IL COMUNE "FITTIZIO"
DEL "POPOLO" DI VICENZA
Particolare di una illustrazione di Aldo Capitanio apparsa sulla rivista "Storia Vicentina" nel 1994 raffigurante il centro città.
Il “popolo” di Vicenza nella cronaca ezzeliniana di Gerardo Maurisio
di Giovanni De Vergottini
Una organizzazione politica delle classi popolari a Vicenza nei primi decenni del secolo XIII non risulta dai documenti ma si desume con sicurezza dalla “Cronica dominorum Ecelini et Alberici fratrum de Romano” di Gerardo Maurisio. Il Maurisio nato a Vicenza da nobile e ricca famiglia non dopo il 1173, fu giurisperito e prese viva parte alla vita politica comunale: fu perciò non solo testimonio, ma spesso anche partecipe, e non sempre secondario, degli avvenimenti vicentini che narrò nella sua cronaca che si inizia con gli ultimi anni del secolo XII e finisce coll’anno 1237.
Il Maurisio compose la sua cronaca non anno per anno, ma di getto e frettolosamente nel 1237 e con intenti celebrativi verso i Da Romano, di cui fu devoto partigiano – per ciò si spiega come egli sia incorso in parecchi errori cronologici e abbia alterato qualche volta la verità dei fatti che concernono da vicino i suoi capi-parte. Ma senza dubbio la sua cronaca è fonte attendibile e importante per lo studio delle istituzioni comunali e della vita politica della sua città nei primi decenni del Duecento, periodo di tempo in cui egli si trovava nella piena maturità.
Il Maurisio non si occupa sistematicamente delle vicende del comune di Vicenza – ma, avendo innanzi alla mente la storia panegirica dei Da Romano, le espone solo nei loro rapporti coi Da Romano. E poiché questi aspiravano al governo di Vicenza – ed erano perciò o alleati o rivali delle grandi famiglie vicentine che si trovavano al centro della vita politica comunale – è naturale che il cronista si occupi quasi esclusivamente delle vicende dei podestà che si succedono a capo del comune, e della loro politica di fronte ai Da Romano. Quindi scarsezza estrema di notizie riguardanti le assemblee costituzionali del comune: arrengo e consiglio generale, che sono ricordate solo incidentalmente – e, poiché il governo della città è in balìa assoluta della classe nobiliare, mancanza di ragguagli sulle classi popolari, che non sono di fatto classi politiche e cheverranno ricordate, seccamente, solo un paio di volte quando appariranno fuggevolmente partecipi alla vita politica ed al governo del comune.
Il racconto particolareggiato del Maurisio si inizia coll’anno 1194 e ci mostra la classe nobiliare, che è dominatrice assoluta del comune, divisa in due partiti capeggiati da due grandi famiglie: i conti di Vicenza o Maltraversi, discendenti dai conti feudali del “comitatus” vicentino, e i Da Vivaro, avvocati dei potentissimi vescovi di Vicenza – della “pars Vivarensium” è membro influentissimo Ezzelino II Da Romano. I due partiti dispongono a loro piacimento del comune, per antica consuetudine tutte le cariche del comune vengono conferite per metà ai loro membri, persino gli elettori del podestà sono scelti a parità tra i due partiti, ed il podestà stesso, che dovrebbe essere espressione di forza e imparzialità, appare così espressione di un semplice compromesso tra i due partiti; talvolta poi si ha addirittura il governo collegiale di due podestà rappresentanti direttamente i due partiti nobiliari.
Ma il ceto nobiliare, arbitro del comune, è assolutamente incapace di dare un buon governo alla città: privo di qualsiasi forza di coesione interna, esso è animato da uno spirito fazioso quanto mai rovinoso. I due partiti nobiliari si stanno di fronte pacificamente solo in via eccezionale – la normalità è invece data da un succedersi di lotte armate, aspre e feroci, che portano la strage e la distruzione nella città e anche nel contado, dove tanto i conti quanto i Vivaresi, e specialmente i Da Romano, hanno feudi e castelli e armigeri. Alle lotte faziose partecipa il vescovo, di cui i Da Vivaro sono gli avvocati, e quando questi con Ezzelino II vengono espulsi dalla città, egli li segue per rifugiarsi con essi nelle rocche del contado.
Le lotte faziose non hanno che tregue fugaci – per un nonnulla riardono e durante una loro ripresa viene ucciso persino il vescovo, che uomo d’armi ben più che di chiesa partecipava in persona all’assedio di un castello. E a questa rovinosa anarchia non riescono a porre argine neppure i podestà forestieri che – altrove strumento di governo unitario ed energico – a Vicenza non possono imporsi alla strapotenza della nobiltà!
Nel 1206 la nobiltà vicentina ed i suoi partiti danno nuove prove del loro carattere turbolento ed esiziale per la vita comunale; avvicinandosi lo scadere della podestaria di un nobile cremonese, il conte Guido e Corrado Da Vivaro si presentano con i loro seguaci armati al consiglio generale, in cui si deve provvedere alla elezione del nuovo podestà, e si fanno eleggere con la violenza alla carica podestarile! E non basta: il governo così illegalmente conseguito non viene neppure esercitato concordemente! Per ragioni che il cronista tace – tra i due podestà nasce, nel palazzo del comune, una “discordia” aspra che sembra dover nuovamente portare la guerra civile nella città! In questo grave frangente – approfittando della circostanza che i due podestà hanno abbandonato il palazzo del comune per ritornare nelle proprie abitazioni – “populares domum ascenderunt communis et ipsis de potestaria remotis, ellegerunt dominum Guillelmum de Pusterla, civem mediolanensem in potestatem”.
Questa prima menzione dei “populares” e di una loro azione politica da parte del Maurisio è davvero di grande interesse. Per dodici anni il cronista ci ha narrato le vicende del comune di Vicenza, raffigurandole quale una incessante e sanguinosa rivalità di due grandi raggruppamenti della nobiltà che si disputano il potere – senza mai ricordare neppure di sfuggita le classi non nobiliari. Ora, nel 1206, d’improvviso, nel momento in cui le rivalità nobiliari stanno nuovamente per prorompere in guerra civile, appaiono sulla scena politica i “populares”: in massa essi invadono il palazzo del comune – e in assemblea certo tumultuaria, sostituendosi alle ordinarie assemblee costituzionali del comune, arrengo o consiglio generale, dichiarano decaduti dalla carica podestarile i due nobili faziosi ed eleggono a podestà il nobile milanese Guglielmo da Pusterla.
Di fronte al malgoverno dei podestà locali i populares ricorrono a un podestà forestiero e la loro scelta, sebbene fatta di certo in modo tumultuario, cade su una figura eminente, affermatasi in numerose podestarie nelle più importanti città dell’alta Italia – e certo ben conosciuto a Vicenza per le tre podestarie esercitate nella vicina Treviso.
Ed a Vicenza il Pusterla si afferma vigoroso e illuminato reggitore: egli non trova ostacoli a Vicenza nei due podestà deposti e nei loro seguaci – che si piegano innanzi all’atto di forza dei “populares” – giura “pacifice” la sua podestaria ed il suo governo si svolge con tanto ordine all’interno che il comune può inviare l’esercito cittadino, sotto il suo comando, sotto le mura di Verona per tentare di stabilire la pace cittadina in quel comune che di solito era il tutore della pace interna di Vicenza.
Questo rinvigorimento del comune sotto il Pusterla è indubbiamente dovuto all’elezione dei “populares” che appaiono davvero qui come in parecchi altri comuni una forza di restaurazione unitaria contro la disgregazione espressa dalle fazioni nobiliari. Non è possibile non ricordare qui le vicende interne di Bergamo dove proprio nel 1206 contro la ribellione della potente famiglia dei Soardi il podestà viene aiutato dalla “cumpania nova”, che secondo il Mazzi è popolare armata, e dove certo nel 1230 la “societas populi” rappresenterà una organizzazione, di classe sì, ma al servizio ed a difesa del comune contro le fazioni nobiliari.
Se allora il “sacramentum” della “societas populi” dirà che essa è sorta “ad honorem et bonum statum Comunis et totius civitatis Pergami ac virtutis eius” e porterà come primo capitolo la solenne formula: “Ego juro ad Sancta Dei evangelia, remotis hodio, amore, timore, preciis et precibus, dampno et proficuo meo et alieno, quod salvabo et guardabo, ac manutenebo, defendam et adjuvabo comune Pergami intus et foris. Et Potestas sive Rector vel rectores ipsius Comunis qui modo sunt, vel pro tempore fuerint, prout melius sciam ad proficuum et bonum statum ac majorem utilitatem ipsius Comunis et Potestatis sive rectoris vel rectorum eius” – esso non affermerà cose contrarie alla verità – e certo I “populares” di Vicenza avrebbero potuto nel 1206, fondando una loro “societas”, adoperare le stesse espressioni.
Ma dal racconto del Maurisio bisogna invece dedurre che i “populares” di Vicenza nel 1206 non si siano dati nessuna vera organizzazione politica: la loro azione violenta appare nata non dall’opera preordinata di una “societas” – ma semplicemente dall’esplosione improvvisa di un’indignazione, a lungo covata, per l’ultima contesa intestina dei governanti tratti dalla nobiltà. E anche tutto il movimento, che ha un carattere tumultuario, non sbocca nella costituzione di una societas politica, con propri rettori e propria assemblea, tanto meno di una societas che accampa dei diritti di partecipazione al governo del comune – come troviamo in questi anni in tante altre città e come troveremo più tardi anche a Vicenza. Pare invece che in questo loro primo affacciarsi sulla scena politica i “populares” di Vicenza si accontentino del semplice ristabilimento di un governo unitario e energico.
Dopo la podestaria del Pusterla – i “populares” non sono più ricordati per parecchi anni dal Maurisio. Il governo del comune appare nuovamente nelle mani della nobiltà – dopo varie vicende di lotte faziose si ha sì un governo unitario e superiore ai partiti sotto il veneziano Marino Zeno nel 1214 – ma ad esso succedono nel 1215 collegialmente due podestà locali: il conte Alberto e Guido Da Vivaro rappresentano i due partiti – da notarsi però che effettivamente il partito detto dei Da Vivaro era ormai capeggiato da Ezzelino II contro, si capisce, la volontà dei Da Vivaro.
E qui il racconto del Maurisio diventa per noi interessante:
“Istis potestatibus successit dominus Rambertinus de Bononia; hic se regebat secundum voluntatem cuiusdam comitis (leggi: comunis) noviter facti in civitate Vincencie in odium domini Ecelini et sue partis. Cuius comitis (leggi: comunis) tanta erat potencia quod, cum partes consuete fuerint per medium officiales habere, tunc sibi terciam partem omnium officialium adsumebant, quod in potestaria Comitis et domini Guidonis precedentium primo fuerat illi communi concessum, et favebat commune predictum parti comitis in totum, quamvis se commune faceret ficticie nominari, et sic pars domini Ecelini non habebat nisi partem terciam et pars comitis duas, et in hac condicione per duos anno continuos rexit idem Rambertinus civitatem”. Questo sistema di governo dispiace all’amministratore della diocesi di Vicenza – ed il nuovo podestà Albertino di Castelnuovo nel 1218 “pro medietate concessit officiales partibus, contempto communi predicto, tamquam iniquo et fraudolento communi”. Lo stesso sistema di governo segue il suo successore nel 1219, un vercellese, ma “Ugutio Pilii favore comitis (leggi: comunis) memorati, indignati ob id quod partem terciam officialium non habebat, tumultum movit contra potestatem et in ipsum fecit insultum ipsumque in palatio comunis tam diu expugnavit quod devictus potestariam renunciavit seque fecit in potestatem eligi”.
Dunque: sotto la podestaria del conte e del Da Vivaro si forma un “comune” particolare, di tanta potenza da ottenere per sé la terza parte di tutte le cariche del comune – e sotto la podestaria biennale del Rambertini, bolognese, esso non solo mantiene questa sua partecipazione al governo del comune ma addirittura ha una influenza preponderante sul podestà. Ciò finisce bruscamente col podestà Castelnuovo – che annulla senz’altro ogni partecipazione del “comune” alle cariche del comune – ma sotto il successore del Castelnuovo, il “comune” reagisce contro questo esautoramento e aiuta un potente nobile Uguccione dei Pilii nella sua insurrezione contro il podestà. Questa ha pieno successo e il Pilii ottiene con la violenza l’elezione alla carica podestarile, senza che il Maurisio ci dica se il “comune” abbia ottenuto la desiderata reintegrazione nella terza parte delle cariche comunali.
Come dobbiamo interpretare questo “comune” particolare, che il cronista ricorda negli anni 1215-1219, bollandolo cogli epiteti di fittizio, iniquo, fraudolento? Il Salzer lo interpreta senz’altro come un’organizzazione politica del “popolo”, senza dare alcuna motivazione della sua opinione. Io credo che si possa aderire, con qualche attenuazione, alla sua interpretazione – perché è innegabile che tutto quello che il cronista riferisce sul titolo e sulle richieste di partecipazione al governo da parte di questo “comune” coincide col titolo ecc. del “comune” ricordato da lui poi agli anni 1222-1224 come emanazione dei “populares”. L’unica vera difficoltà consiste però proprio in ciò: che per gli anni 1222-1224 il Maurisio ricorda espressamente il carattere “popolare” del “comune fittizio”; perché dunque non ricorda i “populares” anche a proposito del “comune” iniquo, fraudolento, fittiziamente arrogantesi il titolo solenne, degli anni 1215-1219?
Non credo impossibile rispondere a questa obiezione, purchè si prendano in considerazione, mettendoli in relazione tra di loro, due passi del Maurisio che si riferiscono al governo biennale del podestà Rambertini. Dapprima si dice che il Rambertini “se regebat secundum voluntatem cuiusdam communis” ecc. – poi si dice che Uguccione dei Pilii allo scadere della sua podestaria (1220) fa rieleggere a podestà il Rambertini “quia suo arbitrio aliis temporibus rexerat civitatem”.
Dal confronto dei due passi sorge spontanea la deduzione che il “comune fittizio” si trovava, se non sotto il rettorato, sotto l’influenza del potente e turbolento magnate. Ed è ben naturale che la ribellione di Uguccione contro il podestà vercellese avvenga poi “favore communis memorati, indignati ecc.”.
Questa influenza di un nobile sul “comune fittizio” di base popolare, non può davvero sorprendere qualora si ricordi che, come hanno avvertito di sfuggita il Salzer e lo Iordan e come io spero di dimostrare ampiamente altrove, tutto il movimento popolare è nel Duecento largamente guidato da dei nobili, staccatisi per motivi di varia indole dalla loro classe sociale e dal loro partito politico. E se generalmente il potere di questi nobili filopopolari è quello spettante agli ordinari magistrati prepostisi dal popolo, abbiamo d’altro canto alcuni esempi molto significativi di poteri assolutamente eccezionali ad essi conferiti. Così a Piacenza il rettorato del popolo è conferito collegialmente a Guglielmo d’Andito ed ai suoi figli – ed il cronista parla di una loro “dominatio” sul popolo. Così a Lodi Sozone Vistarini ed i suoi sono per dieci anni rettori del popolo. Così a Milano, dove pure le classi popolari hanno raggiunto uno sviluppo economico e politico del tutto eccezionale – i della Torre tengono in pugno tutto il movimento popolare con il titolo di ancianus perpetuus populi – dunque con poteri concessi a vita.
Ma vi è di più: nel movimento popolare qualche volta non entra solo qualche nobile isolato, ma un compatto e numeroso gruppo di casate nobiliari, questo risulterà esplicitamente dalla “Pace di S.Ambrogio” stretta a Milano nel 1257 tra nobiltà e popolo, ma si deve anche arguire dal tenore della sentenza di pace che nel 1222 il podestà di Cremona Sozzo Colleoni emette tra la nobiltà ed il popolo di Piacenza. A Piacenza vi è sì la “communitas plebis”, la “societas populi”, la “universitas populi Placentini”, ma quando il Colleoni per pacificare la città divide le cariche comunali per metà tra le due parti in lotta egli stabilisce che la metà spetti al populus Placentie et illi milites qui ad populum attendunt (l’altra metà ai milites Placentie et illi de populo qui ad milites attendunt), formula che egli non avrebbe certo adoperato se nel popolo vi fossero stati soltanto gli Andito.
Se ora, tenendo presenti questi casi di organizzazioni popolari guidate con poteri amplissimi da nobili e composte anche largamente da nobili, noi ritorniamo al “comune fittizio” di Vicenza – possiamo ben avanzare l’ipotesi che esso, pur sorto quale organizzazione popolare, con l’entrata di numerosi nobili ambiziosi che ne avocano a sé la direzione venga tratto a partecipare alle lotte ed alla politica faziosa dei partiti nobiliari – e che quindi praticamente si presenti all’osservatore quale un partito, ben poco diverso dai due tradizionali partiti nobiliari. Quanto poi alla tendenza avversa ai Da Romano di questa organizzazione giuridicamente popolare – è agevole supporre che le classi popolari, interessate per i loro commerci e le loro arti all’espansione nel contado, dovessero essere tutt’altro che favorevoli ai Da Romano che coi loro possessi originari (Bassano, Marostica) erano gli ostacoli più forti di questa espansione – quindi facilmente si unissero ai nobili avversi ai Da Romano.
Con queste premesse è ora ben possibile spiegare come il Maurisio non ricordi i populares a proposito del “comune fittizio”. Il Maurisio parla del “comune fittizio” solo nei suoi rapporti con Ezzelino II. E poiché praticamente esso si comporta come un partito avverso ai Da Romano ed è in balìa delle ambizioni di nobili avversi ai Da Romano – senza che emergano attraverso di esso uomini nuovi, e nuovi atteggiamenti di fronte alla politica tradizionale – egli lo considera come un semplice partito affiliato a quello comitale e iniquamente usurpante il solenne titolo di comune e, data la frettolosità del suo racconto, non crede necessario ricordare i populares da lui disprezzati.
All’anno 1222 il Maurisio ricorda di nuovo il “comune fittizio” ma questa volta dice esplicitamente che si tratta di una organizzazione popolare: egli narra che il podestà Lodorengo da Martinengo, bresciano, che inizia il suo reggimento in un periodo di calma interna tra le fazioni nobiliari, “favebat nimis popularibus et cuidam communi ficticie facto et in tantum quod terciam partem officialium dabat illi comuni”. Perciò i magnates di ambo le parti (Alberico Da Romano, il conte Alberto, Alberto di Celsano ecc.) congiurano contro il podestà.
Questo passo del Maurisio è per noi di singolare importanza: in quanto ci dà ragguagli precisi sull’esistenza di una organizzazione anche praticamente popolare che partecipa largamente alla vita pubblica ed alle cariche del comune. Nulla sappiamo sulla organizzazione interna di questo “comune” popolare, nulla sulla parte che vi hanno le diverse classi dei populares che un documento del 1213 ci mostra distinti in maiores, de medio e minores (non sarà però azzardato il supporre alla testa i maiores). Sappiamo solo che esso segue la solita tattica attraverso cui il popolo pretende e ottiene di prender parte al governo del comune: cioè avere una quota parte delle cariche comunali. Questa quota è di un terzo – come p.e. a Cremona – mentre altrove p.e. a Piacenza, a Milano, a Siena è addirittura della metà.
Il Maurisio parla di una terza parte degli officiales attribuita al popolo – in base alla terminologia corrente. Bisogna arguirne che vi siano inclusi anche gli elettori del podestà e gli emandatori dello statuto comunale.
Il Maurisio non accenna affatto a una partecipazione numericamente determinata del popolo al consiglio generale del comune. Se infatti gli appartenenti alle classi popolari partecipavano singolarmente sin dalle origini del comune al consiglio generale del comune, il popolo organizzato vi pretende e ottiene qualche volta per i suoi iscritti la metà dei seggi, così p.e. a Siena, ed a Milano. A Vicenza pare che ciò non avvenga – come del resto non avviene a Cremona ed a Piacenza, dove del pari il movimento popolare, che raggiunge ivi sviluppi molto più notevoli, chiede e ottiene una parte delle cariche comunali.
Ma come si perviene a questa partecipazione del popolo di Vicenza alle cariche comunali? Le parole del Maurisio: Il Martinengo favebat nimis popularibus…et in tantum quod dava loro la terza parte delle cariche comunali – attribuiscono al podestà l’iniziativa della riforma costituzionale. Si può interpretare letteralmente il passo del Maurisio e accettarne senz’altro il significato? Credo opportuno esaminare le fonti che per gli altri comuni ci danno ragguagli sul conseguimento della metà o del terzo delle cariche comunali da parte del popolo. Nel 1212 a Milano ciò avviene per opera dell’imperatore Ottone IV. Ma di solito la riforma si ottiene attraverso un compromesso tra i due partiti che addivengono all’elezione d’un arbitro il quale pronuncierà la sua sentenza solennemente nell’arengo comunale. Questo avviene a Piacenza, a Cremona, a Milano.
A Piacenza nel 1222 la sentenza del Colleoni podestà di Cremona che divide le cariche per metà tra nobili e popolo (in publica concione…statuit et precepit quod…) è certamente proferita in base al compromesso che essi avevano fatto delle loro discordie nel comune di Cremona. E nel 1233 nobili e popolo fecerunt commissionem in fra Leone dei Minori de omnibus discordiis eorum e dopo un mese il frate dedit sententiam delle liti vertenti tra i due partiti ed dedit metà degli honores della città ai nobili, e metà al popolo.
A Cremona nel 1210 il vescovo Sicardo, legato papale “ad predicandum et faciendum pacem in Lombardia…cum [il comune retto dai nobili ed il popolo] se meo comisissent arbitrio cumque de omnibus discordiis iurassent meis omnibus obedire preceptis come risulta da pubblici istrumenti – convocata publica contione per tubam et campanas sonatas – emette il suo lodo cominciando: Dico et precipio quod populus tocius civitatis Cremone habeat…terciam partem omnium offitiorum et honorum…”.
A Milano la funzione d’arbitro è spesso delegata al podestà. Così nel 1215 la divisione delle cariche comunali e del consiglio generale tra capitani e valvassori dall’una e la Motta, e la Credenza ed il popolo dall’altra parte è ordinata dal podestà Uberto di Vialta certo in base a un compromesso delle parti.
Così nel 1225 i capitani e valvassori dall’una ed il popolo dall’altra parte eleggono ad arbitro delle loro liti il podestà Aveno da Mantova, il quale in concione publica emette i suoi “praecepta pacis et concordie Mediolani, longis temporibus exoptatae – super dissentionibus et de dissentionibus et discordiis omnibus ecc.” tra i due partiti; precetti che non ci sono stati conservati ma che si sa aver confermato quelli del Vialta – che in prima linea concernevano la divisione delle cariche – e che cominciano in modo solenne: “Nos Avenus de Mantua Potestas Mediolani, volentes sedare et pacificare discordias…delle due parti secundum commissionem seu compromissum in nos factum a Communi et hominibus etiam a rectoribus partium et ab aliis electis a partibus memoratis pro compositione tractanda, et concordia facienda, et ab ipsi partibus in maxima et publica concione coadunata more solito..”.
Ora io ritengo che a Vicenza si sia avuto uno sviluppo degli avvenimenti, simile specialmente a quello di Milano: discordia tra nobili e popolo che si delega all’arbitrato del podestà Martinengo. Certo però perché una sentenza riconosca al popolo la terza parte delle cariche comunali è necessario che questo sia organizzato politicamente e ad unità. E’ quindi necessario ritenere che il popolo si sia riunito in societas unitaria già al principio del governo del Martinengo, se non prima: societas che prende il nome di comune – infatti è necessario attribuire significato tecnico alla parola adoperata dal Maurisio in quanto egli quando parlerà della società popolare di Verona del 1227-1229 la chiamerà communancia, titolo comprovato esatto dalle poste del Liber iuris civilis urbis Verone del 1228.
Dunque: società del popolo che prende il nome di comune ed a cui la nobiltà non può negare la terza parte delle cariche – successo che il popolo ottiene attraverso la sentenza arbitrale del Martinengo. Questa appare la interpretazione del passo del Maurisio alla luce delle fonti parallele.
Ma, per scrupolo di completezza, si deve osservare che il passo del Maurisio, può essere forse interpretato anche letteralmente così da attribuire all’opera del Martinengo un carattere più autoritario: cioè se si prescinde dal richiamo allo sviluppo generale degli avvenimenti (Piacenza, Cremona, Milano) e si interpreta alla lettera il secco passo del Maurisio si ha l’impressione che il cronista attribuisca al Martinengo una vera tendenza filo popolare e alla sua decisa volontà, ad un suo atto d’arbitrio, e non a un suo arbitrato, a una sentenza in base a regolare compromesso delle parti, la riforma costituzionale a vantaggio del popolo. Questa decisa politica filo-popolare del Martinengo sarebbe certo in contrasto con la psicologia dei podestà in genere che, nobili sempre anch’essi (ed il Martinengo usciva da una delle più illustri e potenti famiglie della nobiltà bresciana) erano tratti a parteggiare piuttosto per la nobiltà che per il popolo – ma non può addirittura essere considerata impossibile.
Si abbia infatti presente quanto avveniva quasi contemporaneamente in una città della Romagna, a Faenza. Nel 1218, narra Tolosano di Faenza, il podestà Tolemacio di Cremona “fecit et ordinavit communanciam armaturarum..e di nascosto sacramenta fieri fecit omnibus ut civitas in bono statu permaneret et cum magnatibus officia civitatis sortiri”.
Dunque è il podestà che di sua iniziativa istituisce una compagnia militare del popolo, è il podestà che le fa prestare un giuramento per il buon ordine della città e per il conseguimento di parte delle cariche comunali riservate sino allora alla sola nobiltà.
Una politica filo-popolare del Martinengo non sarebbe perciò del tutto isolata. E’ dunque possibile che egli – uomo di grande energia e saggezza politica (era stato poco prima podestà per parecchi anni di seguito in patria – e nella sua Brescia, celebre per le sue sanguinose lotte nobiliari, a cui poi si erano aggiunte lotte tra nobiltà e popolo, aveva governato in perfetta pace e tranquillità, che sotto il suo successore erano subito scomparse per far di nuovo luogo a lotte e guerriglie) – a Vicenza, dove la nobiltà era così turbolenta, e solo da poco viveva senza guerriglie, si appoggi alle classi popolari e aiuti o promuova la loro organizzazione politica e la loro partecipazione alle cariche comunali, per avere una salda base di governo contro la malfida nobiltà.
Indubbiamente il comune ficticium in cui ora sono organizzati i populares è anche sostanzialmente, effettivamente nell’atteggiamento politico di fronte ai raggruppamenti nobiliari un organismo di popolo – senza legami con i vecchi partiti e diretto da uomini nuovi – non è possibile non pensare alla communancia di Verona del 1227-1229 ed al suo capitano Giuliano, figlio di un albergatore (che ben più del podestà sarà il vero reggitore del comune veronese).
Ma proprio per ciò tutti i nobili, di ambo i partiti, si schierano contro il comune fittizio e naturalmente contro il podestà Martinengo (qua propter…) che ad esso si appoggia (la levata di scudi contro il podestà si spiega più chiaramente presupponendo un’azione personale del Martinengo a favore del popolo, ma può benissimo prospettarsi anche nel caso di una sua regolare sentenza arbitrale, perché p.e. a Piacenza subito dopo la sentenza arbitrale del Colleoni del 1222 – che assegnava appunto metà delle cariche al popolo – riscoppiano le discordie. I nobili si uniscono in congiura contro il podestà per opporsi alla sua prassi di governo – ma questi non si piega innanzi a questa minacciosa coalizione della nobiltà, i cui capi appaiono Alberico Da Romano, il conte Alberto di Vicenza e Alberto di Celsano. Sibbene con contegno fieramente deciso ordina ai congiurati di presentarsi a lui nel palazzo del comune e, poiché essi non obbediscono abbandonando la città, li mette senz’altro al bando del comune. Non è davvero azzardato il supporre che i populares raccolti nel loro comune abbiano prestato man forte al vigoroso podestà.
Ma il Martinengo ricorre anche all’aiuto della sua città, e i suoi amici gli inviano in soccorso duecento cavalieri – ma quando con essi si appresta a cavalcare contro i ribelli il comune di Padova interviene e li induce a presentarsi nell’arengo agli ordini del podestà. La pena pecuniaria a cui questi condanna i ribelli viene sborsata dal comune di Padova, ma il podestà finisce regolarmente il periodo del suo governo con indiminuita energia.
Questo carattere forte, unitario del governo del Martinengo è per noi davvero di grande rilievo: quando i populares erano intervenuti nel 1206 nei torbidi nobiliari essi avevano eletto a podestà un uomo di gran fama Guglielmo da Pusterla, nobile, sì ma reggitore imparziale ed energico che aveva dato al comune di Vicenza un biennio di pace e di potenza, sino allora sconosciute – ora dopo sedici anni il podestà che si appoggia ai populares è anch’egli una figura eminente di reggitore e di politico.
Il Maurisio devoto seguace di Alberico Da Romano, che è uno dei capi della congiura contro il Martinengo, non è certo favorevole a lui e alla sua politica di valorizzazione dei populares, che il cronista disprezza, eppure attraverso le sue parole trapela l’ammirazione, sia pur involontaria, verso il Martinengo. Egli ce lo presenta come vir nobilis prudens atque facundus – saputo della congiura, non vuole precipitare gli eventi e ordina ai congiurati di presentarsi a lui poiché è prudens et discretus – quando poi essi non si presentano li mette al bando et ad offendendum eos se viriliter preparabat – appena arrivano i cavalieri da Brescia decide di cavalcare in persona alla loro testa contro i ribelli – e dopo la pacificazione potestariam suam usqua ad finem rexit cum magno vigore (1223).
E’ davvero una fiera figura di difensore della pace e della costituzione comunale contro le tendenze disgregatrici della nobiltà faziosa.
Il suo successore Amati cremonese (1224) continua l’indirizzo del Martinengo, appoggiandosi ai populares ed al loro comune. Sembra che anche i podestà successivi, Guglielmo Amati, fratello di Ponzio, (1225) e Ottone di Mandello (1226), abbiano continuato lo stesso indirizzo. Poi scompare nel Maurisio qualsiasi traccia dei populares e del loro comune ficticium – e ricominciano le lotte faziose che si intrecciano con le relazioni con i comuni limitrofi.
La scomparsa del popolo di Vicenza non ci sorprende qualora si pensi alla sorte, acutamente individuata dal Simeoni, della potente communancia popolare di Verona: sorta nel 1227 su altri presupposti – cioè al momento della temporanea fine dei partiti nobiliari – essa sta al centro della vita politica comunale per due anni, ma poi scompare quando riprendono le lotte tra i vecchi partiti nobiliari. Il comune popolare di Vicenza, che da essa si differenzia per parecchi aspetti, sarà scomparso, al suo pari, di fronte al risorgere delle lotte nobiliari.
Giovanni De Vergottini (estratto da “Studi Senesi” n.48 -1934)