contro gli occupanti ed i collaborazionisti.

 

I Tedeschi, dopo la capitolazione italiana, furono costretti a portare i propri contingenti in Jugoslavia a 19 divisioni, cui andavano aggiunte 8 divisioni bulgare e 3 ungheresi”.

 

 

Nella guerra partigiana jugoslava morirono 305.000 combattenti e vi furono 425.000 feriti. Unendovi i civili ed i deportati le vittime complessive dei popoli jugoslavi durante l’ultima guerra furono di oltre 1.700.000 morti.

 

 

IL RACCONTO DI GAETANO BETTANIN

 

BETTANIN GAETANO. Fu Carlo (panettiere a Sanvito) e di Calandri Eleonora da Arsiero. La famiglia venne a Schio (Magrè) verso il 1930. Gaetano è nato a Sanvito di Leguzzano il 30.10.1917, panettiere. Di leva nel 1938 tornò in famiglia il 29 maggio 1946.

 

Riconosciuto come partigiano combattente della Resistenza Jugoslava ed insignito di medaglia (lega argentea, nastrino con bandiera jugoslava, recto = JUGOSLAVIA . Uomo e donna – foglie di alloro; verso = 1941-1945 – SLOBODA NARODU – SMRT FASIZMLI), ha ricevuto un Diploma a firma autografa del Maresciallo Tito (Traduzione: “In occasione del ventesimo anniversario della vittoria della coalizione antifascista, il Presidente della Repubblica Socialista Federativa di Jugoslavia Josip Broz Tito, conferisce al compagno di lotta BETTANIN GAETANO la medaglia commemorativa per la sua partecipazione alla guerra di Liberazione dei popoli jugoslavi e per il suo contributo alla comune vittoria sul fascismo e all’amicizia fra i popoli, in segno di riconoscimento e di gratitudine. A Beograd, li 7 febbraio 1969 – Il Presidente della Repubblica – Tito”).

 

 

Nel pomeriggio di sabato 13.7.1975 nella Sala degli stucchi di Palazzo Trissino in Vicenza il Console Marinko Kosor, accompagnato dal console Ivan Renko, consegnò questi riconoscimenti a 9 partigiani vicentini (Gaetano Bettanin di Schio, Gianni Rizzi di Vicenza, Giuseppe Soso di Monticello Co. Otto, Luigi Pietro Fagan di Cassola, Adolfo Moro di Bassano del Grapppa, Antonio Costa di Nove, Giacomo Scaton di S.Nazario, Natalino Bergamini di Caldogno, Angelo Pellizzari di Tezze sul Brenta) ed alle famiglie dei Caduti (Ulderigo Candeolo di Albettone, Venuto Pellizzaro di Vicenza, Gio.Battista Bello di Pove sul Grappa, Giovanni Mattiello di Vicenza, Giulio Crippa di Santorso).

 

“Di leva nel 1938 nel Genio Alpino (aggregato alla Divisione alpina Taurinense), fui inviato nel giugno del 1940 sul fronte occidentale sul Piccolo S.Bernardo e poi sbarcato a Dubrovnik in Albania; dopo la campagna di Grecia mi inviarono in Montenegro, dov’erano scoppiate delle rivolte, ed all’8 settembre 1943 mi trovavo a Niksic un paesetto sul lago di Szernagora.

Il nostro Maggiore, un certo Ravnic, istriano, promise che ci avrebbe portato in Italia anche se il Generale ed il Colonnello del 1° Artiglieria alpina erano per la loro età, poco favorevoli ad un’avventura del genere.

Il piano era di attraversare le montagne, raggiungere la costa dalmata a Cattaro e di lì imbarcarsi per Bari. Purtroppo le guarnigioni costiere italiane si erano già arrese ai Tedeschi e quando arrivammo sulla cresta dei monti sopra la costa, i Tedeschi cominciarono a sparare. Dopo alcuni nostri tentativi di occupare il porto, l’uso di carri armati e degli Stukas ci costrinse a ripiegare sempre più in alto verso i monti e quindi fummo costretti ad abbandonare i pezzi pesanti ed a conservare solo i mortai 81, le Breda ed i moschetti.

Nel ripiegamento fu deciso di portarci verso l’alto in zone prive di strade carrabili, dove appunto i carri armati non potessero arrivare; ma si creò subito il problema del vettovagliamento, dei medicinali e della sussistenza in genere; con una radio azionata pedali (le altre le avevamo distrutte) riuscimmo a metterci in contatto con Bari ma le nostre richieste di viveri e medicinali non ebbero alcun esito.

Cominciò la fame, anche la sete per l’aridità dei luoghi, ma soprattutto vi era il problema dei feriti. Ricordo che un giorno capitai al casolare dove si era allestito un ospedaletto di fortuna ed i medici stavano tagliando e segando gambe e braccia per evitare la cancrena, senza usare gli anestetici: scappai via per non vedere le scene terrificanti e non udire le urla strazianti di giovani amputati. Verso la fine di settembre alcuni aerei tedeschi lanciarono dei manifestini che ci invitavano ad arrenderci e ci promettevano il rientro in Italia; ma dei Tedeschi non avevamo alcuna fiducia.

L’ultimo lancio di manifestini poneva il termine ultimo del 17 ottobre, dopo di che, se catturati, saremmo stati fucilati come banditi. Durante la nostra ritirata, fummo costretti a lasciare gruppi di feriti alle cure di un cappellano militare perché si consegnasse ai Tedeschi ed i feriti potessero venir ricoverati in un ospedale; l’ultimo cappellano, che riuniva gli ultimi feriti, prima della nostra partenza ci diede una benedizione ed un’assoluzione collettiva.

Dei 10.000 uomini della nostra divisione Taurinense (la maggior parte piemontesi) restammo in 4.000 circa. Dovevamo raggiungere la divisione Venezia che non aveva subìto attacchi e disponeva di viveri e di medicinali. Infatti più tardi avvenne la fusione tra la Venezia e la Taurinense e si formò una Brigata partigiana italiana “Garibaldi”.

Oltre alla mancanza di vivieri e di medicinali ed al pericolo dei Tedeschi, esisteva anche il problema della complessa situazione politica jugoslava.

Favorevoli ai tedeschi erano i cetnici di Draza Mihailovic (monarchici) che giravano con i capelli lunghi ed il teschio sul cappello: riferivano i nostri passaggi ai Tedeschi e per questo siamo caduti in un semi-accerchiamento.

Ugualmente favorevoli ai Tedeschi erano gli ustascia di Ante Pavelic, fascisti.

Dall’altra parte agivano i partigiani di Tito, comunisti, ma c’erano anche i nazionalisti autonomi, che volevano una repubblica jugoslava libera e democratica e che spesso avevano dissidi ed anche scontri a fuoco con i titini.

Un giorno, durante il ripiegamento, i Tedeschi ci tesero un’imboscata e ci spararono prima con le artiglierie, poi, siccome eravamo protetti da un costone, cominciarono a sparare a shrapnel che fecero un gran numero di morti; un tenente ci fermò in una ventina per seppellire i morti e per fare da retroguardia mentre il grosso proseguì la marcia.

Aspettammo la notte per poter passare una zona a prato scoperta sulla quale i Tedeschi avevano puntato una mitragliatrice ed a piccoli gruppi si tentò la sorte nell’intervallo fra un razzo illuminante e l’altro. Io mi trovai con l’ultimo gruppo di dieci uomini, ma al di là del prato siamo arrivati in 6. Prima di iniziare la marcia di ricollegamento al grosso dei superstiti il tenente ci fece buttare le cassette e riempire gli zaini di bombe e di munizioni, ci raccomandò di non parlare e di non fare alcun rumore; eravamo stanchi morti e affamati (tutti i muli ormai erano già stati mangiati).

Ero penultimo della fila e l’ultimo, un lombardo con un mitragliatore in spalla, ad un certo punto mi chiamò perché era caduto in una buca e non riuisciva a rialzarsi per la stanchezza; lo aiutai ma nel frattempo gli altri 4 erano già spariti nel nulla. Così, almeno dal mio punto di vista, da una divisione mi ritrovavo con un solo commilitone nel bel mezzo del Montenegro con i tedeschi in caccia e con una popolazione che non sapevo se era titina, nazionalista, cetnica o ustascia.

Le grane infatti cominciarono già al mattino successivo quando siamo scesi a valle ed abbiamo chiesto ad un vecchio se ci indicava un Comando partigiano; questi ci indirizzò ad un gruppo di case, dove fummo subito presi a fuciloate e quando da sotto un muretto alzai il cappello d’alpino gridando: “Alpini! Italiani! Noi partigiani!” Il cappello mi fu sforacchiato da una raffica.

Era successo che i Tedeschi avevano fatto sloggiare i partigiani ed occupato quel gruppo di case, senza che il vecchio ne fose al corrente, perché si sparava un po’ dappertutto.

Mani in alto, interrogatorio per sapere dove fossero gli altri italiani (magari lo avessimo saputo), trasferimento proprio a Niksic donde ero partito all’8 settembre. Poi ci spostarono in Albania, in Jugoslavia, di nuovo in Albania e infine in Macedonia a scavare trincee anticarro.

Da Bitola riuscii a scappare dal campo e mi nascosi ad una decina di Km. Dal confine greco nascosto presso una famiglia contadina macedone. Ma un giorno il capofamiglia mi fece capire che non si fidava più a tenermi ed il figlio, sentito che io volevo aggregarmi alla brigata partigiana macedone, mi accompagnò in un luogo dove un gruppo dicivili, guidati da uno studente, anadavano a raggiungere la brigata per arruolarsi. Prima ci siamo fermati presso un prete ortodosso, poi suo figlio ci portò al Comando di Brigata.

 

SETTIMA BRIGATA MACEDONE – Al Comando venni aggregato al Battaglione pesante (2 mortai 81, 4-5 mortai da 48, 5-6 mitragliatrici Breda e Fiat, mitragliatori del disciolto esercito jugoslavo detti i 15 mm, dei Bren inglesi avuti con i lanci).

 

La Brigata Macedone riuniva 700-800 uomini divisi in 4 Battaglioni e vi era la presenza di una quindicina di Italiani. Tra le armi leggere ne avevamo di tutte le nazionalità e di tutti i tipi; provenivano dai nostri attacchi alle caserme ed alle colonne tedesche, dai disciolti eserciti italiani ed jugoslavo e bulgaro, dopo la capitolazione della Bulgaria.

 

 


AVIOLANCI – Ne abbiamo avuti dagli Inglesi con il sistema dei campi di lancio, i fuochi, i messaggi mediante collegamenti del nostro Comando con la Serbia dove esisteva una Missione inglese. Arrivavano medicinali, armi e munizioni, qualche vestito e scarpe; anche soldi che però ci servivano ben poco. Non si aveva molta stima degli Sten che ci mandavano perché pericolosi (“trappolette”). Ad un certo punto i lanci cessarono, mi sembra verso l’autunno del 1944.

 


VETTOVAGLIAMENTO – Era sempre un grave problema dare il vitto giornaliero a 700-800 uomini; di solito ci si sparpagliava a gruppi nelle famiglie contadine dei villaggi di montagna: pane di granoturco cotto in casa e pesante, patate, tanti fagioli, peperoni, carne di pecora o di capra solo quando capitava, niente vino né birra; a volte arrivavano pagnotte di frumento nascoste sul fondo di carri agricoli. Nel complesso una gran fame per tutti.

 


RICOVERI – Durante l’inverno si dormiva nelle case dei montanari per terra (i letti solo per gli anziani ed i malati), infestati da pidocchi e cimici. Gran filò accanto al fuoco. Erano sempre curiosi di sentire notizie sull’Italia: città, nostro lavoro, storie e racconti, specie i bambini, ed avevamo imparato abbastanza la loro lingua per farci capire. Non esisteva il sistema dei bunkers sotterranei per nasconderci, tuttalpiù usavamo le caverne naturali.

 


VESTIARIO- Abbiamo usato quello che si aveva, ad eccezione del berretto in dotazione a tutti: un chepì detto “titoskacapa” (berretto alla Tito) con la stella rossa detta “petocraka”. Il maggior problema erano le scarpe, perché molti non si adattavano a portare le “opanka” fatte di pelle con legacci; alcuni legavano quelle che avevano con fili di ferro; ricordo che alcuni studenti di città vennero su scalzi con i piedi sanguinanti.

 


SANITA’ – Malgrado i lavaggi e le disinfezioni non siamo mai riusciti a liberarci di cimici e pidocchi. Tagliavo la barba con una forbice. Fui colpito da un attacco di malaria che passò senza chinino, perché scarseggiava. Gran raffreddori e bronchiti per i guadi nei fiumi. I feriti venivano portati negli ospedaletti da campo in alta montagna. Dopo uno scontro vi era l’obbligo di recuperare non solo tuttii feriti ma anche i caduti per non far capire ai Tedeschi che avevamo avuto perdite; si seppellivano dove capitava.

 


DONNE – In Brigata ce n’erano e svolgevano mansioni di sussistenza, però alcune partecipavano agli attacchi armati, anzi ricordo una ragazza di 16 anni che insistè per venire con noi e restò uccisa da una pallottola in fornte in un attacco ad un treno: si chiamava Zonka. Il Comando aveva disposto, nei rapporti con le ragazze, che non ci dovevano essere problemi sentimentali e tantomeno manifestazioni affettuose o amorose pubbliche: un Comandante di Battaglione, colto con una ragazza, fu sibito spostato, almeno credo, perché tutti e due sparirono. D’aaltra parte il problema di salvare lapelle e la stanchezza per i continui spostamenti non erano favorevoli a situazioni sentimentali.

 


SPOSTAMENTI – La geografia del Montenegro è tale che i monti e le colline sembrano tutti uguali, per cui uno doveva sempre restare in gruppo per non perdersi. Restavamo fermi due o tre giorni in un posto per cause climatiche, per stanchezza o per curare i feriti dopo un attacco, ma di solito si era sempre in movimento (di notte).

 


NOMI DI BATTAGLIA – Non eranoin uso, ma ognuno aveva un nome o sprannome: il mio era “Gaetance”. Avevo stracciato i documenti italiani e circolavo senza alcun documento.

 


STRANIERI – In Brigata c’era qualche ebreo, un russo bianco (Gregori) che faceva da portabandiera, nessun polacco, una compagnia di mussulmani che si faceva da mangiare a parte per paura della carne di maiale ed in fine noialtri Italiani. I Comandi di Brigata ci stimavano, la popolazione manifestava molta simpatia e ci davano tutto quello che potevano.

 


COMITATI DI PAESE – O gni paese o città aveva un Comitato ed un responsabile, al quale ci si rivolgeva per sapere la situazione locale: era tenuto a conoscere qualsiasi spostamento di truppe tedesche. Nella nostra zona non c’erano cetnici o ustascia, né si è mai posto il problema dei delatori.

 

RASTRELLAMENTI – I Tedeschi tenevano le città più importanti e le grosse vie dicomunicazione, mentre all’interno o sui monti no si fidavano ad avventurarsi; quindi i rastrellamenti avvenivano attorno ai posti tenuti sotto controllo. Un elemento di disturbo erano invece i ricognitori (le cicogne) ai quali seguivano gli Stukas con mitragliere e spezzoni incendiari. Dobbiamo poi tener presente che la zona era senza strade, a boschi, dirupi, gole, burroni, torrenti incassati, ponti sospesi e che quindi un solo uomo piazzato nel punto giusto poteva fermare un’intera compagnia di Tedeschi.

 


FURTI – I Tedeschi razziavano dalle case qualsiasi cosa ed alla minima opposizione uccidevano gli abitanti. Noialtri avevamo la proibizione assoluta di toccare o asportare qualcosa anche quando si faceva incursioni in villaggi albanesi: saremmo stati fucilati dai Comandi partigiani.

 


CLERO – Nei Comitati di paese i sacerdoti facevano parte, assieme agli studenti, dei “patrioti” per mantenere i rapporti con la formazione di montagna.

 

 


CAPITOLAZIONE DELLA BULGARIA – Fu per noi una fortuna perché le guarnigioni bulgare si ritirarono e noialtri li abbiamo assaltati nelle gole e nei passi obbligati, portando via armi i materiali e poi lasciandoli liberi. Ormai l’esito della guerra era a favore degli Alleati ed anche lasituazione si capovolse a nostro favore.

 

 


AZIONI PARTIGIANE – La nostra attività bellica era concentrata su tre tipi di azioni principali:

a) attacco a colonne tedesche – tramite dei “corrieri” sapevamo ogni mossa dei tedeschi, lepartenze, il percorso, il tipo di materiali trasportati, la consistenza della scorta. Ogni volta si sceglieva un punto diverso per attenderli, comunque lontano dai paesi; venivano preparate le mine per far saltare la strada subito dopo una curva con precipizio a valle e roccia a monte, con uso anche di mine a pressione. Appena bloccati incominciava una sparatoria di mezz’ora, tre quarti d’ora cercando di fare parecchi morti, finché loro con la radio chiamavano rinforzi. Allora si ripiegava subito in alta montagna. Quando si riusciva a staccare la retroguardia potevamo entrare in possesso di armi e materiali.

 

b) attacco ai treni – con mine a scoppio ritardato passavala locomotiva ma saltavano per aria i vagoni e, sfruttando la sorpresa, si sparava a più non posso con i mortai, mitragliatori, raffiche, fucileria cercando sempre di fare molti danni e morti. Erano treni che provenivano dalla Grecia.

 

c) attacco a caserme – servivano ad eliminare posti avanzati ed a recuperare armi e materiali. In particolare ricordo l’assalto alla caserma dei Bulgari. Per raggiungerla abbiamo attraversato di notte un paese, disposto in lungo come S.Orso, passando fra i due posti di blocco tedeschi che erano alle estremità: abbiamo coperto di stracci gli zoccoli ai cavalli e noi calzavamo le “opanke”. Il mattino dopo ci siamo nascosti nella boscaglia ad aspettare la seconda notte (senza luna); da quella parte i Bulgari non ci aspettavano ed i primi colpi di mortaio furono una sorpresa. Prima erano stati tagliati i fili telefonici e rotto le strade per i paesi vicini, tuttavia i Tedeschi avrebbero impiegato 7-8 ore per giungere sul posto.
Ci fu una sparatoria infernale perché i 70-80 Bulgari opposero un’accanita resistenza; quando la caserma fu un ammasso di macerie si andò all’assalto con bombe a mano e all’arma bianca. Dopo due ore siamo riusciti a sopraffarli. Gli unici due sopravvissuti vennero fatti fuori nel bosco da una ragazza giovanissima che aveva chiesto al Comando di averne l’incarico; la ritrovai poi a Belgrado con i gradi di ufficiale partigiano. Rammento poi un attacco ad una caserma di fascisti albanesi, che sconfinavano e venivano a distruggere i villaggi in territorio jugoslavo. Dopo l’attacco alcuni sono scamapti ma la maggior parte restò uccisa.

 

 


RITIRATA TEDESCA E LIBERAZIONE – Quando le truppe germaniche cominciarono a ritirarsi dalla Grecia avevano due percorsi: lungo la linea ferroviaria Atene-Belgrado e lungo la carrozzabile Euzoni-Skopje-Nijs-Belgrado. Alcuni passavano a Bitola per andare verso il lago di Ocrid e l’Albania, forse sperando di raggiungere la costa ed imbarcarsi o proseguire per la carrozzabile costiera lungo la litoranea dalmata.

Abbiamo fatto l’impossibile per bloccarli, farli prigionieri e recuperare armi e materiali. Il Comando Generale di divisione riunì 3-4 brigate intorno al lago di Ocrid verso Struga e così abbiamo ottenuto dei risultati notevoli, anche perché le colonne tedesche che riuscivano a scappare sparando mancavano dell’appoggio dell’aviazione, che per noi era micidiale.
La nostra 7^ Brigata macedone fu la prima a liberare Bitola (Monastir), poi ci spostammo verso Struga ed infine partecipammo alla liberazione di Skopje; così tutto il territorio fu libero. Alcune Brigate partirono verso Nord per liberare Belgrado, mentre la nostra rimase sul posto.

 


RICOSTRUZIONE – Ci furono attribuite mansioni di ordine pubblico e di guardia-frontiera. Inoltre, essendo del Genio alpino, lavorai nella ricostruzione di ponti, in proposito ricordo quello ferroviario appena sotto Tito Veles per Bitola, fatto saltare dai Tedeschi; un ingegnere slavo diresse i lavori in cemento e quando sentì che noi Italiani avevamo qualche dubbio sul fatto che i tralicci, che ci sembravano mingherlini, avessero retto il peso di un convoglio ferroviario, per dimostrare l’esattezza dei suoi calcoli volle mettersi sotto il ponte al momento del collaudo con la locomotiva, poi con il secondo vagone, poi con un terzo e così via; alla fine scoppiò un applauso.

 


A BELGRADO – Verso l’inverno 1945-1946 riunirono noi Italiani a Belgrado e costituirono il Battaglione Partigiano Italiani, Unità di circa 600 uomini, comandato da un nostro Caporal maggiore decorato per meriti partigiani. Divisa, paga, trattamento erano del tutto uguali al soldato jugoslavo. Due ore al giorno erano dedicate alla cultura politica con insegnanti istriani o sloveni che in italiano ci istruirono su Marx, Engels, Lenin, Stalin e sui principi della politica. Cominciai a scrivere a casa ed a ricevere notizie. Il 9 maggio 1946, mi sembra la data esatta, ebbe luogo una imponente sfilata davanti al Maresciallo Tito.

 


IL RITORNO – Verso il 20 maggio fummo trasferiti in treno a Zagabria e poi Spalato, dove un Colonnello mandato dal Governo ci tenne un discorso, ringraziandoci per la nostra opera ed assicurando che, se in Italia non trovavamo lavoro, saremmo stati sempre ben accolti in Jugoslavia. Via mare si arrivò a Venezia e di qui fummo trasferiti a Pescantina, dove ci fornirono vestiti borghesi e ci consegnarono la decade dal 1943 al 1946 (circa 17.000 lire) ed un biglietto ferroviario. Ero partito in servizio militare il 25 maggio 1938 e tornavo a casa il 29 maggio 1946 dopo otto anni di pericoli, di spaventi, di disagi. Ma almeno avevo portato a casa la pelle”.
Schio, 22.5.1980 – Gaetano Bettanin.