STORIA VENETA ILLUSTRATA DALLE ORIGINI ALLA FINE DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA

 

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DOGE VOLUTO DAI VENEZIANI FU POI TRUCIDATO

 

L’ORRENDO ECCIDIO DI CANDIANO IV

 

II popolo dimentico di aver giurato di non volerlo come Doge lo richiama in patria dall’esilio di Ravenna. Ma poi il suo governo si dimostra tirannico e la smania di potere getta una macchia sul suo operato. Scatta allora la con­giura e dopo l’assalto al palazzo ducale i rivoltosi infieri­scono con inaudita ferocia sul Doge ormai inerme e disperato e anche sul figlio...

 

 

Alla morte del doge Pietro II, in netto contrasto con quanto precedentemente giurato, il popolo veneziano portava sul trono ducale il figlio ribelle di questi, Pietro IVCandiano. Con una sfarzosa scorta di ben trecento navi, i Veneziani andarono a riprendersi il loro doge a Ravenna per restituirlo trion­falmente alla sua dignità. In linea con la politica conti­nentale già emersa durante la sua reggenza col padre, Pietro con una serie immediata di provvedimenti, inau­gurava ufficialmente una nuova linea politica.

 

Per prima cosa il doge, nel 960, decretava l’assoluto divieto per i mercanti veneziani di commerciare in schiavi con gli infe­deli. Le pene per i trasgressori erano severissime, fino alla pena di morte. Il documento riporta in calce le firme del doge e in successione quelle del Patriarca di Grado, Bono, e di tre vescovi (Torcello, Eraclea, Olivolo) per chiu­dere con quelle di due tribuni e di altri sottoscrittori. La presenza delle massime autorità ecclesiastiche venezia­ne, fanno ben intendere il peso anche politico della chiesa nelle questioni di Stato. Nel Consiglio da poco istituito e formalizzato, anzi, il voto dei rappresentanti ecclesiastici precedeva addirittura quello della rappresentanza laica.

 

Tuttavia un simile trattato non rispondeva esclusiva­mente alle esigenze di una chiesa che per sua natura rifiutava il vile commercio umano; nel contempo, infatti, la proibizione rispondeva ad una ben precisa tattica poli­tica del doge. Le sue mire espansionistiche verso la terra­ferma non potevano certo progredire senza una oculata ripresa della politica diplomatica.

 

Il commercio di schiavi, vitale e da sempre componente essenziale del commercio veneziano, non era certo la carta migliore per presentarsi sulla terraferma dove la pratica era da molto tempo aborrita e condannata. E che la decisione non fosse propriamente ispirata da un since­ro spirito cristiano, trova conferma nella clausola che ren­deva comunque possibile l’esportazione di schiavi ogni­qualvolta venisse effettuata al fine di procurare uomini da mettere al servizio del doge o del suo Palazzo.

 

Di un simile tenore anche il secondo importante provvedimen­to, ovvero la proibizione rivolta sempre ai mercanti vene­ziani, di commerciare in legno ed armi con i Saraceni. Il divieto, come in precedenza, non riguardava naturalmen­te il doge. A sottoscrivere questa volta il documento, erano stati chiamati solamente il Patriarca di Grado Vitale (figlio dello stesso doge!) e il vescovo della città.

 

Evidentemente nei dieci anni che separano i due provve­dimenti, era diminuito il numero delle personalità chia­mate a decidere su delicate questioni politiche. A confer­ma di questo, sembra parlare anche la formula con la quale viene chiamato il doge: “nostro sovrano”, mai usata in precedenza.

 

I due provvedimenti, naturalmente, non potevano che penalizzare pesantemente i traffici com­merciali dei mercanti veneziani e lasciavano inoltre tra­sparire una tendenza sempre più personalistica nella gestione degli affari di Stato da parte del doge che sembra appoggiarsi sempre più esclusivamente sulla ristretta cerchia delle più alte gerarchie ecclesiastiche. A questo si aggiungeva una spregiudicata scelta matrimoniale ai danni della prima moglie Giovanna, costretta a ritirarsi in un convento. La nuova consorte era una tal Waldrada, sorella del potente marchese di Toscana Ugo.

 

In virtù di questa parentela la donna portava in dote al doge Pietro vastissimi territori e beni immobiliari, oltre che una schiera di servi e serve. Il tutto entrava così a far parte, incrementandolo a dismisura, del patrimonio fami­gliare dei Candiano. Tuttavia, i beni non sarebbero potuti essere oggetto di eredità senza il parere favorevole del­l’imperatore Ottone I sotto la cui sovranità rientravano anche detti beni (le donne infatti secondo la legge salica non potevano ereditare alcunché, salvo, come nel caso, speciale beneficio). Il parere favorevole di Ottone I, legava invece il doge inevitabilmente alla corte imperiale sasso­ne e alla sua politica.

 

Per i veneziani era veramente troppo da sopportare. E sopportarono fintantoché visse l’imperatore, l’unica reale garanzia del governo dispotico del Candiano, ma non appena il suo successore vacillò sotto i colpi di una rivolta, anche i Veneziani insorsero contro l’odiato duca. Fallito il primo tentativo di attaccare il Palazzo ducale eccezional­mente difeso dagli uomini del doge, gli insorti decisero di stanarlo con mezzi estremi.

 

Venne infatti deciso di appic­care il fuoco ad alcune case vicine al Palazzo che inevita­bilmente si sarebbe a sua volta incendiato. E così fu. Dal palazzo in fiamme la famiglia ducale cercò invano scam­po nell’adiacente cappella di S.Marco che nella circostan­za venne poi distrutta dalle fiamme.

Il doge veniva intanto scoperto e catturato dalla folla infe­rocita. Supplicando si rivolse con parole e voce dimessa ai rivoltosi: “E perché, o fratelli, volete congiurare al mio danno? Se con le parole o con gli atti recai offesa, chiedo mi sia risparmiata la vita, pronto a soddisfare ogni vostro desiderio”.

 

Troppo tardi. Il doge infatti, finito di pronunciare la supplica, venne travolto e trafitto ripetutamente. Uguale sorte toccò all’in­nocente e ancor piccolo figlio mentre la madre Waldrada trovava scampo e salvezza nella fuga Tradotti i due corpi straziati al pubblico mattatoio, fu solo grazie al gesto di pietà di un certo Giovanni Gradenigo che le salme del doge e del figlioletto trovarono finalmente pace nella chie­sa di S.Ilario.

 

In città intanto, accanto al nuovo vuoto politico, restavano le macerie e lo squarcio provocato dall’incendio che aveva distrutto il Palazzo Ducale, la chiesa di S.Marco e la vici­na, antichissima, chiesa di S.Teodoro. Con questi edifici bruciarono inoltre più di trecento case della zona circostante fino alla chiesa di S.Maria di Zobenigo. Con il doge Pietro Candiano era scomparso anche l’anti­co, originario cuore politico e religioso di Rialto. Unaltro Palazzo, un’altra chiesa dovevano sorgere su quelle mace­rie e con essi una nuova Venezia.