Troppe verità su Pedescala!
di Giorgio Marenghi
Sonia Residori, con il suo ultimo libro, “L’ultima valle”, sul massacro di Pedescala del 30 aprile-2 maggio 1945, farà discutere a lungo, sia gli storici, che gli abitanti di Pedescala, e anche tutti coloro che da anni seguono le vicende dell’alto vicentino.
Il volume è un’opera complessa che tiene conto di tante situazioni. L’autrice prepara il terreno per la comprensione dei fatti luttuosi della ritirata esaminando tanti altri fatti, altri protagonisti che comunque poi ricompaiono legati strettamente all’evoluzione del periodo finale della guerra in Italia.
Intanto la Valdastico. Una valle lunga, stretta, costellata da paesi e frazioni, con una strada principale sulla destra del torrente omonimo e altre strade che portano a San Pietro e ai contrafforti dell’Altopiano dei Sette Comuni.
Un luogo adatto alle fortificazioni, duro, a volte in alcuni punti inaccessibile per un eventuale futuro intervento dell’esercito alleato che, in aprile 1945 poi dilagherà da vincitore in tutta la pianura padana puntando in fretta verso est, ma toccando comunque i centri abitati della pedemontana per rastrellare il nemico in ritirata.
Occorre dire che la Valdastico durante tutto il periodo della resistenza armata ai tedeschi e ai fascisti non è mai stata una zona isolata, estranea allo scontro politico e militare in atto.
Anzi qui la repressione contro il movimento partigiano è sempre stata brutale. Sin dai primi rastrellamenti alla ricerca dei renitenti o dei primi nuclei partigiani. I morti ci sono subito, giovani della vallata che hanno già avuto i primi contatti con gruppi partigiani.
La vita della Valdastico cambia in peggio nel giro di pochi mesi. Nel 1944 i rastrellamenti si fanno frequenti toccando l’Altopiano ma anche con puntate nei paesi della valle. Persino a Pedescala i fascisti puntano a propagandare i loro metodi.
Si avvertono anche i primi segni di una guerra civile strisciante, che tocca gli abitanti della Valdastico. Il 7 luglio del 1944 viene ucciso l’ex carabiniere Faggiana, una spia fascista che viene eliminata dal gruppo partigiano guidato da Alberto Sartori “Carlo”.
Le azioni armate per il momento prediligono gli obiettivi fascisti, l’attacco al presidio di Tonezza non è certo un successo, ma diventa un fatto politico positivo per il movimento partigiano. Meno per la popolazione civile che presto conosce i metodi della controguerriglia. Infatti nella ritirata in Valdastico in Contrà Costa 13 case vengono distrutte col fuoco. Un segnale per la memoria delle popolazioni.
I delatori vengono giustiziati. E’ gente della Valdastico, fascisti da sempre o personaggi rosi da sentimenti di vendetta personali. Alle morti di quattro partigiani si risponde con quattro spie della vallata fucilate sempre dal gruppo di Sartori. Cade Luigi Busato il 22 luglio del 44, il 25 è la volta di Filippo Giovannini, titolare dell’ufficio postale di Barcarola e fascista repubblicano, lo stesso giorno vengono soppressi il podestà di Rotzo Spagnolo Matteo e il vice segretario Pellizzari Giuseppe, nei pressi di San Pietro Valdastico.
La resistenza vuole subito mettere in chiaro che chi fa la spia la pagherà molto cara.
In Valdastico, a Settecà, i partigiani potranno contare su un alberghetto-osteria, dai Sella, che diventerà una base sicura per la resistenza dell’intera provincia vicentina, ove si potranno incontrare i capi del movimento e i responsabili delle missioni alleate, compreso il maggiore inglese “Freccia” Wilkinson.
Nella stessa Pedescala alcune famiglie coprono altre “basi” partigiane, un bunker, scavato nell’orto di un abitante del paese, assicura una base di appoggio e addirittura l’archivio della brigata “Pasubiana”. Dunque la Valdastico impara già nel 1944 cos’è la guerra civile e cos’è la guerra di liberazione.
Nei paesi si parla certamente delle spie abbattute e dei giovani della vallata che adesso sono diventati “i ribelli”. Si parla anche delle case bruciate, delle famiglie senza un tetto, dei profughi.
I CONTRASTI NEL MOVIMENTO PARTIGIANO
L’autrice dopo aver esaminato questi fatti punta poi a far capire cos’è il movimento partigiano, il protagonista un po’ alieno della vita della Valdastico. Vi appartengono molti giovani della vallata ma si vedono poco, ora, sono in montagna, vicini però, ma adesso sono assorbiti dalla lotta e anche da problemi di organizzazione interna.
Questo è un punto dolente perché se qualcuno pensava che i partigiani fossero uniti e andassero d’amore e d’accordo deve, con la prosa di Sonia Residori, ricredersi.
Tutti contro il fascismo e l’occupante tedesco ma la malattia del “settarismo politico” occupa una buona parte del “tempo” partigiano. Almeno di quello dei capi. Il comandante partigiano Alberto Sartori non si risparmia nel far scoppiare le contraddizioni interne. Il problema è politico, non solo la faccenda dell’ora politica, momento giornaliero per creare dei partigiani comunisti in barba alle raccomandazioni dello stesso vertice del PCI, ma c’è pure l’avversione di Sartori contro il comandante della Brigata Pasubiana, Sergio Andreetto, reo di essere un cattolico “autonomo”, anticomunista, dedito solo alla causa della liberazione.
Per Sartori in Valdastico e dintorni non ci deve essere posto per Sergio Andreetto. Il comando della “Garemi” (così si chiama il raggruppamento delle brigate “Garibaldi”) alla fine manda via tutti e due, troppo pericoloso il confronto, destabilizzante per la lotta partigiana.
Ma perché, qualcuno potrebbe obbiettare, il volume parla di queste cose che sembrano affari “di famiglia” della resistenza? Non stiamo parlando di Pedescala, non stiamo parlando della Valdastico e dei guai che fra poco, nell’aprile del 1945, dovrà affrontare con i tedeschi in ritirata?
Invece la Residori ha fatto benissimo a porre l’accento e a raccontare fin nei minimi particolari lo scontro tra le varie anime della resistenza. Quella “autonomista”, cioè anticomunista, e quella comunista, a sua volta divisa in due, i “moderati” alla Boscagli (comandante della “Garemi” garibaldina) e i “settari”, Sartori e compagnia.
Questo dissidio e la sua storia, raccontata nel volume, fanno capire a chi legge le possibili conseguenze sul piano pratico della lotta armata, del controllo stesso di parti del territorio. Se pensiamo alla salute politica dei gruppi partigiani e allo stesso tempo facciamo un pensierino alla situazione drammatica della ritirata tedesca appare chiaro che il collegamento c’è ed è molto importante.
Perché poi chi dovrà occuparsi della vallata, chi sarà guidato da comandi “stabili” ed “equilibrati”, “esperti” o “inesperti” nel momento del bisogno?
LA TODT DA' DA MANGIARE A TUTTI
C’è un altro dato molto importante che occorre trattare e mettere in risalto. L’economia della valle è quella che è, non florida. E con la guerra e i combattimenti a giorni alterni portare a casa il pane è cosa dura. A questo però ci pensano i tedeschi che dimostrano, bisogna dirlo, acume politico ovviamente del tutto strumentale.
Per tenere la valle sotto il loro controllo vigile i tedeschi fanno affluire i tecnici della TODT, l’organizzazione che in tutta l’Europa nazista, assicura i lavori di fortificazione militare e la logistica stradale e industriale.
In Valdastico così tutti corrono a procurarsi uno stipendio, buono del resto, per campare. Pedescala, Forni, Settecà, ecc. vivono con i tedeschi della TODT. E pure i giovani partigiani, quando nell’inverno del 1944-45 dovranno scegliere tra la vita in montagna e quella in vallata, saranno in molti a chiedere un impiego nei lavori pagati dai tedeschi.
Questo è un aspetto che occorre ricordare quando si parlerà più avanti del massacro di Pedescala. Perché più di qualcuno nella resistenza non aveva certamente gradito questo entusiasmo lavorativo a favore del nemico pur di uscire vivi dall’inverno e con uno stipendio in mano per giunta.
Quindi al momento del bisogno è possibile, questo lo affermo io, non lo dice l’autrice, che ci sia stato un cortocircuito tra gruppi partigiani e la popolazione civile della vallata. Considerata, magari, una massa di “traditori”. Se non è così del tutto, per tutti gli abitanti, certamente le relazioni nei paesi devono aver subito anche questo “raffreddamento”.
E dobbiamo pure tener conto che la maggioranza della popolazione in vallata subìva i partigiani, li tollerava, magari li aiutava ma con sentimenti non certo “resistenziali”. Questo accadeva anche in altre parti del territorio vicentino e sono solo certi cultori del “mito” resistenziale (che fa tanto male ai partigiani!) a proclamare un sentimento univoco e onnicomprensivo.
Una minoranza, certo, anche nello stesso paese di Pedescala, aiutava di cuore i partigiani, li riforniva, aveva i propri figli nelle loro fila, e fra i caduti non ci sono solo le vittime civili, ci sono anche dei giovani appartenenti alla guerriglia e le loro famiglie. Anche costoro sono abitanti di Pedescala e della Valdastico.
Ma torniamo a parlare del libro e di come più si va avanti in questo mio riesame si scopra molto materiale che serve ad analizzare gli avvenimenti e a fornire argomenti per i “perché”.
L'IMPORTANZA DELLE SPIE TEDESCHE E ITALIANE
Prima si era accennato alle spie. Adesso l’autrice ci regala molte pagine per capire come i tedeschi potessero essere informati sui componenti della guerriglia, sulle loro case, sui paesi, ecc. La vallata era stata “schedata”, questo bisogna che entri nella testa di coloro che odiano la resistenza per partito preso.
La Valdastico, era in “zona di sicurezza” e il servizio segreto militare tedesco aveva i suoi uomini e le spie italiane, nei paesi, che informavano su quello che accadeva. Un’opera di infiltrazione e di cattura di notizie che funzionava a ritmo continuo, senza interruzioni.
Il capitoletto sui fratelli Caneva, Adelmo, Bruno, Antonio, questi i principali, organici all’esercito tedesco e ai servizi segreti, ci porta dentro l’inferno dello spionaggio nazista. I capi dello SD tedesco conoscevano anche i nomi dei comandanti di brigata o di battaglione partigiani! E i Caneva, ha ragione la Residori nell’affermarlo e metterlo in evidenza, erano coloro che tiravano i fili dello spionaggio in vallata.
Al gruppo dobbiamo aggiungere Victor Piazza, un abitante della Valdastico in divisa tedesca, un giovane ambiguo e crudele, che non esiterà a denunciare intere famiglie che conosceva sin da quando era un bambino, e i loro figli che erano i suoi compagni di giochi. La guerra fa di questi scherzi, porta a galla le anime nere, il lato più oscuro dell’animo umano.
E anche di questo occorre tener conto quando si parla di Pedescala e della Valdastico in fiamme.
IL RITMO FRENETICO DI QUEI GIORNI DI FINE APRILE 1945
Dopo queste considerazioni che sono una specie di “anteprima” del massacro dobbiamo esaminare le convulsioni della ritirata tedesca. Il ritmo è frenetico, di ora in ora, la Valdastico si riempie di migliaia di soldati tedeschi in ritirata. Non hanno eccessiva fretta, sanno che gli alleati hanno scelto di non inseguirli, hanno “solo” i partigiani che li punzecchiano ai lati della valle. Ma per reparti così esperti nell’arte della guerra la presenza partigiana può bloccare per qualche ora il flusso in alcuni punti ma non è un problema irrisolvibile. La superiorità militare è tutta in mano ai tedeschi e gli scontri che avvengono hanno più un sapore di “sfogo” che di vera tattica militare. (Con questo non si vuole affermare che tutti i gruppi partigiani svolgessero azioni dissennate o senza senso, in generale in Valdastico la presenza militare partigiana era poco significativa, non incideva)
Il volume della Sonia Residori con puntiglio esplora i meccanismi del passaggio tedesco in vallata, gli scontri con gruppi di partigiani, che vengono superati, e al crepitìo delle mitraglie subentra per molto tempo una certa tranquillità. Rotta in un secondo momento dall’”osservatorio” di Castelletto di Rotzo in mano partigiana e che verrà rintuzzato da un cannoneggiamento intenso dei tedeschi dal lato destro del torrente.
Ma andiamo con ordine. Nella notte tra il 29 ed il 30 aprile i soldati russi abbandonano Pedescala. E sempre nella notte tre partigiani aiutati da una decina di civili cercano di catturare dei soldati tedeschi che si erano attardati a dormire nelle case. Vengono così catturati una ventina di tedeschi secondo il resoconto del btg. “Cirillo Bressan”.
Vengono ammassati nel bunker del paese, cimelio della prima guerra mondiale, nascosto nell’orto di un contadino. Fornito di corrente elettrica fungeva pure da archivio della “Pasubiana”.
Questo sequestro è l’azione più "provocatoria", per i tedeschi, che non passa inosservata. Il gruppo dei prigionieri, poi, sempre di notte, viene trasferito sul versante di Tonezza e tenuto sotto sorveglianza dai partigiani della “Pasubiana”.
Poche ore dopo, la mattina del 30 aprile, tutto il paese si dà da fare per nascondere le armi e le munizioni abbandonate dal reparto russo che aveva lasciato Pedescala. Questo è altro un fatto importante perché denota la consapevolezza del pericolo in corso, della possibilità di una ritorsione sull’intera comunità. Le armi devono scomparire, perché sono una “tentazione” ma anche un segnale “ostile” verso i rimanenti gruppi di soldati che transitavano in Valdastico.
Quanto alla volontà di “cacciare i tedeschi” penso che fosse senz’altro il sentimento comune ma in concreto apparteneva ad una piccola minoranza, coloro che poi verso le ore dieci si riuniscono vicino al ponte e ingaggiano una sparatoria contro una pattuglia tedesca.
Lo scontro non è una battaglia e si risolve con uno stallo. Nessun morto, afferma l’autrice, né tra i tedeschi né tra i “partigiani” improvvisati di Pedescala.
E’ quello che succede dopo qualche ora che caratterizza veramente la giornata: intanto il gruppo dei “civili” si ingrossa e le armi che servono vengono tirate fuori. I pochi veri partigiani si danno da fare per inquadrare alla meglio i giovani che premono per fare qualcosa. Si mette in piedi una organizzazione “militare” per difendere il paese, le testimonianze parlano infatti di piazzamento di mortai sul versante sinistro dell’Astico, sopra il paese per bloccare il transito tedesco oltre il ponte.
I giovani si piazzano in vari punti, anche sopra il campanile viene posta una vedetta.
La colonna tedesca che alle 11 arriva nei pressi di Pedescala è senza alcun dubbio ben informata sui fatti accaduti nel frattempo. Vengono subito piazzati i cannoni e verso mezzogiorno colpi di artiglieria cadono in paese, sulle case. E’ iniziato l’attacco portato avanti da gruppi di soldati che entrano nell’abitato dai campi sulla sponda sinistra del torrente.
Ed è il massacro. Di cui non occorre proprio fare la cronaca. Lo stesso dicasi per Forni e Settecà.
A Pedescala, Forni e Settecà non ci fu solo una operazione militare, ci fu una “pulizia abnorme”, orrenda, una ricerca della morte per gli abitanti al di là di ogni discorso militare.
A questa ferocia possono aver concorso molte cause, ma il lato umano è stato decisamente superato.
MOLTE SONO LE QUESTIONI DA CHIARIRE
A questo punto del riesame del volume di Sonia Residori sorgono parecchie questioni da chiarire.
L’autrice fa un cenno alla “Costa del Vento”, cioè alle formazioni partigiane della Pasubiana di Tonezza che inviarono a Schio il primo maggio, cioè ai comandi della “Garemi” in città (teniamo presente che Boscagli , il comandante, aveva patteggiato con i tedeschi per la loro uscita da Schio) una richiesta di aiuto per una situazione "poco chiara" in Valdastico, “bloccata dai partigiani”. Alcune staffette chiedevano aiuto – afferma Caroti – altre sostenevano che era meglio non muoversi altrimenti il pericolo di massacri sarebbe aumentato.
Da Schio il primo maggio non si mosse nessuno, perché il messaggio non faceva capire cosa stava succedendo. Ma il 2, di mattina (dopo che ormai le retroguardie tedesche erano scomparse) un contingente partigiano arriva a Pedescala e scopre cosa è accaduto.
Allora mi sento in dovere di fare alcune domande (sia all’autrice del libro che a tutti coloro che si interessano del “caso Pedescala”), che sono purtroppo poste col senno di poi, ma che sono necessarie anche se "scomode".
UN PO' DI DOMANDE "POLITICAMENTE SCORRETTE"
Che visione aveva il comando della “Divisione Garemi”, cioè Nello Boscagli e gli altri comandanti partigiani, della Valle dell’Astico? Cosa rappresentava per loro? Avevano un piano per bloccare del tutto la vallata, impegnando le formazioni, oppure avevano dato ordine di non impegnare i battaglioni e di “mantenere le posizioni”?
E gli “autonomi”? Si capisce dal racconto dei fatti che per loro era essenziale bloccare la risalita in Altopiano ai tedeschi. Tra l’altro quando ci fu la sensazione che i tedeschi stessero salendo in Altopiano vi fu una mobilitazione questa sì “corale”, le campane suonarono, civili e partigiani assieme si organizzarono, ecc.
Salta agli occhi il comportamento diverso tra gli abitanti dell’Altopiano e quelli del fondo valle, della Valdastico.
Perché? Cos’era? Una differenza antropologica o una differenza “politica”, psicologica, legata alla posizione geografica, agli impedimenti naturali e all’importanza delle strade di transito?
Ho notato che a San Pietro Valdastico, raggiunti dalle notizie di quanto accadeva giù a Pedescala, tutto il paese si mobilitò, funzionò bene una sorta di “protezione civile”, addirittura in barella si portarono via vecchi e ammalati. Anche questo è un caso che fa pensare.
Allora perché parecchie centinaia di persone a Pedescala, Forni e Settecà aspettarono che gli avvenimenti di guerra li travolgessero, senza che la “comunità” avesse un sussulto di autodifesa, quella vera, cioè la sana pratica della fuga dal paese, l’evacuazione temporanea in vista della ritirata tedesca?
La memoria collettiva delle persone conservava il ricordo delle 74 case bruciate a Camporovere nel 1944, o delle 13 case della contrà Costa (Valdastico)? Io penso di sì, ma chiedo: nessuno ha mai proposto ai paesani di Pedescala, Forni e Settecà di tenersi pronti, al primo cenno di pericolo, di fuggire dal paese e di mettersi in salvo magari a San Pietro o in altro luogo più elevato?
L’autrice mi ha obiettato che era impossibile mettere in atto una evacuazione perché il fronte era in movimento.
MA QUELLA VALLE INTERESSAVA A QUALCUNO?
Ma più che in movimento il fronte si era arrestato davanti alla pedemontana, la Valdastico era diventata solo l’imbuto, il collo di bottiglia dove “dovevano” transitare i resti dell’armata tedesca d’Italia.
Quindi c’era stato tutto il tempo necessario, direi addirittura mesi, per pensare alla “gestione del territorio”. Dire che la guerriglia applica il "mordi e fuggi" è solo una constatazione per quanto riguarda il comportamento da tenere durante gli scontri tra le parti in lotta, ma il territorio italiano doveva essere tutto zona di interesse militare e anche “politica”.
E lasciare le popolazioni allo sbando non mi sembra un bel biglietto da visita per formazioni che si dicevano (a ragione) “patriottiche”.
Quindi mi sembra che sia questo il punto centrale del “caso Pedescala”. Più che “spararono e poi sparirono”, brutta battuta, efficace per la polemica, ma senza senso se pensiamo alla situazione militare, quello che è mancato è stato un interessamento generale per la vallata nel suo complesso.
I partigiani non avevano la forza per bloccare i tedeschi. Erano in pochi, un centinaio forse, in qualche punto potevano fermarli un po’, come è avvenuto, ma bloccare 30.000, 40.000 uomini, stanchi e induriti oltre ogni limite, era una cosa veramente inimmaginabile.
E allora? Cosa costava al comando della "Garemi" stendere un piano tattico decente per l’evacuazione dei tre centri maggiori della Valdastico?
Avrebbero fatto una figurona, avrebbero tratto un profitto “politico” enorme, invece con la scelta di “circondare le città”, salvare (giustamente) gli impianti industriali, ecc. hanno puntato tutte le loro carte su obiettivi “politici” urbani, questi sì “strategici”, ma per fini diversi da quelli esclusivamente militari.
Sostengo che, dopo aver condotto una guerriglia in montagna, la scelta di “impadronirsi delle città”, svuotando il territorio montano (su cui si era vissuto), ha prodotto un prezzo altissimo nella difficile e impossibile gestione politico-militare del territorio della Valdastico.
La tesi del “mordi e fuggi”, in quell’aprile del 1945, da un punto di vista tattico, era morta e sepolta. Dappertutto i partigiani cercavano la pianura, i centri abitati, dove c’era la stragrande maggioranza della popolazione e dove si poteva anche fare i conti con i fascisti repubblicani, non solo con i tedeschi.
Dunque Pedescala. Se questo che io dico non è del tutto sbagliato allora bisogna ammettere che gli abitanti della Valdastico hanno avvertito in maniera “primitiva”, se vogliamo, ma autentica, il senso di abbandono di fronte a fatti di guerra più grandi di loro.
Tre, quattro partigiani presenti a Pedescala in quelle fatidiche ore non giustificano la battuta “spararono e poi sparirono”, anche perché questi pochi partigiani e le loro famiglie ci hanno lasciato la pelle. Un po’ di rispetto per la “minoranza” del paese che ha sostenuto la resistenza non guasterebbe.
Quello invece, ripeto, che scoccia parecchio e che genera reazioni di ipersensibilità nei sostenitori della “Resistenza” è che la disastrosa "assenza" dalla Valdastico fu il risultato di scelte politiche prima che militari. Spiace dirlo, con un’espressione così cinica e politicamente “scorretta”, ma alcune centinaia di persone della Valdastico non "valevano" quanto il "popolo" che si poteva trovare in città, dove si sarebbero ricostruiti poi i centri di potere e di governo.
Giorgio Marenghi